CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE – SENTENZA 16 giugno 2010, n.14574 LODO ARBITRALE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

Il Collegio deve anzitutto respingere l’eccezione di nullità del lodo formulata dal comune di Taormina soltanto nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ.: perché a prescindere dal suo difetto di autosufficienza in ordine alle vicende che hanno dato luogo alla composizione del collegio arbitrale ed alla qualità degli arbitri designati, l’ipotesi di inesistenza giuridica per carenza assoluta di potestas iudicandi degli arbitri riguarda l’ipotesi qui non ricorrente di esercizio da parte di costoro di un potere loro non attribuito, ossia il caso di usurpazione della relativa funzione per vizio radicale della clausola; ovvero perché la controversia sia sottratta per legge alla cognizione del giudice privato, così da doversi ricondurre la pronuncia da essi resa nella categoria dell’inesistenza, ed è chiaramente invocabile ove il vizio prospettato investa la validità della clausola o la possibilità giuridica di devoluzione della controversia ad arbitri. Mentre in tutti gli altri casi – e, cioè, nelle ipotesi di nomine avvenute con modalità diverse da quelle previste dalle parti o, in difetto, dal codice di rito civile – l’irregolare composizione del collegio decidente può costituire motivo di impugnazione soltanto quando essa sia stata già denunciata nel corso del giudizio arbitrale (Cass. 5965/2008; 10132/2006; 6425/2006; 10561/2004). E d’altra parte, questa Corte ha ripetutamente affermato che le nullità anche insanabili a norma dell’art. 161 cod. proc. civ. possono essere fatte valere solo con i mezzi di impugnazione e secondo le regole proprie di questi e, che pertanto, in ragione della preclusione derivante da detta norma, non possono essere dalla parte utilmente dedotte con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., se non siano state fatte in precedenza valere con il ricorso per cassazione: posto che nel giudizio di legittimità detta memoria è esclusivamente destinata ad illustrare ed a chiarire i motivi della impugnazione, ovvero a confutare le tesi avversarie, ma non può essere utilizzata per dedurre questioni che sono ormai precluse perché non introdotte, secondo quanto prescritto, con il ricorso e che, per effetto di detta preclusione, non sono (più) suscettibili di rilievo d’ufficio (Cass. sez. un. 14889/2009/28498/2005, nonché 24486/2006).

Con il primo motivo del ricorso, l’ente pubblico,deducendo violazione degli art. 806, 829 ed 830 cod. proc. civ. censura la sentenza impugnata per aver prospettato erroneamente i principi inerenti all’impugnazione di un lodo arbitrale ancorandoli ad una concezione privatistica superata dalla sentenza 376/2001 della Corte Costituzionale; a seguito della quale ha assunto un ruolo fondamentale la motivazione,nonché l’esaustività dei relativi motivi, in un quadro generale in cui l’effetto devolutivo dell’impugnazione viene ad essere equivalente a quello dell’appello. Consegue, da un lato, che seppur continua ad essere insindacabile l’accertamento dei fatti da parte degli arbitri, diviene sindacabile la valutazione delle risultanze istruttorie, nonché delle regole di diritto da applicare; ed è del pari sindacabile l’adeguatezza e la sufficienza della motivazione con riferimento ai quesiti sottoposti al giudizio arbitrale; con la conseguenza che l’inadeguatezza o l’insufficienza deve essere parificata all’ipotesi di assoluta mancanza della motivazione.

Con il secondo motivo,deducendo altre violazioni delle medesime disposizioni legislative e dell’art. 828 cod. proc. civ. si duole che la sentenza impugnata abbia affermato che l’esame dei motivi di impugnazione debba restare circoscritto alle censure ivi descritte: senza considerare che il loro contenuto deve essere ricostruito in base all’intero atto di impugnazione, e senza indicare quali ampliamenti ed aggiustamenti abbia introdotto esso ente nella propria memoria conclusiva ove invece si era limitato ad approfondire censure già proposte. Sostiene, quindi, che per tali ragioni avrebbero dovuto ritenersi ammissibili il primo motivo di impugnazione nonché la consulenza tecnica di ufficio, indispensabile per compiere gli accertamenti tecnici presupposti dall’appalto; ed in particolare le doglianze inerenti alla violazione dell’art. 30 del capitolato nonché ai danni liquidati.

