Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 26-05-2011) 23-06-2011, n. 25248

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 16 settembre 2009 il Tribunale di Palermo dichiarava C. M.D., C.P., C.G., Ca.An. colpevoli dei delitti, in forma concorsuale, di tentato omicidio (capo a) e porto abusivo aggravato in luogo pubblico di un’arma comune da sparo (capo b) e, ritenuta la recidiva reiterata infraquinquennale per Ca.An., C.G. e la recidiva specifica reiterata infraquinquennale per C.P., ritenuta la continuazione fra i reati, condannava C.P. alla pena di dodici anni di reclusone, C.G. a quella di anni dieci e sette mesi di reclusione, C.M.D. alla pena di quattro anni e nove mesi di reclusione, Ca.An. alla pena di sette anni e un mese di reclusione; dichiarava tutti gli imputati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e legalmente interdetti durante la pena.

2. Il giorno 1 luglio 2010 la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della decisione di primo grado, appellata dagli imputati, qualificava il fatto di reato di cui al capo a) ai sensi degli artt. 110 e 582 c.p., art. 583 c.p., comma 1, n. 1, art. 585 c.p. e, per l’effetto, rideterminava in sette anni di reclusione la pena inflitta a C.P., in cinque anni e sei mesi quella irrogata rispettivamente a C.G. e Ca.An., in tre anni e dieci mesi quella applicata a C.M. D..

3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che l’8 maggio 2007, gli imputati, a bordo di due furgoni, un "Fiat Daily" bianco guidato da Ca.An. con a bordo C.M.D. e un "Kia Motors" bianco su cui viaggiavano C.G. e il padre P., si erano dati all’inseguimento di un ciclomotore condotto da Co.Gi., su cui si trovava anche D. G..

Nel corso dell’inseguimento, il furgone "Kia Motors" aveva affiancato il motorino e C.P., dall’abitacolo o dal cassone del mezzo, aveva esploso contro di esso in rapida sequenza con la mano destra tre – quattro colpi d’arma da fuoco. Quindi i due furgoni avevano proseguito l’inseguimento del ciclomotore fin quando i due occupanti dello stesso trovavano rifugio nello spazio condominiale di un residence. Qui giunti, gli aggressori proseguivano l’inseguimento effettuando due giri all’interno dell’area e poi interrompevano l’azione, temendo l’intervento delle forze dell’ordine. Nel fare manovra per abbandonare il luogo uno dei furgoni urtava un’auto parcheggiata.

D.G., prontamente soccorso a seguito della segnalazione dell’accaduto alla centrale operativa dei Carabinieri, riportava la frattura poliframmentaria da scoppio con due corpi estranei metallici (proiettili d’arma da fuoco) del terzo superiore della tibia destra.

Ad avviso dei giudici, la spedizione punitiva si inquadrava nell’ambito del contrasto esistente tra Ci.Ga., abitante nel quartiere (OMISSIS), e P.G., del quartiere (OMISSIS) (cui i C., dimoranti nella stessa zona, erano legati da rapporti di conoscenza), a causa di un sinistro stradale che aveva coinvolto la figlia di Ci. che non aveva ottenuto il risarcimento dei danni patiti ad opera di P., suo investitore, il cui mezzo era risultato privo di copertura assicurativa;

La responsabilità degli imputati veniva ritenuta provata sulla base di plurimi e convergenti risultanze probatorie: a) dichiarazioni rese da alcuni testi oculari ( B.C., P.E., F. C.D., P.S., D.F.G., V.G., D.S.); b) deposizione del Cap. Z.A., che riferiva in merito alle modalità d’identificazione di Co.Gi., presentatosi in ospedale per chiedere notizie dell’amico e, come lui, reticente nel riferire le circostanze del ferimento; c) testimonianza dell’appuntato dei Carabinieri F.P. che aveva assistito alla fase finale dell’inseguimento e aveva notato il furgone su cui si trovavano Ca. e C.M.D. – entrambi da lui riconosciuti con certezza, trattandosi di persone in precedenza da lui sottoposte a controlli – che seguiva a forte velocità il furgone "Kia Motors" di cui avevano annotato il numero di targa; d) esito degli accertamenti tecnici effettuati sulla compatibilità dei residui di vernice rilevati sulla "Fiat Palio" danneggiata e il furgone "Turbo Daily" e sulla riconducibilità dei danni presenti sui due mezzi con le modalità della manovra effettuata dal furgone dentro l’area condominiale; e) risultanze dello stub eseguito la notte tra l'(OMISSIS), ossia in un momento prossimo alla sparatoria, sugli indumenti indossati da C.G. e C.P. che permettevano di rilevare univoche tracce da sparo sugli indumenti indossati dal primo e sulla man destra del secondo;

f) accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria in merito ai vincoli familiari esistenti tra gli imputati, evidenzianti, tra l’altro, che Ca. aveva sposato una figlia di C.P., era cognato di C.G. e C.M.; g) contenuto delle intercettazioni ambientali effettuate nei locali dei Carabinieri, evidenzianti che gli imputati e i P., tutti convocati in caserma, si erano accordati per negare i loro rapporti di conoscenza e che analogo accordo era stato concluso tra i P. e i Ci..

