Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-02-2011) 22-06-2011, n. 25065

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – L’oggetto della sentenza d’appello emessa il 16 luglio 2009 dalla Corte d’appello di Napoli che, in diversi capi, ha riformato la decisione di primo grado del Tribunale di Napoli in data 26 marzo 2007, riguarda l’esistenza e l’operatività dell’associazione camorristica denominata "clan Alfano", le cui attività illecite consistevano prevalentemente nelle estorsioni ad imprese e a commercianti. Tale associazione si sarebbe scissa attorno al 1993 in due distinti gruppi facenti capo il primo a A.G. e l’altro ad C.A. e Ci.Lu., attivi a (OMISSIS). Queste due organizzazioni, dopo la scissione, sarebbero entrate in conflitto per il predominio del territorio, fino al sanguinoso epilogo della strage dell’Arenella, diretta a punire gli scissionisti e a ristabilire gli equilibri. In questo scontro, secondo quanto riportato in sentenza, P.R., Ce.Ma. ed altri imputati, non ricorrenti in questo processo, sarebbero rimasti a fianco di A. G.; mentre V.S., B.M., M. R. ed altri imputati non ricorrenti si sarebbero schierati con il gruppo Caiazzo-Cimmino.

Le prove a sostegno dell’esistenza dell’attività di tali associazioni sono costituite, secondo i giudici territoriali, da numerose sentenze che hanno riconosciuto l’esistenza del clan Alfano, ma soprattutto dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori, in particolare da P.R., uno degli affiliati del clan, ritenute riscontrate dalle dichiarazioni di altri collaboratori e dalle indagini svolte dalla polizia giudiziaria, con le testimonianze degli ufficiali e agenti di p.g. che le hanno dirette ed eseguite.

2. – La sentenza di primo grado ha ritenuto responsabili del reato associativo (capo A) A.G., C.A., P. R., Ci.Lu., Ce.Ma., G. L., I.G., G.S., S. V., B.M. e M.a.a.R. Al.G., C.A.. e Ci. il ruolo di promotori e dirigenti.

Oltre al reato associativo le imputazioni riguardavano due tentativi di omicidio.

Del primo, realizzato ai danni del P., sono stati chiamati a risponderne C.A., Z.V., Za. e c.d. (capo NN); del secondo, posto in essere ai danni di C.A. e B. M., sono stati ritenuti responsabili A.G., P.R. e Ce., in concorso con altri imputati (capo D).

Inoltre, ad A.G., R.B., P.R. e V.S. è stato attribuito anche l’agguato e il ferimento di Mi.Al., un funzionario di banca che aveva chiuso alcune linee di credito al R.B. (capo F).

In questi tre episodi agli stessi imputati sono state contestate anche la detenzione e il porto illegale di armi (capi E, G e 00).

Gli imputati sono stati condannati anche per una serie di estorsioni:

A.G. per quella ai danni di Ca.Pi. (capo PP);

A.G. e P.R. per quella ai danni della concessionaria Fiat Azzurra (capo ZZ); A.G., P.R. e G.S. per quella ai danni di Sa.Ma. (capo AAA); A.G., P. R., L.G., Po. e F.E. per quella ai danni di Bu. (capo BBB); A.G. P.R. e C.A. per quella ai danni di F.S. (capi MMM, NNN e OOO).

Il Tribunale, invece, ha dichiarato estinti i reati di cui ai capi GGG e RRR, qualificati i fatti come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza, anzichè come estorsione, per intervenuta prescrizione, nei confronti di A.G. e Mo..

3. – Come si è anticipato la decisione d’appello ha riformato in molti punti la sentenza del Tribunale, procedendo ad una verifica circa la sussistenza dei riscontri delle chiamate in correità del collaboratore di giustizia P.R..

3.1. – P.R..

Nei confronti di P.R., collaboratore di giustizia e fonte d’accusa principale in questo processo, la Corte d’appello ha dichiarato l’estinzione dei reati di cui ai capi F) e G) per intervenuta prescrizione, rideterminando la pena in anni 12 e mesi 6 di reclusione per i restanti reati contestati ai capi A), D), E), ZZ), AAA), BBB), MMM), NNN) e OOO).

Con un unico motivo il difensore dell’imputato rileva l’erronea applicazione della diminuente di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 per avere il giudice di primo grado fatto applicazione della speciale attenuante nell’ambito di un giudizio di comparazione con le aggravanti che non poteva essere effettuato, lamentando che il giudice di secondo grado oltre a non correggere tale erronea applicazione della disposizione speciale ha omesso ogni motivazione al riguardo.

3.2. A.G..

La Corte d’appello ha riformato la sentenza di primo grado assolvendo A.G. dai reati di cui ai capi F), G), ZZ), AAA), MMM), NNN), OOO) per non aver commesso il fatto e rideterminando la pena per i residui reati di cui ai capi A), D), E), PP), BBB) in anni 19 di reclusione.

Con il primo motivo il difensore di A.G. deduce la violazione dell’art. 192 c.p.p. e il vizio di motivazione in quanto la sentenza non avrebbe fatto una corretta applicazione dei criteri di valutazione della prova in materia di riscontri individualizzanti alla chiamata in correità.

Con riferimento all’episodio del tentativo di omicidio di C. A. e B. (capi D, E) si evidenzia come manchino i riscontri individualizzanti alle accuse del P.R., non essendo confermato il ruolo di mandante dell’imputato in relazione a quello specifico episodio; stesso discorso viene fatto in relazione all’estorsione ai danni di Bu., in cui si rileva come nell’analogo caso dell’estorsione contestata al capo ZZ) gli stessi giudici abbiano escluso l’esistenza di riscontri individualizzanti.

Riguardo all’episodio estorsivo di cui al capo PP) il ricorrente evidenzia come nessun elemento probatorio certo consente di affermare il coinvolgimento dell’ A.G. e rileva come la sentenza non abbia dato alcuna spiegazione circa le contraddizioni tra le accuse del P.R. e le dichiarazioni della persona offesa.

Inoltre, per quanto concerne l’accusa di promotore dell’associazione per delinquere di cui al capo A), si rileva come la sentenza avrebbe dovuto dimostrare l’appartenenza dell’ A.G. a tale gruppo criminale nel periodo dal novembre 1996 al giugno 1997 (nel ricorso si fa erroneo riferimento a date diverse), ma tutti gli elementi di prova posti a base della decisione si riferiscono a periodi antecedenti alle date indicate.

3.3. – Ci.Lu..

La Corte d’appello, preso atto della rinuncia ai motivi di merito, ha confermato il giudizio di colpevolezza del C.L. in ordine all’imputazione associativa di cui al capo A), rideterminando la pena in anni dieci di reclusione.

Nell’interesse del Ci. il difensore di fiducia ha, preliminarmente, eccepito la nullità delle sentenze per la omessa notifica di tutti gli atti processuali a Ma.Fi., nominata tutore dell’imputato, dichiarato interdetto con provvedimento del Tribunale di Napoli in data 18.5.1999.

Con un ulteriore motivo, deduce l’erronea applicazione dell’aggravante di cui alla L. n. 575 del 1965, art. 7. 3.4. – A.C..

Con l’impugnata sentenza C.A. è stato assolto dai reati di cui ai capi MMM), NNN), OOO) per non aver commesso il fatto, mentre la sua responsabilità è stata confermata in relazione all’appartenenza all’associazione mafiosa di cui al capo A) e al tentativo di omicidio ai danni di P.R. contestato ai capi NN) e OO), con rideterminazione della pena in anni 14 e mesi 6 di reclusione.

Nel ricorso presentato nell’interesse del C.A. il difensore deduce inosservanza ed erronea applicazione delle disposizioni processuali in relazione alla valutazione degli elementi probatori a base della affermata responsabilità dell’imputato. In particolare, vengono sottoposti a critica i criteri utilizzati dai giudici di merito per ritenere riscontrate le accuse di P.R., collaboratore di giustizia, coimputato e persona offesa, in quanto vittima designata dell’omicidio che, nella ricostruzione fatta in sentenza, avrebbe organizzato lo stesso C.A..