Con il terzo motivo, deducendo ulteriori violazioni degli art. 823 ed 829 cod. proc. civ. censura la sentenza impugnata per non aver disposto consulenza tecnica per risolvere le questioni tecniche necessarie per rispondere ai quesiti che le parti avevano sottoposto agli arbitri, ed avere al riguardo adottato una concezione restrittiva del vizio di motivazione inerente al lodo arbitrale, ormai non più sostenibile: a) per il carattere immanente e necessario della motivazione in ogni decisione giuridicamente rilevante che induce ad escludere che possa parlarsi di motivazione allorché la stessa sia inconsistente, illogica o incongrua; b) per l’evidente coincidenza tra l’art. 823 e l’art. 132 cod. proc. civ. con la conseguenza che la motivazione del lodo deve avere gli stessi requisiti che si riconducono alla motivazione della sentenza; c) per l’applicabilità al lodo dell’art. 111 Costit. a tenore del quale la motivazione costituisce un requisito essenziale ed inderogabile di ogni provvedimento decisorio; d) per la necessità di ricomprendere fra i vizi della motivazione anche l’ipotesi in cui la stessa sia non contraddittoria, da non confondersi con il disposto dell’art. 829 n. 4 cod. proc. civ. che si riferisce soltanto al contrasto fra parti della motivazione (ovvero del dispositivo). Addebita, quindi, alla sentenza impugnata di aver considerato soltanto il difetto formale dei motivi e non anche l’ipotesi in cui la ratio decidendi pur astrattamente identificabile non possa essere riconosciuta nelle sue concrete ed effettive ragioni e di non averne esaminato i vizi con gli stessi criteri posti per il sindacato di legittimità della motivazione della sentenza del giudice di merito.

Tutte queste doglianze sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

Questa corte ha ripetutamente affermato che l’interesse all’impugnazione ancorché di carattere strettamente processuale, non può considerarsi avulso dall’esigenza di provocare o di far mantenere una decisione attinente al riconoscimento o al disconoscimento di un bene della vita a favore di un determinato soggetto; e che detto interesse va perciò apprezzato in relazione alla utilità concreta che, dall’eventuale accoglimento del gravame, può derivare alla parte che lo propone, onde non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi pratici sulla decisione adottata. Per cui, deve ritenersi inammissibile una impugnazione con la quale si deduca la mera violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande od eccezioni proposte, e che sia diretta, quindi, all’emanazione di pronunzia priva di rilevanza pratica.

Ha altresì specificato che detti principi valgono a maggior ragione per il ricorso davanti a questa Corte, in cui l’interesse astratto alla esatta interpretazione delle norme di legge legittima solo il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ma non vale ad integrare il presupposto dell’interesse ad agire del ricorrente, che deve essere concreto; e che tale non è nel caso in cui dalla pronuncia della Corte non deriverebbe (o non vi è prova che deriverebbe) alcuna conseguenza in ordine alla controversia dedotta in giudizio. Ed in cui detto interesse deve necessariamente trascendere il piano della mera prospettazione soggettiva dell’agente, e deve, per converso, assurgere ad una consistenza giuridicamente oggettiva: sì da rinvenire la sua caratterizzazione nella necessità di una decisione del giudice che non si limiti ad un’affermazione di puro principio, di massima o accademica, ma che sia invece idonea ad accertare, costituire, modificare o estinguere una situazione giuridica direttamente ed effettivamente incidente sulla sfera patrimoniale dell’agente.

Ciò significa che non è sufficiente al ricorrente per cassazione, denunciare errori procedurali da parte del giudice del merito – come quelli che nel caso concreto riguardano la interpretazione della disciplina della impugnazione del lodo arbitrale – avendo, invece, l’onere di dimostrare la sussistenza di un nesso eziologico fra l’errore addebitatogli e la pronuncia emessa in concreto (che, senza quell’errore, sarebbe stata diversa): posto che soltanto la dimostrazione della rilevanza del vizio denunciato costituisce il presupposto necessario per la configurabilità di un interesse del ricorrente alla declaratoria del vizio stesso e per il compimento, da parte della Suprema Corte, dell’indagine volta ad accertare la sussistenza dell’“error in procedendo”. E che la doglianza relativa alla erronea interpretazione di una norma processuale, dedotta come motivo di impugnazione, è ammissibile soltanto quando si indichi lo specifico pregiudizio processuale che, dalla erronea applicazione, sia concretamente derivato, in quanto il relativo vizio non deve essere considerato fine a se stesso, ma può essere invocato solo per riparare una precisa ed apprezzabile lesione che, in conseguenza di esso, sia stata subita sul piano pratico processuale. Con la conseguenza che il ricorrente non può limitarsi ad enunciarlo, ma deve indicare gli effetti che potrebbero derivare dal suo accoglimento e la loro idoneità a soddisfare un proprio interesse in relazione ai temi del giudizio.

