Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-06-2011) 23-06-2011, n. 25289 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Reggio Calabria investito ex art. 309 cod. proc. pen., della richiesta di riesame proposta dall’indagato F.G., ha confermato l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari che in data 13.5.2010 aveva applicato al ricorrente la custodia cautelare in carcere per il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- qulnquies, aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, per avere concorso alla attribuzione fittizia a sè stesso, a C. S. e P.A., della società Freedom Cafè s.a.s., della quale il F. appariva socio accomandante, in realtà di proprietà S.G., P.D., soci occulti, e di fatto gestita da P.D., fatto commesso il (OMISSIS) (data di iscrizione nel registro delle imprese).

Il Tribunale – riassunta la storia della famiglia Pelle, i cui componenti stavano a capo dell’omonima cosca di San Luca – evidenziava che dimostravano l’intestazione fittizia in particolare una serie di conversazioni intercettate, dalle quali risultava la gestione ad opera esclusiva dei P. e l’investimento di loro denari nella impresa; gli accertamenti di polizia sulle persone che di fatto erano presenti nei locali e si occupavano della attività;

la incapacità patrimoniale degli intestatari formali; l’accertata non veridicità delle giustificazioni offerte degli indagati. I precedenti penali e di prevenzione dei P. e la loro costante ricerca di prestanomi, da un lato; l’analoga attività d’interposizione del F. nel passato, dall’altro; consentivano di ritenere provato quindi l’elemento soggettivo del reato.

L’interesse della cosca faceva ritenere altresì sussistente l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 2. Ha proposto ricorso l’indagato a mezzo del difensore, avvocato Vincenzo Nobile, chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata.

2.1. Con il primo motivo denunzia violazione di legge sostanziale e processuale, nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo che il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies costituirebbe un "reato plurisoggettivo improprio" che prevede la punizione sono di colui che attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, non anche del soggetto destinatario dell’attribuzione fittizia.

2.2. Con il secondo motivo denunzia analoghi vizi in relazione alla gravità indiziaria sostenendo che:

– il Tribunale si era limitato a richiamare una serie di principi giurisprudenziali omettendo di spiegare le ragioni per cui era stato ritenuto che la condotta del ricorrente integrasse la fattispecie contestata, sia dal punto di vista oggettivo sia dal punto di vista soggettivo;

– non erano stati indicati i dati fattuali le quali si potesse ricavare l’esistenza a carico dei P., e in particolare di D., di provvedimenti di prevenzione, nè ne la provenienza del denaro investito dai P.;

– non era stata spiegata la ragione per cui non era stata attribuita valenza probatoria ai documenti (atto costitutivo il contratto di gestione) prodotti dalla difesa dell’imputato, privilegiando le conversazioni intercettate, nelle quali uno dei fratelli P. affermava di aver investito un mare di soldi, per evidente millanteria;

– dal punto di vista soggettivo non erano indicati il grado di consapevolezza dell’indagato circa la fittizietà della titolarità formale, gli elementi gravemente indiziati in base ai quali si era ritenuto che il ricorrente fosse un prestanome e che la sua presenza nella società fosse indispensabile per l’acquisizione fittizia, giacchè lo stesso possedeva effettivamente una quota del 15%; nè si spiegava perchè alla società risultava partecipare un componente della famiglia Pelle, A., tale circostanza contraddicendo l’intenzione di non far risultare la titolarità della società in capo alla famiglia.

2.3. Con il terzo motivo reitera analoghe denunzie osservando che provvedimento impugnato mancava di filo logico, non aveva verificato la valenza indiziaria, difettava di valutazione critica della prova e valorizzava sospetti e congetture, apoditticamente si limitava a richiamare le valutazioni del G.i.p. e del P.m., ometteva di valutare la documentazione difensiva relativa la titolarità del terreno e le deduzioni sul punto che la concessione della gestione di impianti di distribuzione dei carburanti è gratuita, non spiegava perchè il ricorrente si sarebbe reso disponibile all’intestazione fittizia, attribuiva valenza accusatoria a dati del tutto generici, contrastati con quelli documentali prodotti e fondandosi e millanterie.

Motivi della decisione

1. Il ricorso appare inammissibile.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato, giacchè il soggetto che consapevolmente si presta al trasferimento o alla intestazione fraudolenti di beni a suo nome, per aiutare in tal modo il soggetto interposto ad eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di agevolare la commissione di delitti di riciclaggio, risponde, in base ai principi generali ( art. 110 cod. pen.) di concorso nel reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies.

