Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2011) 23-06-2011, n. 25251

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. Con una doppia sentenza conforme del gup del Tribunale di Marsala e della Corte d’assise d’appello di Palermo M.A. veniva condannato per il reato di concorso in omicidio ai danni di B. F., quale concorrente anomalo essendo stati gli esecutori materiali i fratelli G. e D., oltre che per i reati satellite in materia di armi e ricettazione. In buona sostanza veniva ritenuto che l’imputato avesse voluto un reato diverso da quello posto in essere e per questo gli veniva riconosciuta la diminuente di cui all’art. 116 c.p. e veniva condannato alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante della provocazione.

Il fatto, occorso presso il locale dei M. in lungomare (OMISSIS), era stato ricostruito in questi termini alla luce delle testimonianze raccolte: la sera del (OMISSIS) il B. aveva iniziato a scherzare con la banconista del locale, con il che il dipendente del locale P. G. aveva avvisato i M. ( D., G. ed A.) che erano sopraggiunti di lì a poco; il B. si era risentito del fatto che fossero stati avvisati i M. ed aveva schiaffeggiato il P., suscitando la reazione di M. A. che era entrato in colluttazione con il B. medesimo:

infatti questi aveva preteso che il P. si inginocchiasse e gli chiedesse scusa, al che M.A. lo aveva preso a pugni, impedendo che altri lo soccorressero; M.D. era allora uscito a passo svelto dal locale ed aveva prelevato dall’auto un fucile a canne mozze che aveva passato al fratello G., arma con cui questi aveva fatto fuoco sul B. cagionandone la morte, occorsa il (OMISSIS) successivo, conseguente a deficit multi organico per lesione all’addome da arma da fuoco a carica multipla.

La Corte territoriale sottolineava che i tre fratelli M. intervennero nel loro locale senza essere animati da una volontà omicida; M.G. e M.D., nell’ambito del processo parallelo, furono ritenuti gli autori materiali dell’omicidio, mossi da un dolo d’impeto, ma da ciò non veniva ritenuto consentito trarre la conclusione che l’arma micidiale fosse stata portata solo con l’intento di cautelarsi poichè, se lo scopo fosse stato solo di difesa, M.A., che deteneva in casa due pistole, avrebbe potuto portare quel tipo di arma di minore potenzialità offensiva . Ancora, la Corte sottolineava come i tre fratelli si fossero consultati prima di raggiungere il loro locale, come provavano i contatti telefonici intercorsi tra loro, fossero confluiti presso l’abitazione di A., dopo di che avessero raggiunto il locale a bordo dell’auto su cui era stata trasportata l’arma – si badi, nell’abitacolo dell’auto stessa – e della cui presenza il G. parlò con i fratelli (stando alla sua stessa confessione).

Giunti a destinazione, impedirono l’intervento delle guardie giurate, affrontarono il B. con fare apparentemente amichevole, cercando di ottenere una sua sottomissione, dopo di che, poichè B. pretese le scuse del dipendente P. reo di averli chiamati, i M. attuarono l’intendimento conclusivo, cioè di riportare a ragione con le maniere forti il B., attraverso l’opera di A., esperto in arti marziali. L’attacco operato da M. A. fu condiviso dagli altri fratelli che impedirono di portare soccorso al B. e fu frutto della preordinazione dei tre fratelli che partirono con l’intento di fare sottomettere la vittima.

L’iniziativa di prelevare l’arma per poi usarla scaturì dalle successive minacce del B. all’indirizzo dei tre fratelli. Ma tale segmento della condotta veniva ritenuto dai giudici di merito come la diretta conseguenza di una condotta violenta, volutamente posta in essere, con il che l’evento più grave posto in essere da G. e D., pur a fronte dell’esclamazione del ricorrente "No G., no" significativa di una dissociazione dell’imputato , non poteva considerarsi come sviluppo assolutamente imprevedibile, considerato che anche A. sapeva della presenza dell’arma micidiale trasportata sull’auto, conosceva la brutalità ed arroganza della vittima, con il che la reazione che si registrò non si profilava come evento eccezionale. Di conseguenza, veniva ritenuto corretto collocare l’elemento psicologico dell’imputato in quella zona intermedia del c.d. concorso anomalo ex art. 116 c.p., poichè il medesimo, seppure non aveva previsto la commissione dell’omicidio da parte del concorrente M.G., avrebbe potuto rappresentarsi detta eventualità quale possibile conseguenza dell’aggressione operata ai danni del B.. In altre parole, l’omicidio, proprio perchè attuato con arma micidiale, non poteva ritenersi conseguito a fattori eccezionali sopravvenuti, meramente occasionali, non ricollegabili eziologicamente alla programmata aggressione, ma doveva essere ricondotto all’ordinario svolgersi del fatto violento voluto.