A questi principi non si è attenuto il comune di Taormina, il quale si è limitato ad addebitare alla sentenza impugnata una ricostruzione c.d. privatistica e restrittiva di detto regime di impugnazione del lodo arbitrale,ed in particolar modo della sindacabilità della motivazione da parte della Corte di appello; ed a contrapporvi una concezione c.d. estensiva, tendente ad equiparare detta disciplina con quella peculiare dei motivi del ricorso per cassazione e del giudizio di legittimità: da ciò solo traendo la conseguenza dell’automatica cassazione della decisione, senza porre in correlazione le ragioni della doglianza con i singoli momenti dell’iter logico-argomentativo seguito dai giudici dell’impugnazione, né indicare l’influenza concreta spiegata dall’accoglimento del criterio prospettato – e dalle dedotte violazioni di norme o principi di diritto processuale – in relazione alle domande od eccezioni proposte. E quindi, quali fatti, argomenti o circostanze contenuti nel lodo, avrebbero dovuto essere oggetto da parte della Corte di appello di una valutazione giuridica, diversa da quella asseritamente erronea, compiuta da detto giudice in conseguenza della concezione restrittiva adottata. Il che ha finito per riconoscere nell’ambito del secondo motivo preannunciando più volte che avrebbe proceduto (solo) in seguito “alla specifica articolazione dei motivi di ricorso” (§ 2.2.1 e 2.2.4).

E siffatta specificazione era a maggior ragione indispensabile fin dalla prima censura, in quanto, da un lato, il giudice di legittimità al fine di verificare se la sentenza che abbia deciso sull’impugnazione per nullità del lodo arbitrale sia correttamente motivata in relazione ai motivi di impugnazione del lodo, non può esaminare direttamente la pronuncia arbitrale, ma solo la decisione emessa nel giudizio di impugnazione; con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione della sentenza che ha deciso sull’impugnazione del lodo. E, dall’altro, il giudice a quo ha correttamente invocato ed applicato la costante giurisprudenza di questa Corte per la quale il giudizio di impugnazione del lodo arbitrale ha ad oggetto unicamente la verifica della legittimità della decisione resa dagli arbitri, non il riesame delle questioni di merito ad essi sottoposte; ed il difetto di motivazione, quale vizio riconducibile all’art. 829 n. 5 cod. proc. civ., in relazione all’art. 823 n. 3 stesso codice, è ravvisabile soltanto nell’ipotesi in cui la motivazione del lodo manchi del tutto, ovvero sia a tal punto carente da non consentire l’individuazione della “ratio” della decisione adottata o, in altre parole, da denotare un “iter” argomentativo assolutamente inaccettabile sul piano dialettico, sì da risolversi in una non-motivazione: perciò imponendo al ricorrente che deduce il vizio di carenza, illogicità o contraddittorietà di motivazione l’onere di indicare in modo autosufficiente con specificazione completa gli elementi di cui lamenta l’omessa o insufficiente valutazione nella loro consistenza materiale, nella loro pregressa indicazione (in sede di merito) e nella loro rilevanza processuale (come potenziale idoneità a condurre ad una diversa decisione).