2. Gli ulteriori motivi sono quindi per un verso manifestamente infondati, laddove sostengono che il Tribunale si sarebbe limitato a richiamare principi astratti e non avrebbe giustificato la sua decisione con specifico riferimento alla posizione del ricorrente, dall’altro generici, perchè neppure prendono in considerazione per confutarle specificamente le molte, articolate e dettagliate argomentazioni poste a fondamento della decisione censurata.

Basterà a tal fine ricordare che in punto di gravità indiziaria i giudici del riesame hanno ineccepibilmente osservato che la prova della interposizione fittizia riposava anzitutto, dal punto di vista obiettivo:

– su una serie di conversazioni (del 14 marzo 2010, 8 marzo 2010, 3 aprile 1010) intercettate all’interno dell’abitazione di P. G., sottoposto a misura di prevenzione della sorveglianza speciale, dalle quali emergeva che G., al quale spettavano tutte le decisioni relative all’attività della cosca, comprese le ripartizione di competenze fra i fratelli, aveva affidato le imprese di famiglia in parte al fratello S. e in parte a D. (classe (OMISSIS)), a questo in particolare essendo stata affidata la gestione del distributore di benzina che faceva capo alla società oggetto di contestazione, nella quale i P. avevano investito una grande quantità di denaro ("un bordello di soldi");

– su altre conversazioni intercettate sull’utenza telefonica di P.D., dalle quali risultava che lo stesso si era occupato della inaugurazione del bar all’interno della struttura di rifornimento di carburante, che usava la stessa come luogo d’incontro usuale, che era sempre presente all’interno della struttura;

– sulla circostanza che P.A., titolare della società gerente la stazione di rifornimento, era intestatario anche dei contratti per la fornitura di energia elettrica e di telefonia presso l’impianto, pur risultando che all’epoca della costruzione della società non aveva capacità reddituale ed economica sufficiente neppure per versare neppure la quota di capitale sociale di cui risultava titolare, tanto meno i capitali di investimenti iniziali;

– sulla circostanza che il F. era risultato del tutto estraneo alla gestione dell’attività commerciale, essendo state oggettivamente smentite le dichiarazioni dell’indagato e di P. A. sul punto in base agli accertamenti compiuti sulle sue utenze telefoniche (per nulla in contatto quotidiano, come aveva detto, nè con lo zio D. nè con il ricorrente);

– sugli accertamenti di polizia (effettuati anche mediante numerosi accessi sul posto), i quali attestavano che il ricorrente, pur essendo pensionato, non era mai presente presso il distributore;

– sulle scarse conversazioni intercorse tra il ricorrente ed P. A., le quali si riferivano a documenti da produrre o da sottoscrivere per l’apertura del distributore, mai alla sua gestione, neppure dopo l’arresto di A. e di P.D..

Dal punto di vista soggettivo, la finalizzazione della condotta ad eludere la possibile, anzi probabile, applicazione di misure di prevenzione patrimoniali veniva quindi dedotta:

– dal fatto che G., S. e P.D., avevano al loro attivo già plurime misure di prevenzione e Giuseppe era stato altresì condannato per associazione di stampo mafioso;

– da una delle conversazioni intercettate, nella quale P. D. ricordava che altra impresa era stata loro sequestrata, nonchè da altra conversazione, del 26 febbraio del 1010 nella quale S. e G. parlavano di avviare un’attività di vendita di prodotti caseari da intestare a un prestanome incensurato;

– dal fatto che il F. non solo aveva reso dichiarazioni sulla genesi dell’attività imprenditoriale e sul casuale ingresso nella stessa dei P. patentemente smentite dagli accertamenti effettuati, ma risultava essersi già in passato prestato a fungere, nel 2002, da formale intestatario nell’acquisto di una vettura al prezzo di oltre 24.000 Euro, il cui contratto assicurativo era stato intestato a P.S. e alla cui guida era sempre stato controllato lo stesso P.S.: tale vettura essendo stata fatta oggetto di decreto di sequestro in data 5 maggio 2009 dal Tribunale di Reggio Calabria, ovverosia soltanto due mesi prima l’intestazione fittizia della Freedom Cafè.

Appare dunque del tutto corretta, a fronte di tale messe di dati e della coerente e plausibile loro valutazione, la conclusione raggiunta, che il F. – che risultava aduso a fungere da prestanome dei P. – potesse essere ignaro, addirittura dopo il sequestro dell’auto a lui fatta intestare, del fatto che i reali proprietari della società erano P.G., D. e S. e che l’intestazione a suo nome servisse gli interessi elusivi loro, e della cosca.

3. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.

Non comportando la presente decisione la rimessione in libertà del ricorrente, la cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1- ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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