Con riferimento al tentativo di omicidio, nonchè alla contestazione del connesso delitto in materia di armi e anche del reato associativo, il ricorrente assume che sarebbe mancato ogni esame circa l’attendibilità intrinseca del P.R. e, inoltre, manchevoli sarebbero anche i riscontri estrinseci alle sue accuse. Il P. avrebbe appreso dalla lettura dei giornali dell’arresto, avvenuto il giorno precedente in (OMISSIS), di alcuni uomini legati al C.A. e da questa notizia avrebbe dedotto che questi si trovavano lì per attentare alla sua vita, in risposta all’estorsione che lo stesso P.R. avrebbe fatto nei confronti di un supermercato situato al (OMISSIS) e riconducibile a Z. V., uno dei capi del clan dei casalesi, ma si tratta di una ricostruzione che non risulta confermata da alcun riscontro. Infatti, il ricorrente ritiene che non possano essere considerate confermative alle accuse del P.R. nè le dichiarazioni di D.B., altro collaboratore di giustizia, nè quelle di D’.

S., dichiarazioni che non riguardano in alcun modo il preteso coinvolgimento del C.A. nel tentativo di eliminazione del P.R., sicchè del tutto arbitrariamente i giudici le avrebbero ritenute collimanti. Resta la valutazione della chiamata in correità di Fr., anch’egli collaboratore di giustizia, il quale, secondo la sentenza, avrebbe sostenuto che il C.A. era a conoscenza del disegno criminoso, avendo fornito uomini in appoggio al gruppo che doveva partecipare all’operazione, ma si tratta di accuse che non hanno ricevuto alcun riscontro individualizzante e che non possono essere confermate da quanto riferito da D. e da D’. che nulla hanno detto con riferimento specifico al tentato omicidio del P.R.. Di nessun pregio ai fini del riscontro sono, inoltre, le testimonianze dei funzionali di polizia, Ca.An. e Ga.Gi..

Con un successivo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 56 e 575 c.p., censurando la sentenza in ordine alla ritenuta sussistenza degli atti idonei e non equivoci diretti a commettere il reato di cui al capo NN). Si sottolinea che l’avvenuto arresto delle quattro persone in (OMISSIS), nei pressi di un’agenzia bancaria non rappresenta una condotta diretta univocamente ad uccidere P.R., potendo, semmai, essere qualificata come attività preparatoria, quindi non punibile. Del resto, la mancanza della idoneità delle condotte ad essere considerate come tentativo di omicidio risulta anche da un dato rilevante, cioè dal fatto che i quattro non si trovavano nei pressi dell’abitazione del P.R., come sostiene la sentenza e come riportato nel capo di imputazione, dal momento che la presunta vittima risultava abitare in (OMISSIS).

Successivamente, in data 11 maggio 2010, il difensore del C. A. ha presentato nuovi motivi, che sostanzialmente riprendono e sviluppano quelli già dedotti.

In particolare, censura la sentenza in ordine alla ritenuta esistenza di un nuovo gruppo capeggiato da Ci. e C.A. e critica il giudizio sulla attendibilità del collaboratore P.R. anche in relazione al contenuto delle sue dichiarazioni in ordine all’appartenenza all’associazione.

In data 8 febbraio 2011 i difensori hanno depositato una ulteriore memoria.

3.5. – Z.V..

Nei confronti di Z.V. il giudice di secondo grado ha confermato integralmente la condanna alla pena di 14 anni per i reati contestati ai capi NN) e OO), relativi all’episodio del tentato omicidio ai danni del P. e della detenzione e porto di armi.

Nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia, con il primo motivo, denuncia la mancanza di motivazione, in quanto la sentenza di secondo grado si è limitata a confermare il contenuto di quella di primo grado, senza neppure prendere in esame le deduzioni proposte con l’atto di appello, che riguardavano: a) la mancanza di autonomia delle tre fonti dichiarative accusatorie, avendo P.R., D’. e Fr. trascorso la detenzione nello stesso istituto carcerario durante il periodo della loro collaborazione, venendo a conoscenza delle rispettive deposizioni; b) la rilevata contraddizione delle dichiarazioni del P.R. e del Fr. con riferimento all’episodio della estorsione del primo ai danni dei supermercati riconducibili allo Z.V.; c) l’assenza di riscontri alle accuse di Fr., non potendosi ritenere confermative le dichiarazioni rese da P. e da D’.. Si sottolinea, inoltre, come la motivazione circa la specifica posizione dell’imputato sia totalmente mancante, dal momento che si rinvia alle argomentazioni utilizzate nella trattazione della posizione del C.A., in cui però nessun accenno è fatto allo Z.V., quale mandante dell’azione punitiva nei confronti del P.R..

Con un secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 110, 56 e 575 c.p. nonchè il vizio di motivazione rilevando come la sentenza abbia utilizzato le sole parti coincidenti delle dichiarazioni rese da P.R. e Fr., senza esplicitare il ragionamento posto a base e omettendo ogni valutazione circa la attendibilità dei dichiaranti. Inoltre, nel ricorso si sottolinea che nella sentenza difettino i riscontri estrinseci con riferimento particolare al concorso morale cui avrebbe dato luogo l’imputato. Nessun rilievo può essere attribuito a quanto riferito da D., secondo cui Z.V. si sarebbe trovato sul luogo dell’agguato a bordo di una delle automobili, dal momento che si tratta di una dichiarazione del tutto inattendibile, che finisce per attribuire all’imputato il concorso materiale nel reato anzichè quello morale, oggetto dell’imputazione.

Con un terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 56 c.p. e il conseguente vizio di motivazione, censurando la sentenza per avere ritenuto la sussistenza del tentativo di omicidio ai danni del P., nonostante non vi fosse alcun elemento da cui desumere l’univocità e l’idoneità degli atti.

3.6. – Za.Al..

Nei confronti di Za.Al. il giudice di secondo grado ha confermato integralmente la condanna alla pena di 14 anni per i reati contestati ai capi NN) e OO), relativi all’episodio del tentato omicidio ai danni del P.R. e della detenzione e porto di armi, con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Nell’interesse dell’imputato il suo difensore ha dedotto, con il primo motivo, la violazione dell’art. 603 c.p.p., per non avere il giudice d’appello rinnovato l’istruttoria dibattimentale per accertare il luogo esatto dell’abitazione del P.R., circostanza fondamentale per valutare la sussistenza degli atti idonei ed univoci in funzione del tentativo di omicidio contestato al capo NN), nonchè al fine di sondare la stessa credibilità del Fr.. Peraltro, il ricorrente fa presente che a seguito dell’intervento della polizia e dell’arresto delle quattro persone sorprese a bordo di un’autovettura nei pressi della (OMISSIS), questi furono processati per tentata rapina e porto di armi.

Con un altro motivo viene denunciata la mancanza di motivazione e la violazione dell’art. 192 c.p.p.. Si assume che la sentenza abbia omesso ogni risposta in ordine alle contraddizioni rilevate tra quanto affermato dal Fr. e quanto riferito dall’agente di p.s. Ca.An. in ordine alle autovetture, alle persone e alle armi impiegate nel presunto agguato; che la sentenza non ha offerto alcuna motivazione relativa alla denunciata inimicizia tra Fr. e Za., che ha costituito uno dei motivi di appello funzionali a contestare l’attendibilità del narrato del Fr.; che le dichiarazioni di D’. appaiono in contrasto con quelle del Fr. e del P.R., sebbene la sentenza, in maniera del tutto apodittica, affermi esservi convergenza tra queste dichiarazioni. Viene ritenuta viziata anche la motivazione in ordine alle dichiarazioni del D., anch’esse non collimanti con le altre e soprattutto ritenute attendibili nonostante si tratti di dichiarazioni rese per la prima volta in dibattimento, dopo la piena discovery di tutti gli atti, in particolare delle dichiarazioni del P.R. a cui la deposizione è chiaramente ispirata. Analoghe critiche vengono mosse alla valutazione della dichiarazioni del P.R. e al ritenuto riscontro rappresentato dalle testimonianze di Ca. e di Gi..

Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 56 e 575 c.p., rilevando che stando alla ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza, si è trattato di una semplice attività preparatoria, che non ha rilievo penale, nemmeno sotto specie di reato tentato, in quanto non si rinviene alcuna condotta teleologicamente orientata in maniera inequivoca a cagionare la morte del P.R., il quale si trovava nella propria abitazione distante chilometri dal luogo in cui vennero sorpresi i componenti del gruppo di fuoco. Con lo stesso motivo si contesta anche l’ipotizzabilità del ed. reato impossibile.

Infine, con l’ultimo motivo si eccepisce il giudicato rispetto alla condanna per il porto delle armi, evidenziando che con sentenza irrevocabile del G.i.p. del Tribunale di Napoli del 20.12.1995 Za. è stato già condannato per l’unica arma rinvenuta il giorno dell’arresto, cioè per il porto della pistola calibro 9×25. 3.7. – c.d..

Nei confronti di c. il giudice di secondo grado ha confermato integralmente la condanna alla pena di 14 anni per i reati contestati ai capi NN) e OO), relativi all’episodio del tentato omicidio ai danni del P.R. e della detenzione e porto di armi.

Il difensore dell’imputato deduce violazione dell’art. 192 c.p.p. e mancanza di motivazione, non avendo la sentenza impugnata dato risposte ai motivi contenuti nell’atto di appello, secondo cui le dichiarazioni accusatorie di P.R., D’. e Fr. erano inattendibili perchè mancanti di autonomia, in considerazione del fatto che i tre avevano subito una detenzione comune. Inoltre, si sottolinea come il dichiarato di P.R. e Fr. risulti in contrasto su aspetti qualificanti della ricostruzione dei fatti, tra cui le modalità della estorsione operata dal P.R. ai danni dei supermercati riconducigli allo Z.V.. Infine, si censura la sentenza per avere sostanzialmente omesso la motivazione in ordine allo specifico contributo che il c.d. avrebbe offerto all’azione delittuosa, in quanto la sentenza rinvia per relationem all’esame della posizione del C.A., in cui però non vi è alcuna menzione del c. d..

Con un altro motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 56 e 575 c.p. e il connesso vizio di motivazione, rilevando che le accuse del Fr. si sono rivelate inattendibili dal momento che non è risultato che fossero presenti all’agguato tre distinti gruppi di persone ognuna con un’arma, dal momento che il ad essere arrestati sono state solo quattro persone ( Pi., c.d., mo. e Za.) a bordo di una Mercedes e con un’unica pistola. Ma soprattutto, il ricorrente censura la sentenza per avere sostenuto l’esistenza del tentativo, laddove si sarebbe trattato di meri atti preparativi, in considerazione che non è mai stato dimostrato che la vittima, cioè P.R., sarebbe dovuta passare dalla strada in cui il gruppo di fuoco si trovava.

Infine, con l’ultimo motivo si lamenta la mancata applicazione delle attenuanti generiche.

3.8. – Ce.Ma..

La Corte d’appello ha confermato la condanna alla pena di 13 anni e 6 mesi di reclusione nei confronti di Ce., ritenuto responsabile del reato di associazione di stampo mafioso (capo A), nonchè dei reati di tentativo di omicidio ai danni di C.A. e Br.

(capo D) e di detenzione e porto di armi (capo E).

Nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia, avvocato Michele Basile, con un primo motivo, deduce il travisamento della prova con riferimento alla motivazione con cui i giudici di merito sono pervenuti ad affermare la responsabilità del Ce. per concorso nel tentativo di omicidio, rilevando la omessa valutazione di un elemento probatorio, allegato dalla difesa agli atti del processo e puntualmente indicato nei motivi di appello, costituito dalle dichiarazioni rese dal commissario di P.S. Pi.Vi. in altro processo, che ha riferito che l’utenza (OMISSIS), nel periodo aprile-maggio 1997 non era in uso al Ce., ma all’ A.G.; secondo il ricorrente si tratterebbe di un elemento rilevante, in quanto il coinvolgimento dell’imputato nel delitto viene affermato in base alla chiamata in correità del P.R., riscontrata proprio dalle telefonate che questi avrebbe avuto con l’utenza sopra indicata, attribuita, erroneamente al Ce..

Inoltre, la difesa dell’imputato rileva che la sentenza non avrebbe tenuto conto di una contraddizione nella deposizione del P. R., il quale ha riferito che il Ce. avrebbe sparato dei colpi di arma da fuoco con la pistola calibro 7.65, mentre la perizia balistica avrebbe escluso l’uso di tale arma.

In ordine al delitto di partecipazione all’associazione mafiosa il ricorrente censura la sentenza sotto due profili: innanzitutto, l’appartenenza al gruppo criminale viene desunta dalla partecipazione dell’imputato al tentativo di omicidio nei confronti di C.A. e Br., sicchè dimostrata l’insussistenza probatoria degli elementi relativi a quel delitto viene meno anche la prova dell’appartenenza; inoltre, si rileva che la sentenza afferma l’appartenenza all’associazione in base alla pronuncia della Corte d’assise di appello di Napoli del 27 giugno 2020, senza considerare che è stata annullata dalla Cassazione e che la vicenda si è conclusa con l’assoluzione dell’imputato dall’omicidio di Ru.

S..

Un distinto ricorso è stato presentato dall’avvocato Antonio Raiola, il quale deduce la violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3 e il connesso vizio di motivazione, in quanto la responsabilità del Ce. è stata affermata sulla sola chiamata in correità del P.R.in assenza dei necessari riscontri, non potendo considerarsi tale la supposta telefonata intercorsa tra l’imputato e il P.R..

3.9. – R.B..

La Corte d’appello ha dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui ai capi F) e G), quest’ultimo limitatamente alla sola detenzione dell’arma, rideterminando la pena in anni 4 di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa per il reato di porto di arma, pure contestato al capo G).

Nell’interesse dell’imputato il difensore deduce, con un primo motivo, la contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza che mentre assolve A.G., V.S. e c. dall’accusa di avere eseguito il ferimento di Mi., ritiene responsabile di tale condotta il solo R.B., sulla base delle dichiarazioni rese dal P.R., il quale avrebbe riferito che fu il R.B. a chiedere all’ A.G. di "gambizzare" Mi., cioè il funzionario bancario che gli aveva bloccato i fidi. Il proscioglimento con formula piena per i tre coimputati è stato motivato in base all’assenza di riscontri alle accuse del P. R., ma quelle stesse accuse sono state ritenute, in maniera illogica, dimostrative del ruolo di mandante svolto dal R.B..

Con un altro motivo il ricorrente denuncia la assenza di ogni motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità del R.B. nel porto di arma di cui al capo G).

3.10. – L.G..

Nei confronti di L.G. la sentenza di secondo grado ha confermato la condanna ad anni 9 e mesi 6 di reclusione ed Euro 2.500,00 di multa in ordine al reato associativo (capo A) e all’episodio di estorsione ai danni di Bu. (capo BBB).

Il difensore dell’imputato deduce violazione di legge processuale e vizio di motivazione, rilevando che la partecipazione all’associazione è stata ritenuta sulla base delle dichiarazioni del P. non riscontrate, non potendosi ritenere riscontro il reato fine contestato allo stesso imputato al capo BBB).

In relazione al reato di estorsione il ricorrente assume che dalla stessa deposizione del Bu. non risulta che vi sia stata alcuna condotta da parte del L.G. diretta a coartarne la volontà tramite minacce o violenza, ma che la persona offesa si determinò a stipulare il contratto di vendita per convenienza.

In ogni caso, anche a volere ritenere sussistente la condotta estorsiva, si sarebbe trattato di una estorsione semplice, avendo l’imputato agito da solo; allo stesso modo andrebbe esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

L’imputato ha fatto pervenire una comunicazione in data 16 febbraio 2011 in cui rappresenta di avere revocato l’incarico ai suoi difensori di fiducia.

3.11. – Po.Gi. e F.E..

Entrambi condannati alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione ed Euro 400,00 di multa per l’estorsione ai danni di Bu.Ro. (capo BBB), alla quale avrebbero partecipato agendo come acquirenti fittizi degli immobili. I giudici d’appello hanno ritenuto che i due coniugi fossero ben consapevoli della natura dell’operazione estorsiva condotta dai coimputati e che il loro apporto non si è limitato alla firma del rogito notarile, ma è proseguito anche nelle fasi successive, precisando che sono stati presenti alle minacce rivolte al Bu. dal L.G. e dal P.R..