Si deve aggiungere che la decisione impugnata non si è limitata a dare atto dell’esistenza di una motivazione solo formale nel lodo con riguardo al dedotto andamento anomalo dell’appalto, ma ha ripercorso analiticamente le ragioni poste dagli arbitri a sostegno del loro convincimento che esso fosse causato dalla necessità delle varianti all’originario progetto esecutivo, indotte anche dagli organi tecnici della Regione, nonché dalle numerose e complesse indagini geologiche che le stesse di volta in volta comportarono e che non fosse invece dovuto alle peraltro modeste modifiche progettuali proposte dall’ATI (pag. 12-16): evidenziando la congruità e la logicità delle relative argomentazioni perfino con riguardo alla scelta ed alla valutazione delle risultanze istruttorie: tratte in particolar modo dalla relazione della Commissione di collaudo dell’opera nominata dallo stesso Comune che rendeva superfluo il ricorso ad una consulenza tecnica in relazione alla quale il lodo non aveva mancato di motivare diffusamente e congruamente le ragioni che nel caso concreto ne rendevano inutile l’espletamento. Per cui, a fronte di tale disamina sostanzialmente corrispondente a quella consentita dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. l’ente pubblico era a maggior ragione onerato della precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero della specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora della mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte: e quindi dell’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti nonché dell’insanabile contrasto degli stessi. E risulta inidoneo allo scopo il far valere soltanto la non rispondenza, in via astratta, dei principi giuridici sull’impugnazione prospettati dalla Corte territoriale rispetto a quelli privilegiati dall’amministrazione comunale.

Con il quarto motivo il Comune deducendo violazione degli art. 2697 e 1223 cod. civ. si duole che la sentenza impugnata abbia tratto la prova dei danni per la sospensione dei lavori ed il prolungamento dei tempi dell’appalto esclusivamente da una perizia giurata prodotta dall’impresa, nonché da una imprecisata documentazione in atti, senza considerare che esso ente aveva contestato in radice che durante detto periodo l’ATI avesse collocato e mantenuto macchinari ed attrezzature in cantiere, fermi ed inutilizzati; e che avesse corrisposto stipendi ai propri dipendenti per anni senza far nulla e senza utilizzarli per altri lavori.

Con il quinto motivo, il comune deducendo altra violazione di dette norme, nonché omessa e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto sufficiente al riguardo l’utilizzazione di una perizia stragiudiziale; e non aver considerato come evidenziato da esso ente, che nello stesso periodo vi erano altresì altre categorie di lavori che avrebbero potuto essere eseguiti e completati dalle maestranze asseritamente inutilizzate: a nulla rilevando che l’impresa avesse osservato puntualmente i tempi previsti dal contratto per lo svolgimento dell’opera e li avesse anzi per certe categorie di lavori anticipati.

Entrambe le doglianze sono fondate.

Contrariamente a quanto mostra di ritenere la Corte territoriale il comune di Taormina con l’atto di impugnazione non aveva contestato soltanto i criteri con cui gli arbitri avevano liquidato il danno sofferto dall’impresa per l’inutilizzazione dei propri dipendenti e dei propri macchinari; ovvero la scelta delle acquisizioni processuali di cui il lodo si era avvalso per determinarne l’ammontare, comportante apprezzamenti di fatto riservati agli arbitri. Ma aveva ancor prima escluso in radice che un qualsiasi danno si fosse verificato per non avere l’ATI assolto all’onere della prova su di essa gravante, che uomini, impianti e macchinari fossero rimasti inutilizzati per così lungo tempo; e che quindi l’impresa avesse mantenuto fermo il proprio cantiere per la maggior durata dell’appalto e per quella della sospensione dei lavori. Per cui, conclusivamente aveva addebitato agli arbitri l’inosservanza dei principi sull’onere della prova da parte del danneggiato tenuto in base all’art. 2697 cod. civ. a dimostrare la ricorrenza di tutti gli elementi che legittimano secondo il diritto la sua pretesa risarcitoria. E la relativa valutazione non si esauriva in un accertamento di fatto rivolto all’individuazione delle risultanze idonee a fornire detta prova, dovendosi invece stabilire se il lodo aveva osservato o meno le regole di diritto sull’onere della prova gravante sul danneggiato.

