Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 26-05-2011) 23-06-2011, n. 25228 Bellezze naturali e tutela paesaggistica Costruzioni abusive e illeciti paesaggistici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 14.10.2010 la Corte di Appello di Salerno confermava la condanna alla pena alla pena di mesi 4 d’arresto Euro 50.000 di multa inflitta nel giudizio di primo grado a S. G. quale colpevole dei reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), artt. 64 e 71, 85, 72, 93 e 95; D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181; art. 734 c.p.; L. n. 394 del 1991, artt. 13 e 30 (in (OMISSIS)).

La Corte, facendo propria per relationem la sentenza di primo grado, riteneva correttamente affermata la responsabilità dell’imputato per tutti i reati contestati specificando che i lavori non erano ultimati alla data del sopralluogo, sicchè andava tenuta ferma, come dies a qua del termine prescrizionale, quella dell’imposto sequestro; che la zona paesaggisticamente vincolata ricadeva all’interno del perimetro del (OMISSIS); che la pena era stata congruamente determinata.

Proponeva ricorso per cassazione l’imputato denunciando violazione di legge e vizio di motivazione in ordine:

– alla declaratoria di contumacia sebbene egli avesse fatto pervenire referto medico attestante assoluto impedimento a comparire, immotivatamente disatteso;

– alla motivazione redatta per relationem senza l’esame delle questioni proposte nell’atto di gravame essendosi limitata la Corte a richiamare integralmente la sentenza impugnata senza esplicitare l’iter logico seguito per confermare la sentenza di condanna;

– alla ritenuta configurabilità del reato paesaggistico, la cui natura è di pericolo astratto, che nella specie non era ravvisabile per essere stati realizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di consolidamento statico di un immobile preesistente, donde l’illegittimità dell’apposizione della condizione della rimessione in pristino dello stato dei luoghi al beneficio della sospensione condizionale della pena;

– alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 734 c.p. per non essere stata raggiunta la prova del deturpamento delle bellezze naturali;

– alla negata rilevanza delle deposizioni dei testi indicati dalla difesa per stabilire la concreta situazione dei luoghi prima dell’intervento edilizio e il momento della sua realizzazione;

– sulla sussistenza del reato di cui alla L. n. 394 del 1991 perchè l’accusa non aveva provato che fosse stato adottato lo strumento pianificatorio o del regolamento prescritto dalla legge sicchè non occorreva il rilascio del nullaosta dell’Ente Parco.

Chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata.

L’eccezione procedurale è infondata.

In tema d’impedimento dell’imputato a presenziare al dibattimento, non può giustificare la mancata comparizione e a documentare l’effettiva sussistenza dell’impedimento una certificazione medica generica essendo necessario che la suddetta attestazione contenga tutti quei dati che consentono al giudice di formulare un proprio giudizio.

La prova del legittimo impedimento a comparire dell’imputato deve essere fornita dall’interessato, non essendo configurabile in capo all’organo giudicante alcun obbligo di procedere d’ufficio alla sua acquisizione quando questa sia in atti insussistente o insufficiente.

Pertanto, grava sull’imputato l’onere di corredare l’asserzione d’impedimento a comparire della relativa documentazione in mancanza della quale il giudice non è tenuto a effettuare accertamenti d’ufficio, sicchè una certificazione medica di malattia, rilasciata il giorno prima dell’udienza con diagnosi di colica renale con vomito, non è idonea a giustificare la mancata comparizione dell’imputato in giudizio per legittimo impedimento essendo meramente assertivo l’indicato termine di guarigione.

La verifica del dedotto impedimento a comparire, costituente un potere discrezionale attribuito dalla legge al giudice di mento, è stata, nella specie, svolta con adeguata motivazione, sicchè correttamente è stata ritenuta insussistente l’eccepita nullità consistendo l’addotto impedimento dell’imputato a intervenire nel giudizio di primo grado in una patologia ritenuta ragionevolmente non preclusiva della possibilità di presenziare al dibattimento.

Pertanto le contrarie deduzioni difensive sono irrilevanti, essendo logico e coerente l’iter motivazionale a sostegno della decisione assunta alla stregua della documentazione sanitaria presa in considerazione.

Nel resto, il ricorso non è puntuale perchè solleva doglianze sulle quali vi è motivazione congrua.