Hanno presentato distinti ricorsi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto propongono gli stessi motivi.

Entrambi eccepiscono l’avvenuta estinzione del reato per prescrizione in base alla vigente disciplina ritenuta più favorevole, sul presupposto che i giudici di secondo grado, oltre a prendere atto dell’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 avrebbero di fatto escluso anche l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 629 c.p., comma 2, implicitamente richiamata nel capo d’imputazione con il riferimento all’art. 628 c.p., nn. 1 e 3 tanto è vero che hanno fissato la pena base in anni 5 ed Euro 900,00 di multa e su questa pena hanno operato le diminuzioni per le attenuanti di cui agli artt. 62-bis e 114 c.p., ritenute prevalenti sull’aggravante. Sicchè, anche tenendo presente il periodo di sospensione dei termini di 70 giorni nel corso del dibattimento di primo grado, il reato si sarebbe prescritto il 7 luglio 2006, calcolando il termine di 12 anni e sei mesi, partendo come data dal giorno della stipula del contratto.

Con un ulteriore motivo deducono la contraddittorietà della motivazione che, da un lato, afferma che nel reato di estorsione la minaccia deve essere idonea a coartare la volontà della vittima, dall’altro, omette di verificare nei fatti tale idoneità e non considera che il Bu. ha comunque coltivato una serie di iniziative legali dirette ad ottenere l’adempimento dell’obbligazione derivanti dai titoli cambiari.

Infine, il solo Po. deduce la mancanza di motivazione in ordine alla sua partecipazione al reato, rilevando che fu la F.E. ad acquistare l’immobile, a sottoscrivere il relativo contratto e a ricevere le cambiali dal L.G. per poi girarle al Bu..

3.12.- M.R..

La Corte d’appello ha assolto M.R. dai reati di cui ai capi NNN) e OOO), confermando la sua responsabilità in relazione alla partecipazione all’associazione di cui al capo A), rideterminando la pena in anni cinque di reclusione.

L’imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione, censurando la sentenza per aver ritenuto la sua partecipazione all’associazione sulla base delle inattendibili dichiarazioni di P.R. e di D., in particolare, deduce la violazione dell’art. 192 c.p.p., in quanto le dichiarazioni del D. non possono essere considerate validi riscontri alla chiamata in correità del P.R., dal momento che riferisce fatti successivi al suo ingresso nell’associazione, da collocare alla fine del 1997, mentre la contestazione riguarda fatti fino al giugno 1997. 3.13. – B.M..

La responsabilità del B.M. per la sua partecipazione all’associazione mafiosa di cui al capo A) è stata confermata in appello, anche con riferimento alla pena di anni 8 e mesi 6 di reclusione.

Il difensore dell’imputato censura la sentenza per avere ritenuto la partecipazione all’associazione provata in base alle dichiarazioni di P. che avrebbe riferito un fatto di patrimonio comune dell’associazione stessa. In particolare, il ricorrente, preso atto che la Corte d’appello considera quanto riferito dal collaboratore una chiamata in reità diretta, in conseguenza del principio della circolarità del flusso delle informazioni riguardanti, appunto, fatti di interesse comune degli associati anche in merito ai fatti riferiti al P.R. da A.G. o da altri associati, rileva una omissione e illogicità nella motivazione della sentenza, là dove non è provato che il chiamante ( P.R.) abbia mai affermato di aver saputo da A.G. o da altri che B.M. facesse parte del clan Alfano o del clan scisso del C.. In altre parole, si sostiene che i giudici siano caduti in un errore metodologico in quanto hanno attribuito valore di circolarità ad una notizia, senza dimostrarne l’esistenza stessa. La chiamata in reità viene pertanto ritenuta del tutto autoreferenziale, nella considerazione che il B.M. non era originariamente componente del gruppo Alfano, come riconosciuto dallo stesso P.R., con la conseguenza che i giudici non avrebbero potuto sostenere che la dichiarazioni del P. fossero la prova e quelle degli altri collaboratori costituissero riscontri esterni individualizzanti. Il ricorrente assume che l’accusa di quest’ultimo non avrebbe potuto essere considerata prova diretta, ma semmai de relato, con tutte le conseguenze in ordine al regime di valutazione. Tenendo conto che il B. faceva parte di un’associazione contrapposta a quella in cui operava il P.R., i giudici avrebbero dovuto anche indicare dove e quando il P.R. avrebbe avuto un rapporto diretto con il B.M.. Peraltro, la sentenza non ha neppure indicato quale sia stato il concreto contributo nell’ambito dell’associazione.

In ogni caso, si sostiene che manchino i riscontri alla chiamata del P.R.. Riguardo al valore che viene dato al fatto che il B.M. sia stato vittima dell’attentato da parte del clan avverso, il ricorrente rileva un travisamento probatorio, in quanto dagli atti risulta che l’attentato era stato organizzato solo nei confronti del C.A., come del resto era stato dedotto già nei motivi d’appello in cui si era riportato il verbale del 22.6.2005, rispetto ai quali la sentenza impugnata non offrire alcuna spiegazione. Non ha valore quanto riferito dal D. circa la frequentazione tra B.M. e C.A., nè la dichiarazione del Ca..

Con un secondo motivo si censura la sentenza in ordine al trattamento sanzionatone, rilevando la mancanza di motivazione anche in relazione alla diversità della pena rispetto al coimputato S.S..

In data 3 febbraio 2011 il difensore dell’imputato ha depositato copia di alcuni verbali relativi all’udienze dibattimentali citate nel ricorso.

3.14. – I.G..

La sentenza di secondo grado ha confermato la condanna di I. G. per il reato associativo di cui al capo A), ma ha ridotto la pena ad anni 6 di reclusione.

Il difensore dell’imputato deduce il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione all’associazione, rilevando che la sentenza si fonda sulle accuse del P.R., ma senza indicare quale ruolo abbia avuto I.G. nell’ambito dell’organizzazione, peraltro individuando come riscontri fatti inidonei a confermare le accuse del collaboratore di giustizia, tra cui il coinvolgimento in una vicenda estorsiva, qualificata dalla cassazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dunque insuscettibile di offrire la prova della partecipazione all’associazione camorristica.

Con un distinto motivo lamenta la mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

3.15. – G.S..

In appello viene assolto dal reato di cui al capo AAA) e conseguentemente la pena viene rideterminata in anni sei di reclusione per il residuo reato associativo di cui al capo A).

L’imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione in cui deduce la violazione dell’art. 129 c.p.p. in quanto la sentenza avrebbe affermato la sua colpevolezza in ordine alla partecipazione all’associazione camorristica solo sulle accuse del collaboratore P., prive di riscontri, nonostante le pronunce intervenute in sede cautelare davanti al Tribunale del riesame e alla Cassazione che avevano già rilevato tale carenze probatorie.

3.16. – Al.Cl..

Al. è stato assolto dal reato di cui al capo ZZ, mentre è stata confermata la sua partecipazione all’associazione (capo A), con conseguente rideterminazione della pena in anni sei di reclusione.

Nel ricorso presentato dal difensore di fiducia si contesta la determinazione della pena residua, ritenuta eccessiva e immotivata.

3.17. – S.S..

S.S. viene ritenuto responsabile solo di partecipazione all’associazione di cui al capo A, con rideterminazione della pena in anni cinque di reclusione.

Nel ricorso presentato dal difensore di fiducia si contesta la determinazione della pena inflitta, ritenuta eccessiva e immotivata.

3.18. – V.S..

La Corte d’appello ha assolto V.S. dai reati contestati ai capi F), G) e AAA), rideterminando la pena per il residuo reato associativo di cui al capo A) in anni 7 e Euro 2.500,00 di multa.

Il difensore dell’imputato deduce la totale omissione della motivazione, essendosi la sentenza limitata a richiamare la decisione di primo grado, affermando che la prova dell’appartenenza all’associazione camorristica sarebbe costituita dalle collimanti dichiarazioni di P.R., D. e Pe., senza altro aggiungere e, quindi, omettendo di valutare criticamente i motivi contenuti nell’atto di appello in cui tali dichiarazioni venivano specificamente contestate.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 81 cpv. c.p., anche in relazione alla determinazione della pena in seguito alla intervenuta assoluzione per gli altri reati.