Di conseguenza, non soltanto l’impugnazione per nullità sotto tale profilo era ammissibile, ma la Corte di appello poteva dichiararne l’infondatezza soltanto accertando se gli arbitri avessero individuato e risolto la relativa questione; ed in caso affermativo se la risoluzione fosse stata conforme alla disciplina legale che non consente al soggetto onerato di una prova, di fondarla esclusivamente su imprecisati documenti da esso stesso predisposti; e neppure su di una perizia stragiudiziale che ancorché asseverata con giuramento dal suo autore, raccolto dal cancelliere, costituisce pur sempre una mera allegazione difensiva, avente peraltro per oggetto sempre e comunque questioni tecniche; e pertanto nel caso inidonea a dimostrare la presenza in cantiere di uomini e macchinari inutilizzati per il lungo periodo di tempo dedotto dall’impresa.

Così come una tale idoneità non poteva riconoscersi a scritture o altri documenti contabili provenienti dall’impresa, pur se regolarmente tenuti, avuto riguardo alla loro formazione unilaterale ed alla loro funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un rapporto: inquadrandosi gli stessi tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, e strutturandosi secondo le forme di una dichiarazione, indirizzata all’altra parte, avente ad oggetto fatti concernenti un rapporto già costituito; onde, quando tale rapporto, per la sua natura o per il suo contenuto, sia oggetto di contestazione tra le parti stesse, il documento, ancorché annotato nei libri obbligatori, non può, attese le sue caratteristiche genetiche (formazione ad opera della stessa parte che intende avvalersene), assurgere a prova del rapporto o dell’obbligazione (Cass. 9563/2004; 8126/2004; 3108/1996).

La sentenza impugnata ha, perciò, confuso la violazione delle regole sull’onere della prova circa l’esistenza ontologica del danno,denunciata dal comune e sulla quale manca in radice qualsiasi motivazione, con la valutazione degli elementi processuali acquisiti onde determinarne il quantum ove siffatta prova fosse stata assolta, che è la sola questione esaminata in motivazione (pag. 21). E nell’ambito di essa ha confuso i poteri discrezionali di scelta degli elementi istruttori ritenuti idonei ed attendibili per eseguire la quantificazione suddetta, riservati al giudice di merito, con i principi giuridici sulla disciplina di quelli tra di essi cui è attribuito il valore di prova legale nei confronti della controparte: perciò non rimessa al potere discrezionale di detto giudice cui non è consentito di affidare il proprio convincimento a un materiale di prova ontologicamente inesistente.

Ma la Corte di appello ha errato pur nella prospettiva che dalle risultanze dalla stessa indicata si fosse potuta trarre la prova della persistente inutilizzazione del cantiere, in quanto il comune ha dedotto che nello stesso periodo l’impresa avrebbe potuto utilizzare il gran numero di operai ed i mezzi meccanici asseritamente fermi in altre opere da eseguire non collegate alla variante che aveva condotto alla sospensione dei lavori: tra le quali esemplificativamente i parcheggi “Lumbi” ed “Excelsior” solo successivamente completati.

Si trattava all’evidenza non già di un addebito all’ATI di essere rimasta inadempiente alle obbligazioni assunte, e tanto meno di aver eseguito in quel periodo una quantità di lavori contrattualmente inferiore a quella convenuta nel capitolato; che poteva essere vinta dalla prova che le opere pattuite erano state puntualmente eseguite, anzi con anticipo rispetto ai tempi stabiliti. Ma della prospettazione di situazione idonea ad escludere (in tutto o in parte) il fatto costitutivo del danno lamentato dalla controparte; e comunque di circostanza rivolta a dimostrare che la dedotta inutilizzazione di maestranze e di macchinari non era dipendente dalla sospensione dei lavori in attesa della variante addebitata all’ente pubblico, bensì esclusivamente da scelte dell’impresa.

Per cui non sembra al Collegio che la Corte di appello potesse sfuggire alla seguente alternativa: o esplicitare le ragioni per le quali gli arbitri avevano ritenuto sia pure con l’ausilio di accertamenti tecnici, che tali lavori non fossero in quel tempo ancora eseguibili, ovvero che dipendessero dall’esito della variante,cui erano condizionati; e valutarne la congruità sia pure nel rispetto del combinato disposto degli art. 823 ed 829 cod. proc. civ. Ovvero, in caso contrario annullare il lodo incorso in ulteriore errore di diritto per aver liquidato all’ATI il danno dalla lamentata inutilizzazione del cantiere pur in mancanza di un nesso di causalità tra di essa e la sospensione dei lavori disposta dall’ente pubblico; ed in presenza della prova che la chiusura del cantiere ed il suo protrarsi nel tempo erano dipesi dalla mera volontà dell’imprenditore, che peraltro finiva per influire negativamente perfino “sullo spropositato ritardo” con il quale si era concluso l’appalto (pag. 12 sent.).

