Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 26-05-2011) 23-06-2011, n. 25249

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Svolgimento del processo

1. Il 27 ottobre 2009 il gup del Tribunale per i minorenni di Milano, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava M. alias W.M. alias M.F.M.M.M. colpevole dei delitti, in forma concorsuale, di tentato omicidio (capo a), rissa (capo b) e della contravvenzione di porto abusivo aggravato in luogo pubblico di un coltello (capo c) e, ritenuta la continuazione fra i reati, applicata la diminuente della minore età e del rito abbreviato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di sette anni di reclusione, oltre alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Applicava, inoltre, la misura di sicurezza del riformatorio, da eseguire nelle forme del collocamento in comunità per la durata di due anni e sei mesi.

2. Il 23 settembre 2010 la Corte d’appello di Milano, sezione per i minori, in parziale riforma della decisione della decisione di primo grado, appellata dall’imputato, assolveva M. alias W. M. alias M.F.M.M.M. dal delitto di tentato omicidio per non avere commesso il fatto e, per l’effetto, rideterminava la pena per i restanti reati in dieci mesi di reclusione. Confermava, nel resto, la sentenza di primo grado.

3. Da entrambe le sentenze emergeva la seguente ricostruzione dei fatti. Il (OMISSIS), intorno alle ore 23,30, nel cortile interno di uno stabile posto in (OMISSIS), scoppiava una rissa per questioni legate al mercato della droga al dettaglio, cui partecipavano due gruppi contrapposti di cittadini egiziani. Ad una delle due fazioni appartenevano il ricorrente, il maggiorenne A. S. e un altro individuo, mentre del gruppo avverso facevano parte M.K., H.W. e A.E.R.. Quest’ultimo, nel corso della rissa, veniva attinto da quattro colpi di coltello che lo attingevano alle pleure e al cuore, provocandone il decesso quasi immediato.

3. Il gup riteneva provata la responsabilità dell’imputato in ordine a tutti i reati a lui contestati sulla base delle testimonianze rese dalle persone presenti all’accaduto, S.M., M.K., A.B.A., S.H.. Le stesse riferivano concordemente in merito alla disponibilità di un coltello da parte del minore che, con esso, sferrava colpi nel tentativo di colpire chi si avvicinasse a lui, pronunziando al contempo frasi minacciose, nonchè in ordine all’aggressione della vittima ad opera del solo maggiorenne A.S. che, nel corso della rissa, aveva preso il coltello in possesso dell’odierno ricorrente. Ad avviso del giudice di primo grado le testimonianze acquisite erano confermate dalle parziali ammissioni dell’imputato, dal contenuto del referto medico a lui rilasciato sotto falso nome dai sanitari del nosocomio dove si era fatto curare, attestante lesioni del tutto compatibili con la partecipazione ad una rissa, dal sequestro nel luogo del fatto di un coltello da cucina con lama lunga circa dodici centimetri, di un bastone di legno e di pezzi di pegno, tutti macchiati di sangue. Dal complesso di questi elementi il gup argomentava che l’imputato aveva partecipato armato ad una rissa e aveva estratto il coltello durante le fasi iniziali della stessa. Le caratteristiche dell’arma, le modalità di utilizzo da parte del minore che l’aveva estratta di propria iniziativa nel contesto della rissa, nella quale nessuno impugnava armi proprie, la complessiva condotta dell’imputato che aveva brandito l’arma all’indirizzo degli antagonisti, profferendo la frase "se qualcuno mi tocca l’ammazzo", il passaggio consenziente dell’arma dal minore alle mani del maggiorenne corrissante, la pregressa conoscenza del maggiorenne del minorenne quale soggetto "aggressivo" ed "incapace di parlare con gli altri", costituivano altrettanti elementi che, ad avviso del gup, imponevano di ritenere che il minore, pur in mancanza di un pregresso accordo e di una prova certa circa un’effettiva deliberazione omicidiaria, erano univocamente indicativi della consapevolezza, da parte del ricorrente, dell’uso lesivo che A.S. ne sarebbe stato capace di fare per risolvere le sorti della rissa in proprio favore. Egli, dunque, aveva accettato il rischio, valutato certamente come altamente probabile, che il maggiorenne potesse utilizzare l’arma e con essa cagionare la morte degli antagonisti.

4. La Corte d’appello di Milano assolveva l’imputato dal delitto di tentato omicidio sulla base delle dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio – svoltosi il 13 novembre 2008 nell’ambito del processo a carico dei coimputati maggiorenni – da S.H. e H.W.. Entrambi riferivano che il maggiorenne, nel corso della rissa, aveva "tirato via" il coltello dalle mani del minorenne e aveva colpito a morte la vittima. Mancava, quindi, la prova di una qualsiasi forma di contributo materiale o morale del minorenne alla consumazione dell’omicidio.

5. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, che lamenta erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione. Osserva in proposito che il giudice di secondo grado è pervenuto all’assoluzione dal delitto di tentato omicidio valorizzando esclusivamente le dichiarazioni acquisite nell’ambito dell’incidente probatorio e omettendo di valutare le stesse nell’intero contesto dell’azione che è stata esaminata in maniera frazionata e incompleta. In realtà il minorenne, portando con sè l’arma, correndo con essa contro gli avversari ed estraendola al loro cospetto, non opponendosi al suo passaggio di mano, dette un fondamentale contributo alla consumazione dell’omicidio, posto che dette ausilio e soccorso al correo maggiorenne nel momento in cui questi si slanciò contro la vittima che ostacolava i due che intendevano spacciare in quel posto.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Il giudice d’appello che riformi la decisione di primo grado ha l’onere di esaminare tutti gli elementi acquisiti, di valutare la loro valenza probatoria e di spiegare le ragioni sottese ad un diverso epilogo decisionale. In presenza, quindi, di due decisioni di merito difformi, ai fini della rilevabilità del vizio di motivazione in ordine ad una (o più) prova omessa decisiva la Corte di cassazione può e deve fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza d’appello, ma anche a quella di primo grado allo scopo di stabilire se l’iter logico argomentativo seguito dal giudice dell’impugnazione sia stato fondato sulla disamina di tutte le prove acquisite oppure abbia pretermesso altre, decisive informazioni.