In merito alla qualificazione giuridica del fatto i giudici d’appello osservavano che le complessive caratteristiche dell’azione – posta in essere in orario diurno, in un centro abitato, con l’inseguimento a forte velocità del ciclomotore ad opera di due furgoni, mediante l’utilizzo di un’arma micidiale e l’esplosione in rapida successione, dall’alto verso il basso, di tre – quattro colpi da un veicolo in movimento contro un bersaglio anch’esso in movimento – era obiettivamente idonea a cagionare la morte di Co., ma soprattutto di D., che viaggiava come passeggero sul ciclomotore e, quindi, si trovava in posizione più ravvicinata rispetto agli inseguitori. Veniva, inoltre, sottolineata la circostanza che gli aggressori avevano proseguito nelle ricerche dei due giovani, facendo più giri nella zona nella quale li avevano visti sparire, e avevano desistito solo quando avevano percepito la presenza di persone che avrebbero potuto richiedere l’intervento delle forze dell’ordine.

Sul piano soggettivo, peraltro, non era provato che gli imputati fossero stati animati da reali intenzioni omicidiarie; infatti, pur trovandosi il tiratore in posizione sopraelevata all’interno dell’abitacolo del furgone (oppure sul cassone dello stesso) e in posizione ravvicinata al bersaglio, non aveva attinto il torace, il capo, gli arti superiori, ma la parte posteriore di un arto inferiore, m% aveva diretto deliberatamente l’arma verso il basso e aveva colpito la parte offesa con un solo proiettile. L’azione posta in essere non era stata, quindi, frutto di una maldestra capacità esecutiva del suo autore, ma una deliberata scelta di non dirigere la mira verso organi vitali contro un bersaglio ravvicinato e facilmente raggiungibile, mentre una reale volontà omicidiaria avrebbe imposto di reiterare gli spari sino ad uccidere la vittima. Il programma condiviso dagli imputati mediante la prolungata azione di inseguimento armato del ciclomotore con i due mezzi era, quindi, quello di ferire i due soggetti inseguiti allo scopo di punirli e di dare loro una lezione.

4. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo e, con un unico atto sottoscritto dai comuni difensori di fiducia, gli imputati.

4.1. Il Procuratore generale denuncia manifesta illogicità della motivazione in relazione alla derubricazione in lesioni volontarie aggravate del delitto di tentato omicidio originariamente contestato.

In proposito osserva che, con valutazione ex ante, avrebbe dovuto essere apprezzato il fatto che il ferimento di D. era avvenuto nel corso di un inseguimento al quale avevano partecipato almeno quattro persone, a bordo di due mezzi lanciati a forte velocità, nei confronti di due soggetti che, con pari velocità, cercavano di sottrarsi alla manifesta volontà aggressiva degli inseguitori e all’indirizzo dei quali erano stati esplosi diversi colpi di pistola nel mezzo di una strada urbana, in orario diurno.

4.2. Gli imputati lamentano violazione dei canoni di valutazione probatoria, attesa l’assenza di un quadro di gravità e univocità indiziaria.

Con riferimento alla posizione di C.P. si evidenzia che l’esito positivo dello stub sulla mano destra dell’imputato mal si giustifica con l’assenza di tracce sugli abiti, considerato che l’ipotesi del cambio dei vestiti non appare logica alla luce del fatto che il figlio G. aveva continuato a indossare la maglietta su cui, pure, vennero rinvenute tracce di polvere da sparo.

Inoltre, la descrizione degli aggressori fornita dal teste B., che aveva parlato di quattro uomini di età non superiore ai trentacinque anni, appare incompatibile con l’età di C.P. ((OMISSIS) anni). I testi oculari e le persone offese non l’hanno riconosciuto. Infine, l’autocarro che, secondo la prospettazione accusatoria, ospitava C.G. e C. P., non veniva individuato sui luoghi. Infine, gli accertamenti svolti dal Ris Carabinieri di Messina sulla compatibilità delle tracce di vernice dell’autocarro "Iveco" nella "Fiat Palio" danneggiata non sono univocamente indicativi di un effettivo coinvolgimento del mezzo in uso all’imputato.

Relativamente alla posizione di Ca., la difesa argomenta che non appaiono attendibili le modalità del riconoscimento effettuato dall’appuntato dei Carabinieri F., avuto riguardo alla circostanza che lo stesso riferiva non di essersi accostato all’autocarro, ma solo di essere stato superato dallo stesso. Quanto al movente si osserva che l’imputato è coniugato con persona non legata da vincoli di parentela con i C..