Fondato è pure il 6° motivo del ricorso con cui il comune di Taormina, deducendo violazione dell’art. 1362 cod. civ. censura la sentenza impugnata per aver ritenuto inammissibile il motivo di impugnazione con cui esso comune era stato condannato al pagamento degli oneri di prospezione dei terreni, e di progettazione esecutiva: senza considerare che il lodo aveva pretermesso l’esame dell’art. 21 del C.S.A. che disponeva esattamente il contrario ponendoli a carico dell’imprenditore, e comunque di interpretarlo in base al fondamentale canone di ermeneutica rivolto a privilegiare il contenuto letterale delle parole usate dal legislatore che deponeva in tali sensi.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che l’interpretazione degli arbitri, in ordine al contenuto di una clausola contrattuale, può essere contestata, con l’impugnazione per nullità del lodo, solo in relazione alla violazione di regole di diritto, e non anche, pertanto, tramite la mera deduzione di erroneità, ovvero la prospettazione di un’interpretazione diversa, peraltro senza la specifica indicazione di quali criteri ermeneutici gli arbitri abbiano mancato di osservare. E che la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale deve essere dedotta in sede d’impugnazione della sentenza arbitrale mediante la specificazione di dette regole violate, nonché delle ragioni di contrasto fra di esse e le argomentazioni degli arbitri (Cass. 10131/2006; 6423/2003; 11241/2002).

Proprio quest’ultima ipotesi ricorreva nel caso concreto in cui il comune di Taormina, in relazione al capo del lodo che lo aveva condannato al ristoro dei maggiori oneri per prospezione dei terreni e progettazione esecutiva,aveva ricordato varie disposizioni contrattuali di contenuto contrario ed interamente trascritto, in particolare, l’art. 21 del C.S.A. che poneva, invece, a carico dell’appaltatore in coerenza con la circostanza che si trattava di appalto a licitazione privata (predisposto cioè dall’appaltatore), l’obbligo di redigere a proprie spese i progetti esecutivi e costruttivi; ed addebitato agli arbitri di avere violato il fondamentale criterio posto dall’art. 1362 cod. civ., fondato sull’interpretazione letterale delle clausole contrattuali, capovolgendo invece il contenuto della proposizione ed attribuendole un significato opposto a quello fatto palese dal loro testo.

Non si trattava quindi né di una mera contestazione inerente al merito della ricostruzione della clausola offerta dagli Arbitri, né della prospettazione di una interpretazione diversa e più favorevole all’ente, bensì della denuncia di un preciso error in iudicando in cui il lodo era incorso;per cui anzitutto la sentenza impugnata non poteva dichiarare inammissibile tale motivo di impugnazione perché espressamente previsto dal 2° comma dell’art. 829 cod. civ. E nel merito poteva respingerlo soltanto ove gli arbitri avessero dimostrato (senza incorrere in alcun vizio di motivazione) che la clausola in esame era inapplicabile alla questione, spiegandone le ragioni; ovvero che la dedotta interpretazione letterale doveva essere contemperata con altri criteri ermeneutici che dovevano essere esplicitati unitamente ai motivi per cui erano stati preferiti.

Laddove la Corte territoriale pur dando atto che l’ente pubblico aveva pedissequamente riportato “il contenuto di alcuni articoli del capitolato” ed invocato le disposizioni dell’art. 1362 cod. civ., gli ha addebitato di aver proposto una interpretazione dei patti contraria a quella analitica e motivatamente posta dagli arbitri a sostegno della decisione: significativamente non riportando alcuna delle argomentazioni in cui si concretava detta motivazione ed ancora una volta confondendo, in tema di interpretazione di un contratto, la ricerca e la individuazione della comune volontà dei contraenti costituenti tipici accertamenti di fatto riservati istituzionalmente al giudice del merito con la inosservanza dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli art. 1362 cod. civ. che il giudice di merito è tenuto ad osservare nel compiere detta interpretazione: perciò deducibili sia in sede di impugnazione del lodo, che, conseguentemente nel giudizio di legittimità davanti a questa Corte.