3.19. – Procuratore generale presso la Corte d’appello H procuratore generale, su istanza della persona offesa Ca.

G., propone ricorso in relazione al capo della sentenza che, rigettando l’appello, ha confermato la dichiarazione di estinzione del reato di cui all’art. 393 c.p., così qualificato il fatto originariamente contestato a A.G. e a M. R. al capo GGG).

Dopo aver illustrato l’episodio contestato ai due imputati così come ricostruito dalle sentenze e avere evidenziato i ruoli svolti nella vicenda da A.G. e da Mo.R., il p.g. ha sostanzialmente censurato la decisione sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge sostenendo che il fatto non andava qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma come estorsione.

Con un motivo aggiunto, il p.g. ha dedotto la nullità della sentenza per totale mancanza della motivazione in ordine alla qualificazione dei fatti oggetto della contestazione di cui al capo GGG) come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

3.20. – Mo.Ra..

Il difensore di Mo. ha depositato una memoria difensiva con cui contesta il ricorso del procuratore generale, chiedendone l’inammissibilità o il rigetto.

Nelle note si evidenzia come la sentenza impugnata abbia motivato in ordine alla qualifica dei fatti attribuiti all’imputato, anche rifacendosi alla precedenza sentenza di questa Corte del 17 gennaio 2007, n. 81.

Inoltre, si censura il ricorso là dove insiste circa la sussistenza del reato di estorsione.

Motivi della decisione

4. – Preliminarmente si deve disporre la separazione della posizione di Ci., dichiarato interdetto con provvedimento del Tribunale di Napoli del 28.9.1999, in quanto gli avvisi dell’udienza presso questa Corte sono stati fatti senza osservare le disposizioni previste dall’art. 166 c.p.p. Pertanto, il procedimento a carico di Ci. deve essere rinviato a nuovo ruolo.

Per i restanti imputati i ricorsi verranno esaminati accorpandoli, ove possibile, in relazione alle comuni contestazioni e alle questioni poste nei rispettivi ricorsi.

5.- Ricorso P.R..

E’ fondato il ricorso di P.R., che con l’unico motivo si duole del giudizio di comparazione tra la circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8 convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, art. 8 e le circostanze aggravanti contestate.

Infatti, le Sezioni unite di questa Corte hanno stabilito che l’attenuante ad effetto speciale della cosiddetta "dissociazione attuosa", prevista dal citato D.L. n. 152 del 1991, art. 8 non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze, precisando che qualora sia riconosciuta tale circostanza attenuante ad effetto speciale e ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, soggette al giudizio di comparazione, il giudice deve prima determinare la pena effettuando tale giudizio e successivamente, sul risultato che ne consegue, applicare l’attenuante ad effetto speciale (Sez. un., 25 febbraio 2010, n. 10713, Contaldo).

Pertanto, la sentenza deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, perchè proceda alla rideterminazione della pena inflitta al P.R., tenendo conto del principio sopra affermato.

6. – Tentato omicidio di P.R. (capi NN e OO: C. A., c., Z.V. e Za.).

Sono fondati i ricorsi presentati da C.A., c., Z. V. e Za. con riferimento alla loro partecipazione al tentativo di omicidio nei confronti di P.R. (capo NN), con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza perchè il fatto non sussiste.

La sentenza impugnata ha ritenuto che l’eliminazione di P. fosse stata decisa da Z.V., che intendeva "punirlo" in quanto responsabile di un’estorsione ai danni di un suo supermercato;

C.A. avrebbe fornito uomini ed armi; c. e Za., con Pi., Fr. e Mo. avrebbero formato il gruppo di fuoco che avrebbe dovuto uccidere P.R..

La Corte di merito ha offerto questa ricostruzione sulla base delle dichiarazioni rese da Fr., D’. e D., nonchè dallo stesso P.R., ritenendo che le accuse dei menzionati collaboratori di giustizia fossero tra esse riscontrate.

Le accuse mosse dal Fr., l’unico che abbia partecipato materialmente all’azione, risultano riscontrate da D’., che ha appreso le notizie dell’agguato dallo stesso F. e da Pi.; da D., che le ha ricevute, anche lui indirettamente, da Pi. e da Co..

Inoltre, deve osservarsi che la sentenza indica quale ulteriore riscontro anche la circostanza che alcuni imputati siano stati sorpresi dalla polizia armati e pronti all’azione: si tratterebbe della riprova che gli imputati stavano organizzando un agguato ai danni del P.R., operazione non potuta portare a termine a causa dell’intervento delle forze dell’ordine.

Invero, anche sulla base della ricostruzione dei fatti così come contenuta in sentenza occorre comunque accertare la configurabilità del tentativo di omicidio, così come ipotizzato nell’imputazione contestata ai quattro ricorrenti.

Nell’esaminare la posizione di Z.V. la sentenza impugnata sostiene che la condotta ascritta agli imputati configuri un’attività preparatoria idonea e diretta in modo non equivoco a commettere l’omicidio; in altri termini, i giudici ravvisano il tentativo riconoscendo l’idoneità degli atti posti in essere, valutandoli sulla base di un giudizio ex ante in cui riconoscono l’attitudine della condotta a creare una situazione di pericolo attuale e concreto per la lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, ciò "indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei", nella specie costituiti dall’intervento della polizia. Ricollegandosi a quanto sostenuto nella sentenza di primo grado, la Corte d’appello nel valutare la consistenza dell’idoneità degli atti prende in considerazione i seguenti elementi:

– l’azione collettiva posta in essere da un consistente numero di soggetti appostati lungo il percorso ove avrebbe dovuto transitare la vittima;

– la potenzialità dell’azione a cagionarne la morte, in considerazione del numero dei soggetti e delle armi possedute;

– il movente dell’agguato, costituito dall’esigenza di "punire" P.R., perchè appartenente al gruppo camorristico avverso e responsabile di una offesa nei confronti di Z.V..

In conclusione, l’appostamento di più persone, così caratterizzato, renderebbe, secondo i giudici, compatibile tale condotta con l’unica interpretazione possibile, quella cioè di volere attentare alla vita di P.R.: la sentenza ritiene chiaro l’obiettivo omicidiario, in quanto "le armi sono efficienti ed il luogo scelto per l’appostamento è potenzialmente idoneo".

Ritiene questo Collegio che la Corte territoriale ha limitato il suo accertamento sull’esistenza del tentativo al solo requisito della "idoneità degli atti", svalutando l’altro presupposto dell’ipotesi considerata dall’art. 56 c.p., cioè quello della "univocità" dell’azione.

L’ulteriore requisito della non equivocità o della non equivocità degli atti è f richiesto dalla norma incriminatrice per evitare una eccessiva dilatazione dell’istituto del tentativo, al fine di evitare la punizione di condotte non dirette univocamente a commettere un reato. Si tratta di un requisito che deve essere valutato in termini oggettivi, nel senso che gli atti da prendere in considerazione, esaminati nella loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono, devono possedere l’attitudine a "denotare il proposito criminoso perseguito" (Sez. 1, 24 settembre 2008, n. 40058, Cristallo ed altri).

Nel caso in esame ciò che difetta alle condotte degli imputati è proprio l’attitudine obiettiva a realizzare l’omicidio. Mentre l’imputazione di cui al capo NN riferisce di un agguato nei pressi dell’abitazione della vittima, dalle sentenze di merito si apprende che la polizia sorprese alcuni componenti di quello che sarebbe dovuto essere il gruppo di fuoco nei pressi di un istituto di credito ubicato lungo il tragitto che avrebbe dovuto percorrere P.R.;

non si tratta solo di una contraddizione tra l’imputazione e quanto ritenuto in sentenza: ciò che è mancata è la verifica sulla effettiva vicinanza rispetto all’abitazione della vittima e sul fatto che il gruppo si trovasse sull’itinerario abitualmente percorso dal P.. Si tratta di elementi fondamentali per la valutazione in ordine all’univocità degli atti in ordine al tentativo di omicidio, sui quali i giudici di merito non hanno speso alcuna parola, dandoli quasi per scontati, nonostante fossero oggetto di specifiche censure da parte dei ricorrenti, che hanno sempre sostenuto che l’abitazione della vittima fosse assai distante dal luogo in cui vennero sorpresi.