Il ritenere la diminuente di cui all’art. 116 c.p. non configurava, come sostenuto dalla difesa, alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, poichè ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 c.p.p., deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le risultanze probatorie, portate a conoscenza dell’imputato e fatte oggetto di sostanziale contestazione: nel caso di specie, al M. venne contestato il concorso morale e materiale nell’omicidio cui si ha riguardo, quindi venne contestata una condotta ampia che copriva anche il c.d. concorso anomalo, laddove invece il mutamento del fatto richiede una trasformazione radicale della fattispecie concreta.

La diversa definizione intervenne già in primo grado, in sede di appello l’imputato non ebbe a prospettare mezzi di prova nuovi o ulteriori , il che dimostra che non si configurò alcuna limitazione al diritto di difesa, sotto i diversi profili ricavabili dalla giurisprudenza europea.

Quanto alla intervenuta attribuzione della colpevolezza anche per i reati satelliti, la corte faceva rilevare che il ricorrente era più che consapevole del porto di arma a canne mozze, quanto meno nel breve tragitto che lo portò insieme ai due fratelli nel locale, la sera del fatto, posto che lo stesso G. disse di aver avvisato i fratelli della presenza dell’arma che non venne neppure nascosta, ma tenuta nell’abitacolo dell’auto condotta da M.A..

Sul trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale riteneva che la valutazione del primo giudice fosse assolutamente immune da censure, poichè le contenute riduzioni di pena per le attenuanti e diminuenti riconosciute sono state riconnesse alla particolare violenza usata nei confronti della vittima ed alla micidialita dell’arma usata.

2. Avverso detta pronuncia ha interposto ricorso per cassazione l’imputato per dedurre:

2.1 violazione di legge in relazione agli artt. 192 e 530 c.p.p., art. 111 Cost., art. 116 c.p. in relazione agli artt. 42, 43 e 575 c.p.: secondo l’imputato i fatti sarebbero stati ricostruiti in modo non corretto, perchè contrastante con quanto operato dagli inquirenti e con quanto accertato con sentenza irrevocabile emessa nei confronti di M.D. e M.G., sentenza che non mancava di sottolineare come l’intervento di M.A. seguì alla cattiveria con cui il B. si avventò sul povero giovane dipendente e che furono le minacce di morte del B. ad indurre il G. a recuperare l’arma lasciata sull’autovettura.

Ciò detto, è stato correttamente collocato il processo volitivo del G. nell’ambito del dolo d’impeto , escludendo l’aggravante della premeditazione. La Corte avrebbe erroneamente affermato che A. conosceva la presenza dell’arma da utilizzare contro il B., laddove l’arma era occultata sotto il sedile posteriore e non vi sono spunti obiettivi che facciano ritenere A. consapevole della presenza dell’arma sull’auto. L’incontro con ANTONIO avvenne quando gli altri due fratelli avevano già prelevato l’arma , poichè l’auto era di M.G. e poichè A. fu l’ultimo a salire a bordo di detta auto. La frase che A. avrebbe pronunciato "No G., no" proverebbe la sorpresa dello stesso, l’esortazione a non sparare e la non conoscenza dell’esistenza dell’arma. Di talchè l’azione del G. sarebbe autonoma, improvvisa ed indipendente dalla condotta precedente, quindi non in rapporto di logica prevedibilità rispetto alla precedente colluttazione. La stessa iniziale colluttazione tra M.A. ed il B., non era stata programmata, in quanto fu una reazione autonoma e nel contempo improvvisa, cagionata dal comportamento altrettanto improvviso del B.. Secondo il ricorrente per potersi configurare il concorso anomalo occorre una condotta delittuosa prevista e sullo sviluppo della stessa deve innestarsi il reato più grave, non voluto, posto in essere da altro soggetto: nel caso di specie , il gesto del ricorrente di colpire il B. sarebbe stato frutto di autonoma determinazione, sganciata da alcuna pur minimale previsione. L’intervento dei due fratelli non va collocato come seguito allo scontro tra A. e B., bensì alle minacce di morte profferite da quest’ultimo. La frase pronunciata dal ricorrente segna l’incredulità dello stesso, la forte preoccupazione per l’evento che stava per prodursi, che non voleva, di talchè da tale reato doveva andare assolto.