Anche nei confronti di C.M.D. l’unico elemento indiziante è costituito dal riconoscimento operato dall’appuntato F. che non appare attendibile, avuto riguardo alle complessive modalità di svolgimento del fatto.

L’esito positivo dello stub sulla maglietta di C.G. non dimostra univocamente il suo coinvolgimento nel fatto delittuoso.

Motivi della decisione

I ricorsi non sono fondati.

1. Con riferimento all’impugnazione del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo il Collegio osserva quanto segue.

1.1. La struttura del dolo risulta normativamente caratterizzata dall’elemento di natura intellettiva della previsione/rappresentazione e dall’elemento di essenza volitiva della volizione dell’evento. La rappresentazione e la volizione debbano in realtà avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica – condotta, evento e nesso di causalità materiale- e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta, come si desume dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nell’art. 47 c.p., comma 1, secondo cui siffatto errore, facendo venir meno il dolo sotto il profilo della indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente. Nei reati a forma libera, quale l’omicidio volontario, l’imputazione a titolo di dolo del fatto nel suo insieme postula che la volontà dell’ultimo atto sia effettiva.

Nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo – ove, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato – ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quegli elementi della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.

Assume valore determinante, per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perchè altrimenti l’azione, per non avere conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato. Il giudizio di idoneità consiste, quindi, in una prognosi formulata ex post con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare (Cass., Sez. 1, 15 marzo 2000, rv. 215511; Cass., Sez. 1, 7 giugno 1997, rv. 207824).

1.2. La sentenza d’appello ha fatto corretta applicazione di questi principi, assolvendo al contempo all’onere di esaminare tutti gli elementi acquisiti, di valutare la loro valenza probatoria e di spiegare le ragioni sottese ad un diverso epilogo decisionale.

Infatti, con motivazione compiuta e logica, muovendo da una ricostruzione del fatto analoga a quella operata dal Tribunale di Palermo, ha argomentato l’insussistenza del dolo omicidiario sulla base delle modalità di utilizzazione dell’arma, di esplosione dei colpi, deliberatamente diretti verso il basso da parte dell’aggressore che si trovava in posizione sopraelevata a bordo di un furgone che consentiva una certa libertà di manovra, della zona del corpo della parte offesa attinta dall’unico colpo esploso contro la stessa. Da questi dati obiettivi, con argomentazione immune da vizi logici e giuridici, ha desunto che la volontà degli aggressori era soltanto quella di ferire i due giovani a bordo del ciclomotore per punirli e dare loro una lezione, ma non quella di cagionarne la morte. Si tratta di una conclusione motivata, fondata su una corretta e completa lettura delle risultanze processuali e rispettosa della regola dell’"oltre il ragionevole dubbio" formalizzata nell’art. 533 c.p.p., comma 1, come sostituito dalla L. n. 46 del 2006, art. 5. 2. Parimenti non fondati sono i ricorsi degli imputati.

2.1. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.

Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare Yiter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

2.2. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha illustrato il complesso degli elementi di prova (testimonianze di B., P., Fe., P., D.F., V., D., dell’appuntato dei Carabinieri F., risultanze positive dello stub effettuato, in un momento prossimo alla sparatoria, sulle persone di C.G. e C.P. e sugli indumenti da loro indossati, accertamenti tecnici svolti sui residui di vernice rilevati sulla "Fiat Palio danneggiata durante l’inseguimento e sul furgone "Turbo Daily", evidenzianti la compatibilità con la dinamica dell’azione e, in particolare, con le modalità della manovra effettuata dal furgone stesso dentro l’area condominiale, contenuto delle intercettazioni ambientale effettuate nei locali dei Carabinieri, ove erano stati convocati gli imputati e i membri delle famiglie P. e Ci.) che comprovano la responsabilità degli imputati in ordine ai delitto loro contestati.

In questo contesto non meritano accoglimento i rilievi difensivi che reiterano censure (l’attendibilità del riconoscimento effettuato dall’appuntato dei Carabinieri F., le risultanze degli accertamenti tecnici svolti sui mezzi danneggiati, l’inconciliabilità tra l’età di C.P. e la descrizione degli aggressori fornita dal teste B.) già prospettate con la precedente impugnazione, cui il giudice d’appello ha fornito esauriente risposta oppure prospettano una non consentita lettura alternativa delle emergenze processuali in chiave più favorevole alle tesi dei ricorrenti (esito positivo dello stub sulla mano destra di C.P. e sugli abiti indossati dal solo C. G.) ovvero, infine, contestano genericamente le conclusioni della sentenza impugnata (movente e assenza di rapporti di parentela di C. con i Ci.), omettendo di allegare, a sostegno delle censure, la necessaria documentazione, sì da rendere sul punto il ricorso "autosufficiente".

Al rigetto dei ricorsi consegue di diritto la condanna dei soli imputati ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna gli imputati ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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