Inoltre, l’univocità viene di fatto contraddetta dalla circostanza, obiettiva, che alcuni dei partecipanti all’agguato vennero arrestati e giudicati per porto di armi e tentata rapina alla banca nei cui pressi sono stati fermati, circostanza che dimostra come gli atti presi in considerazione nell’imputazione e nelle sentenze non fossero dotati di quella non equivocità richiesta dalla norma, tanto è vero che alcuni dei fermati sono stati giudicati per un reato del tutto incompatibile con quello contestato in questo processo.

Esclusa la sussistenza del tentativo di omicidio nei confronti del P., viene meno, conseguentemente, l’ipotesi di cui al capo 00, anche considerando che per gli stessi fatti alcuni imputati risultano già giudicati.

7. – Estorsione ai danni di Bu. (capo BBB: A.G., L.G., Po. e F.E.).

Riguardo all’estorsione nei confronti di Bu.Ro., di cui alla contestazione al punto BBB, attribuita ad A.G., L.G., Po., F.E. e P.R. (quest’ultimo non ha presentato ricorso in relazione a questa capo), deve rilevarsi, preliminarmente, che il reato si è prescritto in relazione alle posizioni di Po. e F.E..

Tenuto conto che la sentenza del Tribunale è successiva all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, trovano applicazione i nuovi termini di prescrizione, nella specie quello di 12 anni e sei mesi, in considerazione del riconoscimento della prevalenza delle attenuanti sulla aggravante di cui all’art. 629 c.p., comma 2. Detto termine deve decorrere, per i due imputati, dalla data del 27 ottobre 1993, giorno in cui avvenne la stipula del contratto di compravendita dell’immobile, alla quale presero parte attivamente, nella consapevolezza che si trattasse di una vera e propria estorsione ai danni di Bu.; ma successivamente a tale episodio Po. e F.E. non risultano più avere avuto alcun ruolo nella vicenda, che è stata gestita dal solo L.G.. Sicchè deve ritenersi che per i due ricorrenti siano decorsi i termini di prescrizione del reato, anche calcolando il periodo di sospensione intervenuto nel corso del primo grado. Ne consegue che per essi la sentenza deve essere annullata senza rinvio per estinzione per reato a seguito di intervenuta prescrizione.

Va invece confermata la sentenza in ordine alla riconosciuta responsabilità del L.G., che i giudici hanno ritenuto provata sulla base delle dichiarazioni, assolutamente puntuali, rese dalla stessa persona offesa, Bu.Ro., nonchè dal P.. In particolare, L.G. dopo la stipula del contratto avente ad oggetto l’acquisto dell’immobile di (OMISSIS) di proprietà del Bu., ha costretto quest’ultimo ad accettare, in pagamento del prezzo ancora dovuto (circa L. 50 milioni), titoli di credito a firma dello stesso L.G., poi non onorati e risultati falsi, vincendo le resistenze del venditore, che si era accordato per il pagamento in contanti ovvero in assegni circolari, minacciandolo e facendo valere la forza intimidatrice dell’associazione criminale.

Quanto alla posizione di A.G. questo Collegio ritiene che il suo ruolo di effettivo acquirente dell’immobile sito in (OMISSIS) e di mandante dell’estorsione risulti provato, stando a quanto contenuto nella sentenza, solo dalle dichiarazioni rese dal collaboratore P.R., che non appaiono avere ricevuto riscontri, dal momento il Bu. ha reso dichiarazioni esclusivamente a carico di L.G., Po. e F.E., cioè delle persone con le quali ha avuto rapporti diretti in merito alla compravendita, ma nulla di preciso ha riferito sul ruolo dell’ A.G..

Pertanto, con riferimento a questo capo, la sentenza deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, perchè il nuovo giudice rivaluti la posizione dell’ A. G., verificando l’esistenza di effettivi riscontri alle chiamate in correità del P.R., diversi da quelli presi in considerazione.

8. – Estorsione ai danni di Ca. (capo GGG: ricorso P.G.).

Infondato è il ricorso proposto dal procuratore generale, anche nell’interesse della persona offesa, Ca.Ga..

La Corte d’appello ha confermato la decisione della sentenza di primo grado che aveva qualificato l’estorsione contestata a A. G. e a Mo.Ra., al capo GGG, come esercizio privato delle proprie ragioni, dichiarando conseguentemente prescritto il reato.

Il Collegio ritiene che correttamente i giudici di merito abbiano qualificato il fatto ai sensi dell’art. 393 c.p., anche tenendo conto della decisione della Corte di cassazione, che con la sentenza n. 16525 del 2007, in relazione al medesimo episodio contestato ad altri coimputati ( Ro.Mo., I.G. e P. R.), ha ritenuto sussistente l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, osservando che la Mo. vantava effettivamente un diritto personale di godimento, a seguito del provvedimento di assegnazione del piano superiore dell’immobile in questione, sicchè avrebbe agito, assieme agli altri imputati concorrenti, a protezione di tale diritto, anzichè rivolgersi al giudice per attivare le azioni possessorie.

Deve, inoltre, respingersi anche il motivo con cui il pubblico ministero ricorrente assume la mancanza della motivazione sul punto:

invero, la Corte territoriale ha esaminato il motivo d’appello trattando la posizione di Mo.Ra. e richiamando integralmente le argomentazioni utilizzate dalla decisione della Cassazione sopra indicata.

9. – Tentato omicidio di C.A. e B.M. (capi D-E:

A.G. e Ce.).

Con riferimento al tentativo di omicidio ai danni di C.A. e B.M. (capi D-E) per il quale sono stati ritenuti responsabili, tra gli altri, A.G. e C.M. – anche P.R. è stato condannato per questo episodio, ma non ha presentato ricorso – il Collegio ritiene che correttamente la sentenza abbia confermato la prima decisione in ordine alla responsabilità dell’ A.G., mentre il ricorso del Ce. deve essere accolto nei limiti che saranno in seguito indicati.

In base alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia P.R. le sentenze di merito hanno collocato questo episodio nell’ambito del contrasto tra i due gruppi criminali, capeggiati rispettivamente da A.G. e A. C.. Secondo il racconto del P.R. a decidere reliminazione del C.A. e del suo braccio destro, B. M., sarebbe stato l’ A.G.; d.a. avrebbe avuto il compito di fissare un incontro con il C. in vico Arenella; Ci.Ge. avrebbe messo a disposizione la propria abitazione come base logistica e il gruppo operativo che avrebbe dovuto colpire la vittima designata sarebbe stato composto da Ca.Sa., Ce.Ma., D.T.V. e Ch.Vi.. Sempre in base a quanto riferito dal P. R. fu ca. a sparare all’indirizzo di C.A. e B. M., che erano giunti al falso appuntamento a bordo di un motorino;

D.T. e Ch.Vi. avevano il compito di coprire la fuga, mentre il Ce. si trovava a piedi nei pressi del luogo dell’agguato. Tuttavia l’azione delittuosa non venne portata a termine in quanto C.A. e B.M. riuscirono a mettersi in salvo, nonostante quest’ultimo fosse ferito. Il P.R.h.

s.d.a.a.l.m.d.d. A. B., che aveva preso parte all’azione, in quanto si trovava con ca., a bordo del ciclomotore, quando questi esplose i colpi di pistola all’indirizzo delle vittime; è sempre P. che riferisce che ca. avrebbe detto all’ A.G. di non aver potuto colpire C.A. a causa della presenza di bambini nella strada, al che A.G. lo avrebbe rimproverato dicendogli che non avrebbe dovuto indugiare.

Le circostanziate dichiarazioni del collaboratore hanno trovato una serie di riscontri nella sentenza impugnata, tra cui i risultati delle indagini relative alla sparatoria ai danni di C.A. e B.M., avvenuta effettivamente il (OMISSIS), dove venne rinvenuto il ciclomotore utilizzato da ca., intestato a D.T., come aveva riferito il P.R.; un altro riscontro è costituito dalle indicazioni fornite da C.A. e B.M. sull’incontro con d.