2.2 violazione di legge in relazione agli artt. 192 e 530 c.p.p. e artt. 42, 43, 110 e 648 c.p.: l’arma venne portata da M. G., per cui non solo A. non doveva rispondere del reato di porto di arma, ma meno che meno poteva rispondere di ricettazione dell’arma stessa, per il solo fatto che l’arma si trovava all’interno dell’auto su cui fu preso a bordo.

2.3 violazione artt. 521 e 522 c.p.p., in quanto la corte d’assise d’appello avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza del gup di Marsala, poichè al M. venne contestato il concorso in omicidio volontario premeditato, che presuppone condotte materiali e processi volitivi del tutto incompatibili con quelli dell’ipotizzato concorso anomalo nel delitto di omicidio da altri voluto e realizzato.

2.4 violazione di legge in relazione all’art. 62 bis c.p., art. 62 c.p., n. 6 e art. 116 c.p.: non sarebbe stata fornita adeguata motivazione sul perchè gli abbattimenti di pena previsti dalle attenuanti e diminuenti indicate sono stati contenuti, ancorchè il B. sia stato di fatto considerato soggetto molto pericoloso.

Motivi della decisione

Il ricorso è parzialmente fondato.

Il primo ed il terzo motivo sono infondati: la condotta posta in essere dal ricorrente è stata ricostruita dai giudice di merito nei suoi esatti termini non contestati dalla difesa. Ciò di cui si duole è la intervenuta riconduzione di detta condotta nell’ambito del concorso anomalo, laddove l’intervento armato del fratello dell’imputato sarebbe da inquadrare in una improvvisa ed imprevedibile eventualità del tutto svincolata dalla condotta violenta posta in essere in precedenza dall’imputato.

Tale prospettazione non è corretta, avendo la Corte territoriale messo in evidenza come l’azione di fuoco era del tutto prevedibile, atteso che i tre fratelli si riunirono prima di accedere al loro locale , si dotarono di arma dalle notevoli potenzialità offensive, affrontarono il B., soggetto notoriamente conosciuto per i suoi tratti aggressivi e violenti, tanto che alle minacce da questi profferite passarono alla seconda fase dell’azione che inevitabilmente prevedeva l’uso della micidiale arma che avevano portato con loro. In questa prospettiva la Corte ha fatto buon governo del dato normativo e della interpretazione che dello stesso viene offerta, riconoscendo la inconfutabile prevedibilità di una degenerazione in fatti di sangue, a fronte di espressa adesione ad un’impresa criminosa consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo, mediante l’impiego di micidiale arma da sparo (Sez. Un. 18.12.2008, n. 337).

In sostanza correttamente la corte non ha ritenuto l’omicidio un evento eccezionale e non ricollegabile eziologicamente alla condotta criminosa di base, in considerazione del fatto che l’aggressione fisica (evento voluto) determina inevitabilmente il naturale impulso della vittima di resistere alla violenza e di reagire, soprattutto in un caso come quello di specie, in cui il B. era conosciuto per la sua virulenza, così Innescando un crescendo nella successione di azione-reazione assolutamente tipico e prevedibile. Pertanto, lineare e priva di forzatura è la conclusione tratta sull’omicidio come risultante di uno sviluppo dell’azione assolutamente prevedibile di cui anche l’imputato, non esecutore materiale dello sparo, deve essere chiamato a rispondere per aver partecipato ad un’azione che con elevato grado di probabilità poteva sfociare in un fatto più grave, come in effetti accadde. La frase pronunciata "no G., no" allorquando vide il fratello dirigersi verso l’auto, non ha portato i giudici di merito ad opinare diversamente, poichè, come è stato scritto, per quanto il ricorrente abbia sicuramente aderito sotto il profilo psicologico solo ad un’azione meno grave, egli offrì un contributo causale decisivo nei determinare quella situazione di tensione che portò alla degenerazione, ma soprattutto non si adoperò per prevenire o neutralizzare l’intervento armato dei fratelli: l’iter logico ed argomentativo non si espone ad alcuna censura.