L’obbligo generale della motivazione, imposto per tutte le sentenze dall’art. 426 c.p.p., richiede la sommaria esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata e va rapportato al caso in esame, alle questioni sollevate dalle parti e a quelle rilevabili o rilevate dal giudice.

Tale obbligo è assolto quando il giudice esponga le ragioni del proprio convincimento a seguito di un’approfondita disamina logica giuridica di tutti gli elementi di rilevante importanza sottoposti al suo esame, sicchè, nel giudizio d’appello, occorre che la corte di merito esponga compiutamente i motivi di appello e, sia pure per implicito, le ragioni per le quali rigetti le doglianze dagli stessi avanzate.

Nel caso in esame la sentenza d’appello richiama espressamente la motivazione della sentenza di primo grado ed esplicita gli elementi emersi a carico dell’imputato confutando succintamente le censure svolte dal suo difensore, dimostrando, così, di avere tenuto conto dei motivi addotti col gravame al cui contenuto accenna.

Il ricorso, che richiama astrattamente i principi in tema di motivazione per relationem, neppure indica quali obiezioni difensive siano state trascurate dai giudici dell’appello.

Secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte la previsione normativa (l’esecuzione di lavori o di modificazione ambientale in zona vincolata senza o in difformità della prescritta autorizzazione) "configura un reato formale, la cui struttura non prevede il verificarsi di un evento di danno", sicchè "ai fini della realizzazione del reato, basta che l’agente faccia un diverso uso rispetto alla destinazione del bene protetto dal vincolo paesaggistico, mentre non è necessario che ricorra l’ulteriore elemento dell’avvenuta alterazione dello stato dei luoghi" (Cassazione Sezione 3, n. 564/2006, Villa, RV. 233012).

Pertanto è incensurabile la motivazione dei giudici di merito che hanno rilevato che le opere eseguite in assenza di nulla osta (uno sbancamento con l’esecuzione di due muri di contenimento alti mt.

1.70; un vano di circa 24 mq; un locale di 64 mq. posto al di sopra del suddetto vano e una soffitta di circa 19 mq, sicchè doveva escludersi trattarsi d’interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria o di consolidamento statico di un immobile preesistente, donde la corretta apposizione della condizione della rimessione in pristino dello stato dei luoghi al beneficio della sospensione condizionale della pena) avevano rilevanti dimensioni e palese incidenza sul contesto ambientale.

Ne consegue che non può essere messa in discussione la sussistenza del reato avendo l’intervento sopraindicato comportato una modifica stabile, strutturale e funzionale del tessuto urbanistico- territoriale idonea a modificare, in modo innovativo, rilevante e definitivo l’assetto ambientale.

Manca di specificità il motivo sulla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 734 c.p. con cui si sostiene che non sarebbe stata raggiunta la prova del deturpamento delle bellezze naturali, avendo invece spiegato esaurientemente il contrario la sentenza di primo grado, a pag. 4.

Manifestamente infondata è la censura sul tempus commissi delicti (che poggia sull’asserita rilevanza delle deposizioni dei testi a discarico circa la concreta situazione dei luoghi prima dell’intervento edilizio e il momento della sua realizzazione) alla stregua della constatazione dei verbalizzanti secondo cui, al momento del sopralluogo del 28.12.2005, i lavori erano ancora in corso, sicchè le opere non erano ultimate.

Il reato, quindi, neanche alla data odierna è prescritto dovendo il termine di anni cinque essere aumentato di mesi 8 giorni 7 per la sospensione dei termini dovuta a rinvii del dibattimento richiesti dalla difesa.

Anche l’ultimo motivo non ha alcun fondamento giuridico alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui "in tema di aree protette, l’operatività della previsione della L. 6 dicembre 1991, n. 394, art. 13, comma 1, che stabilisce che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative a Interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco, non è subordinata alla previa approvazione del piano e del regolamento del parco, atteso che in mancanza la valutazione spettante all’Ente Parco deve fare riferimento agli atti istitutivi del parco, alle deliberazioni e altri provvedimenti emanati dagli organi di gestione dell’ente, alle misure di salvaguardia, ai piani paesistici territoriali o urbanistici, i quali hanno valenza fino al momento dell’approvazione del piano del parco" (Sezione 3, n. 14183/2006 RV. 236331). Grava sul ricorrente, per il rigetto del ricorso, l’onere delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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