A.; peraltro quest’ultimo, dopo avere detto di essere il mandante dell’agguato, ha confermato che il movente del delitto rientrava nello scontro tra il gruppo di A.G. e il gruppo del Chiazzo, fornendo, indirettamente, altro riscontro a quanto sostenuto dal collaboratore.

Ulteriori riscontri alle dichiarazioni di P.R. sono costituite, secondo la sentenza, dai contatti telefonici avvenuti subito dopo l’agguato tra lo stesso P.R. e la B. A., dalle deposizioni dei testi presenti sulla scena del delitto, nonchè dal rinvenimento dei bossoli e dei proiettili, corrispondenti per tipo e per calibro alle armi indicate dal collaboratore.

D’altra parte, correttamente la sentenza ha ritenuto ravvisabili nei fatti gli elementi del tentativo di omicidio – la cui configurabilità oggettiva non è nemmeno contestata dai ricorrenti – "in considerazione delle armi adoperate, del numero dei colpi esplosi e delle ferite riportate dalle vittime", circostanze che dimostrano la volontà omicidiaria.

Sulla base di questi elementi, che riscontrano con estrema precisione le accuse del P.R., deve ritenersi che la Corte d’appello abbia, logicamente e coerentemente, ritenuto la responsabilità in qualità di mandante di A.G., il cui ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

Non può dirsi altrettanto riguardo alla posizione di G. M.. Il suo coinvolgimento nell’azione criminosa deriva dalle dichiarazioni del P. e i riscontri sono costituiti da alcune telefonate intercorse tra i due. Tuttavia, la sentenza oltre a non spiegare il valore di questo riscontro, non prende neppure in esame il motivo dedotto con l’atto di appello in cui si contesta che l’utenza n. (OMISSIS) fosse in uso al Ce.. Secondo il ricorrente l’attribuzione di tale utenza sarebbe stata fatta sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia e dell’erroneo accertamento eseguito dalla polizia giudiziaria (ispettori As. e pe.), senza prendere in considerazione quanto dedotto dalla difesa sin dal primo grado del giudizio circa la riferibilità dell’utenza all’ A.G. nel periodo in questione, come risulterebbe da quanto sostenuto dal teste p. in altro processo, i cui atti sarebbero stati allegati e acquisiti.

Su questo punto specifico e rilevante ai fini della verifica della sussistenza dei riscontri la sentenza ha omesso ogni motivazione, sicchè si impone l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo giudizio sulla posizione del Ce., che tenga conto della questione dedotta sia in primo che in secondo grado.

10.- Estorsione ai danni di Ca. (capo PP: A.G.).

Il ricorso di A.G. in relazione alla condanna per l’estorsione di cui al capo PP è infondato.

La sentenza impugnata ha basato l’affermazione di responsabilità dell’imputato sulla testimonianza della vittima, Ca.

P., titolare dell’esercizio commerciale. Questi ha riferito che un giorno si presentò al negozio d.a. accompagnato dallo stesso A.G., conosciuto dal Ca. come un noto pregiudicato; dopo qualche giorno d. fece ritorno nel negozio, richiedendo di anticipargli L. trenta milioni in cambio di assegni postdatati, sottoscritti da una terza persona; la somma, dopo alcuni tentativi di sottrarsi alla richiesta, venne consegnata al d. e da questi mai restituita.

Secondo i giudici il Ca. si è sentito indotto ad aderire alla richiesta formulata dal d., avendo compreso che la stessa proveniva da un appartenente ad un’organizzazione criminale, dotata di forza ed efficacia di intimidazione, convincimento che sarebbe derivato proprio dalla presenza nel negozio dell’ A.G. qualche giorno prima della richiesta estorsiva, cioè del capo di un’associazione camorristica operante nella zona dove si trovava l’esercizio commerciale della vittima.

Si tratta di una motivazione che appare immune da vizi logici e fondata sulla testimonianza della persona offesa, ritenuta del tutto attendibile dai giudici di merito.

11.- Attentato a m. (capi F-G: R.B.).

Con riferimento all’episodio del ferimento di m.a., il funzionario di banca che sarebbe stato "punito" per avere negato un prestito a R.B., ha presentato ricorso solo quest’ultimo, lamentando che la sentenza nei suoi confronti abbia dichiarato estinti per prescrizione i reati di lesione personale aggravata (capo F) e di detenzione di arma (capo G), assolvendo nel merito gli altri coimputati.

Questo Collegio non può che prendere atto della mancanza dei presupposti per una sentenza di assoluzione nel merito, in quanto non risulta evidente la sussistenza di una delle condizioni previste dall’art. 129 c.p.p., comma 2. Infatti, dalla sentenza emerge che, in questo caso, a differenza che per gli altri coimputati, le dichiarazioni accusatorie del P.R. sarebbero state riscontrate da quanto riferito dal m..

Diversa la posizione del Rea in relazione al reato di porto d’arma (capo G) per cui è stata confermata la sua responsabilità. In questo caso la sentenza d’appello è totalmente priva di motivazione, sicchè deve essere annullata con rinvio per un nuovo giudizio.

12. – Reato associativo (capo A: A.G., C.A., M. R., L.G., B.M., Al., S.S., G. S., I.G., V.S. e Ce.).

Con riferimento ai reati associativi contestati al capo A, la sentenza impugnata ha sostanzialmente ribadito quanto sostenuto dal primo giudice, la cui motivazione ha espressamente richiamato.

L’originaria associazione denominata "clan Alfano" si sarebbe scissa in due distinti gruppi, il primo facente capo sempre all’ A.G., l’altro diretto da C.A. e Ci.. Le prove dell’esistenza di tali organizzazioni criminali sono costituite, secondo i giudici di merito, dalle numerose pronunce giudiziali che hanno riconosciuto l’esistenza del clan camorristico, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e dalle testimonianze degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, che hanno partecipato alle indagini, prove che sono state ritenute convergenti circa la responsabilità degli imputati, riscontrate in alcuni casi dai risultati delle intercettazioni. Particolare rilievo è stato attribuito alle dichiarazioni del collaboratore P.R., braccio destro di A.G., dopo esserne stato l’autista, il quale avrebbe fornito notizie rilevanti sull’organizzazione e sulla composizione dell’associazione, dichiarazioni ritenute attendibili e credibili dai giudici in quanto basate su una conoscenza diretta. Il collaboratore ha riferito di avere conosciuto A.G. durante una comune detenzione nel carcere di (OMISSIS) e di essere poi entrato a far parte del clan ricevendo uno "stipendio" mensile di quattro milioni di lire; nelle sue dichiarazioni ha fornito elementi sulla struttura dell’associazione, sui componenti e sulle attività criminose svolte.

E’ sempre P.R. che descrive la ricomposizione dei due gruppi camorristici dopo la scissione del 1993, con a capo, da un lato A.G., dall’altro C.A. e Ci., indicando anche le persone che si schierarono con l’uno e con gli altri. Circa l’esistenza delle due associazioni la sentenza indica come riscontri a quanto riferito dal P. le dichiarazioni rese da altri collaboratori di giustizia, tra cui Da.Br., appartenente al clan Cimmino, nonchè Gi.Ra., P.M., d.s., R.B., C.C., Fr.Do., S.C..

I giudici hanno richiamato le numerose sentenze che hanno accertato l’esistenza del clan Alfano e le vicende successive, fino alla scissione in due gruppi contrapposti, come la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Napoli in data 9 maggio 2000. 12.1. – Per quanto riguarda il ruolo di capi e promotori svolto da A.G. e C.A. nelle rispettive organizzazioni, successivamente alla scissione dell’originario clan, le prove sono costituite dalle convergenti dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia.

Nei rispettivi ricorsi i due imputati censurano la sentenza deducendo l’inosservanza delle disposizioni processuali in ordine alla valutazione delle prove, ma si tratta di critiche del tutto generiche che rivelano la loro inconsistenza avendo i giudici fondato il loro giudizio di colpevolezza in base alle convergenti dichiarazioni dei collaboratori, puntualmente richiamate, tra cui in particolare quelle di P.R. e di D., il primo collaboratore diretto di A.G., il secondo entrato nel gruppo Caiazzo-Cimmino negli anni 1996-97.