La mancata risposta dei giudici d’appello circa la portata di decisive risultanze probatorie acquisite al processo inficia la completezza e la coerenza logica della sentenza a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il materiale probatorio esistente e il contenuto della pronuncia e la rende suscettibile di annullamento. Ne consegue che la Corte di cassazione, senza necessità di accedere agli atti d’istruzione probatoria, prendendo in esame il testo della sentenza impugnata e confrontandola con quella di primo grado è chiamata a saggiarne la tenuta, sia "informativa" che "logico-argomentativa" (Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n. 45276, rv. 226093). Una verifica del genere è compatibile con le funzioni della Corte di cassazione, in quanto essa non richiede la individuazione del risultato probatorio, ma comporta unicamente un confronto tra la richiesta di valutazione di una prova e il provvedimento impugnato.

2. Nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che "nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talchè il limite della valenza di ognuno risulta superato sicchè l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto… che – giova ricordare – non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metolodogica che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice" (Cass., Sez. Un. 4 febbraio 1992, n. 6682, rv. 191231).

Le linee dei paradigmi valutativi della prova indiziaria sono state recentemente ribadite dalle Sezioni Unite che hanno evidenziato che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può, perciò, prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa, tendente a porre in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Cass. Sez. Un. 12 luglio 2005, n. 33748, rv. 231678).

3. La regola dell’"oltre il ragionevole dubbiò" formalizzata nell’art. 533 c.p.p., comma 1, come sostituito dalla L. n. 46 del 2006, art. 5 impone di pronunciare condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 c.p.p., comma 2, – il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonchè in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), – deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di razionalità quindi alla "certezza processuale" che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio.

Il concetto, espresso in alcune recenti sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 21 aprile 1995, n. 11, rv. 202001;

Cass., Sez. Un. 10 luglio 2002, n. 30328, rv. 222139; Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n. 45276, rv. 226094), cui si è uniformata la giurisprudenza successiva (Cass., Sez. 1, 21 maggio 2008, n. 31456, rv. 240763; Cass., Sez. 1, 11 maggio 2006, n. 20371, rv. 234111), ancor prima della modifica dell’art. 533 c.p.p., era già stato chiaramente delineato dalla giurisprudenza di legittimità. Si era, in proposito, argomentato, che la prova indiziaria è quella che consente la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili (Cass. 2 marzo, 1992, n. 3424, rv. 189682; Cass. Sez. 6, 8 aprile 1997, n. 1518, rv.

208144; Cass. Sez. 2, 10 settembre 1995, n. 3777, rv. 203118).

In questo articolato contesto, la regola di giudizio dell’"oltre il ragionevole dubbio" pretende percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, essendo indiscutibile che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova. E’ evidente, in tale prospettiva, la stretta correlazione, dinamica e strutturale esistente tra la regola dell’"oltre il ragionevole dubbio" e le coesistenti garanzie, proprie del processo penale, rappresentate: a) dalla presunzione di innocenza dell’imputato, regola probatoria e di giudizio collegata alla struttura del processo e alle metodiche di accertamento del fatto; b) dall’onere della prova a carico dell’accusa; c) dalla regola di giudizio stabilita per la sentenza di assoluzione in caso di "insufficienza", "contraddittorietà" e "incertezza" della prova d’accusa ( art. 530 c.p.p., commi 2 e 3), secondo il classico canone di garanzia in dubio pro reo; d) dall’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e della necessaria giustificazione razionale delle stesse.

4. La struttura e l’articolazione della motivazione della sentenza impugnata appaiono conformi ai principi in precedenza enunciati.

Infatti i giudici d’appello sono pervenuti alla confutazione delle conclusioni assunte dal gup sulla base, da un lato, di una scrupolosa analisi delle argomentazioni da questi poste a base della decisione di primo grado e, dall’altro, del puntuale esame delle dichiarazioni rese il 13 novembre 2008, in sede di incidente probatorio assunto nell’ambito del processo a carico dei coimputati maggiorenni, da S.H. e H.W..

In proposito ha correttamente evidenziato la Corte territoriale, che da entrambe le testimonianze risultava in modo univoco e chiaro che, nel corso della rissa, il coimputato maggiorenne si era impossessato del coltello con il quale il minorenne cercava di tenere lontano da sè gli avversari e con esso aveva colpito a morte la vittima.

L’azione è stata, quindi, correttamente ricondotta, avuto riguardo alla sua fulmineità ed estemporaneità, all’esclusivo processo decisionale del coimputato maggiorenne in assenza di alcun obiettivo elemento univocamente espressivo di una qualsiasi forma di contributo materiale o morale del minorenne alla consumazione dell’omicidio.

Nè, d’altra parte, possono trovare ingresso in questa sede prospettazioni (come quelle formulate dal pubblico ministero ricorrente) volte a mirate estrapolazioni delle dichiarazioni dei testi dal più ampio tessuto narrativo oppure ad una non consentita lettura alternativa del contenuto degli atti acquisiti.

Per tutte questa ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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