Detto ciò, va aggiunto che il motivo di ordine processuale, relativamente alla violazione dell’art. 521 c.p.p., è palesemente infondato: i giudici di merito hanno motivato in ordine al fatto che la diversità di reato ritenuto, rispetto a quello contestato, non ha comportato alcun sacrificio al diritto di difesa, ricordando che fin dal 1996, le Sezioni Unite della Cassazione (con la sentenza n. 16/1996) avevano statuito che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta in cui si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa , con il che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio non va condotta in base ad un confronto meramente letterale fra contestazione e sentenza, perchè vertendosi in materia di garanzie e di difesa la violazione è insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. Il principio è stato ripreso e riaffermato di recente , sempre dalle Sezioni Unite (sentenza 15.7,2010, n. 36551).

Nel caso di specie peraltro giova sottolineare che la doglianza suona come nota stonata , se solo si consideri che il fatto nella sua ricostruzione non è stato oggetto di contestazione e che la riconduzione della condotta dell’imputato nell’alveo dell’art. 116 c.p., non interferisce con il principio sancito dell’art. 521 c.p.p., trattandosi di una modalità di comportamento che costituisce un minus rispetto alla condotta oggetto della contestazione .

Va invece accolto il terzo motivo di gravame, concernente le armi: è infatti pacifico che sull’auto nella disponibilità dell’imputato fu collocato il fucile di proprietà di M.G. ed è altrettanto incontestabile che l’imputato era a conoscenza della presenza del fucile e del suo possibile utilizzo: da tali emergenze non poteva essere però tratta, come hanno fatto i giudici di merito, la conclusione sul possesso comune dell’arma e quindi sulla responsabilità anche di M.A. a titolo di detenzione e porto del fucile, nonchè di ricettazione dello stesso. La conclusione non è consentita in primis perchè il titolare dell’arma era pacificamente M.G. che allorquando la ricevette, consumò il reato di ricettazione presentandosi l’arma come frutto di un’opera illegale di mozzatura delle canne. La deduzione secondo cui al momento in cui l’odierno imputato vide il fucile sull’auto, seppure nella previsione che potesse essere usato dal fratello all’occorrenza , acquisì autonoma disponibilità dello stesso non è consentita proprio perchè contrastante con il dato di fatto che l’arma continuò ad essere nell’esclusiva disponibilità del G. (tanto è vero che fu lui ad usarla). Pertanto non è accettabile l’attribuzione all’imputato dell’addebito di ricettazione, così come degli addebiti specifici in materia di armi.

Sul punto la sentenza deve essere annullata, senza rinvio, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. l), potendosi operare lo scomputo della pena di mesi otto di reclusione che era stata inflitta per i reati sub capi b) e c), con rideterminazione della pena per il residuo reato di cui al capo a) in quella di anni sei di reclusione.

Va invece disatteso l’ultimo motivo , riguardante la dosimetria della pena, atteso che la Corte territoriale ha dato ragione, sia con il richiamo alla gravità del fatto omicidiario, sia con la considerazione che fu l’imputato a percuotere pesantemente la vittima, della riduzione non nella massima estensione che è stata operata per effetto di ciascuna delle circostanze attenuanti ritenute. La motivazione sottostante alle valutazioni di merito , non censurabili in detta sede, è congrua ed immune da illogicità.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi b) e c) per non avere l’imputato commesso i fatti e ridetermina la pena per il residuo reato di cui al capo a) in anni sei di reclusione.

Rigetta nel resto il ricorso.

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