Inoltre, la sentenza ha evidenziato come il ruolo di capi-promotori di A.G. e C.A. sia emerso anche nel corso dell’istruttoria dibattimentale, in cui sono emersi riscontri sulla direzione da parte degli stessi delle loro rispettive organizzazioni criminali, anche con riferimento ai singoli episodi contestati, in cui hanno svolto sempre ruoli direttivi.

Pertanto, nei confronti di A.G. e C.A. i rispettivi ricorsi su questo capo della sentenza devono essere rigettati; per il solo C.A. gli atti devono essere trasmessi al giudice del rinvio per la rideterminazione della pena riguardante il reato residuo di cui al capo A. 12.2. – Infondato è il ricorso di M.R..

Il ricorrente assume che le dichiarazioni rese da D. non riscontrino le accuse del P.R., in quanto riferiscono fatti successivi al suo ingresso nell’associazione.

Invero, la sentenza non merita alcuna censura sul punto: le accuse dei due collaboratori di giustizia si riscontrano reciprocamente, in quanto dalla sentenza risulta che il D. è entrato a far parte del gruppo criminale capeggiato dal Ci. negli anni 1996-97, cioè nel periodo cui si riferisce il capo A dell’imputazione, sicchè correttamente i giudici hanno attribuito alle sue dichiarazioni valore di riscontro.

Sia il P.R. che il D. riferiscono del soprannome con cui veniva indicato il M.R. ("ò sapunaro"), entrambi ricordano il suo passaggio dal clan Alfano al gruppo Cimmino, il P.R. riferisce del ruolo che l’imputato ha avuto nel reperimento di esplosivi utilizzati negli attentati dinamitardi a scopo di estorsione. Nessun rilievo può essere attribuito in questa sede a quanto riferito nel ricorso circa la detenzione subita dal M.R. nel periodo relativo ai fatti considerati nell’imputazione, in quanto non risulta neppure specificato il periodo di detenzione e questa Corte non è chiamata a svolgere accertamenti di questo genere.

12.3. – Infondato è anche il ricorso di L.G., che contesta che il riscontro alle accuse del P.R. possa essere costituito dalla riconosciuta responsabilità in ordine all’estorsione di cui al capo BBB. Si osserva che correttamente la sentenza ha desunto la prova della partecipazione all’associazione anche dalla realizzazione dell’estorsione, cioè di uno dei reati fine dell’organizzazione criminale. La giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni ribadito che la prova della partecipazione di un imputato al reato associativo può essere data con ogni mezzo, precisando che non è necessaria a questi fini la condanna per alcuno dei reati fine, stante l’autonomia del reato associativo (Sez. 1, 11 luglio 2003, n. 33033, Vitello; Sez. 2, 16 marzo 2010, n. 24194, Bilancia ed altri), sicchè a maggior ragione si deve ritenere che l’intervenuta condanna per uno dei reati scopo costituisca indubbiamente un elemento di prova importante, che nel caso di specie è stato peraltro utilizzato come riscontro alle accuse del collaboratore di giustizia.

12.4. – Infondato è il ricorso di B.M..

Secondo il ricorrente la chiamata in reità del P.R., oltre ad avere un andamento circolare e autoreferenziale, sarebbe comunque priva di riscontri.

Invero, si osserva che la sentenza ha puntualmente indicato una serie di riscontri alle dichiarazioni del P.R., individuandoli nelle dichiarazioni rese da D.B. e da Ca.Ci.:

da tali elementi probatori è risultato che il B.M., nell’ambito dell’organizzazione criminosa, si è occupato della gestione del traffico di droga e successivamente della riscossione delle estorsioni e che dopo la scissione si è schierato con il gruppo Caiazzo-Cimmino. Ulteriore elemento di riscontro della sua appartenenza a questo gruppo è costituito, secondo la sentenza impugnata, dallo stesso episodio dell’attentato ai suoi danni, attentato che sarebbe stato deciso proprio in quanto appartenente al gruppo avverso.

Pertanto, deve riconoscersi che la sentenza abbia fatto buon governo sia delle disposizioni processuali in materia di valutazione della prova, sia in tema di motivazione, avendo offerto una logica e coerente spiegazione delle ragioni per le quali si è ritenuto di confermare la colpevolezza del B.M. in ordine alla sua partecipazione all’associazione di cui al capo A. Del tutto infondato il motivo con cui il ricorrente contesta il trattamento sanzionatorio, confrontandolo con quello ricevuto da altro coimputato, trattandosi di questione non deducibile in sede di legittimità. 12.5. – Sono invece inammissibili i ricorsi presentati da Al., S.S., G.S. e I.G..

I primi due censurano la sentenza in ordine alla quantificazione della pena loro rispettivamente inflitta adducendo che l’avvenuta assoluzione per i restanti reati originariamente contestati avrebbe dovuto indurre i giudici a determinare una pena più mite: si tratta di una valutazione di merito che come tale non può essere dedotta in sede di legittimità.

Manifestamente infondato è il ricorso di I. che deduce il vizio di motivazione sulla ritenuta partecipazione all’associazione, nonostante la sentenza abbia, in maniera logica e coerente, giustificato la sua condanna sulla base delle accuse del P. riscontrate con specifici episodi estorsivi da cui emerge la sua appartenenza all’organizzazione criminale. Infine, la Corte territoriale ha anche motivato le ragioni per le quali non ha ritenuto di applicare l’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

Inammissibile è, infine, il ricorso di G.S. il quale ha dedotto l’assenza di riscontri alle accuse del P.R. dopo avere, in appello, rinunciato ai motivi ai sensi dell’art. 599 c.p.p..

12.6. – Deve, invece, essere accolto il ricorso presentato nell’interesse di V.S..

La sentenza impugnata motiva la partecipazione all’associazione dell’imputato in maniera del tutto illogica, da un lato limitandosi apoditticamente ad affermare che "non vi è dubbio in ordine alla sua partecipazione al sodalizio", dall’altro riferendosi ad una condanna per associazione per delinquere di stampo mafioso precedente al periodo preso in considerazione dalla contestazione e inoltre richiamando "le collimanti informazioni rese dai collaboratori" senza fornire alcuna indicazione, anche minima, circa il contenuto di esse.

Pertanto, questo capo della sentenza deve essere annullato con rinvio alla Corte d’appello per un nuovo giudizio.

12.7. – Per quanto concerne la posizione di Ce.Ma. si osserva che, come rappresentato nel suo ricorso, l’appartenenza all’associazione è stata riconosciuta soprattutto in base alla partecipazione all’agguato ai danni di C.A. e B.M.. Ne consegue che il disposto annullamento, con la presente sentenza, dei capi D-E attribuiti al Ce., comporta l’annullamento con rinvio anche del capo A, trattandosi di questioni che la Corte di merito ha ritenuto strettamente interdipendenti.

13. – Per quanto riguarda il regime delle spese devono essere condannati al pagamento delle spese processuali L.G., B.M. e M.R. in conseguenza del rigetto dei rispettivi ricorsi; Al., I.G., G.S. e S.S. oltre al pagamento delle spese processuali, devono essere condannati anche al pagamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende per effetto della dichiarazione di inammissibilità dei loro ricorsi. Gli annullamenti seguono come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Z.V., c., Za. e C.A., quest’ultimo limitatamente ai capi NN e OO, perchè il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso del C., disponendo la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d’appello per la rideterminazione della pena in ordine al reato residuo.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Po. e F.E. perchè il reato è estinto per prescrizione.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti del P.R., limitatamente alla misura della pena a seguito di applicazione della circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8 nonchè nei confronti di Ce., R.b., V.S. e A.G., quest’ultimo limitatamente al capo BBB, e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo giudizio. Rigetta nel resto il ricorso dell’ A.G..

Rigetta il ricorso del procuratore generale.

Rigetta i ricorsi di L.G., B.M. e M.R., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Dichiara inammissibili i ricorsi di Al., I.G., G.S. e S.S., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 (mille) ciascuno alla cassa delle ammende.

Rinvia a nuovo ruolo il procedimento a carico del Ci., di cui dispone la separazione, ordinando la formazione di un nuovo fascicolo processuale.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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