Con l’ultimo motivo del ricorso, il comune deducendo violazione dell’art. 30 d.p.r. 1063 del 1962 censura la sentenza impugnata per aver confermato la decisione degli arbitri laddove avevano ritenuto la sospensione dei lavori parte legittima e parte (per la durata successiva a dodici mesi) ingiustificata, senza considerare: a) che il prolungarsi di detta sospensione era imputabile alle modifiche sostanziali apportate al progetto dall’impresa; b) che il protrarsi della sospensione legittima non poteva trasformarla in sospensione illegittima, ma soltanto indurre l’ATI a sciogliersi dal contratto, come espressamente previsto dal menzionato art. 30; c) che mancando la relativa richiesta l’impresa non poteva avere diritto alla refusione di alcun pregiudizio.

Il motivo è parte inammissibile e parte infondato.

Le considerazioni svolte sui limiti di impugnazione del giudizio arbitrale nonché sul sindacato della motivazione del lodo sostanzialmente equiparabile a quello consentito dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in sede di legittimità della motivazione della sentenza del giudice ordinario, non consentono di revocare in discussione la legittimità della sentenza impugnata laddove ha dichiarato inammissibile l’impugnazione da parte del comune con cui gli arbitri disattendendo le opposte tesi delle parti, avevano ritenuto che la sospensione disposta dalla stazione appaltante dal 23 dicembre 1992 era inizialmente legittima rientrando nella seconda delle fattispecie previste dall’art. 30 d.p.r. 1063/1962 che la consente per un periodo comunque non superiore a sei mesi; e che nel caso detto termine doveva essere raddoppiato per l’indubbia difficoltà tecnica e programmatica e procedurale della revisione progettuale, comportante in particolare la necessità di complesse indagini geologiche. Ma che non essendo stata curata entro detto termine l’approvazione della variante, l’ulteriore protrarsi della sospensione era divenuto illegittimo. E ciò anche perché neppure in questa sede di legittimità l’ente pubblico ha prospettato le ragioni per cui la motivazione posta dagli arbitri a sostegno del loro convincimento dovesse ritenersi del tutto mancante o comunque insufficiente ed inadeguata rispetto ai quesiti agli stessi devoluti.

La giurisprudenza di legittimità, del tutto ignorata dal comune, è poi fermissima nel ritenere (Cass. fin da 1728/1982) che l’opzione data all’appaltatore dall’art. 30 del citato D.P.R. 1063 del ‘62 di chiedere lo scioglimento del contratto senza indennità in caso di sospensione dei lavori e il conseguente diritto al risarcimento dei danni solo nel caso in cui l’Amministrazione si sia opposta a tale richiesta di scioglimento si riferiscono esclusivamente all’ipotesi di sospensione disposta per ragioni di pubblico interesse o necessità (diversa da quella, contemplata nel primo comma della stessa norma, della sospensione disposta per cause temporanee ostative alla prosecuzione dei lavori a regola d’arte), e limitatamente al caso in cui detto protrarsi sia legittimo, in quanto correlato al perdurare di quelle ragioni, e non a fatto imputabile all’amministrazione committente. E non già a protrazione illegittima della sospensione quale quella che gli arbitri ed i giudici di appello hanno riscontrato essersi verificata nella specie per fatto colposo imputabile all’Amministrazione committente,e comunque per gli adempimenti alla stessa imposti dalle autorità regionali di controllo (Cass. 14510/2007; 18224/2002; 4463/2001; nonché sez. un. 1570/1995).

In tale ultima ipotesi invece che,contrariamente a quanto dedotto dall’ente pubblico, si ricava proprio dal disposto dell’art. 30 e ricorre tanto nel caso in cui siano venute meno le cause di forza maggiore, condizioni climatologiche od altre simili circostanze ostative alla loro prosecuzione a regola d’arte (1° comma), quanto in quello in cui siano venute meno le ragioni di pubblico interesse o necessità giustificative della sospensione medesima (2° comma), torna ad applicarsi la normativa codicistica di carattere generale sull’inadempimento delle obbligazioni. E deve riconoscersi all’appaltatore oltre al diritto ad una congrua proroga del termine per l’ultimazione dell’opera, nonché al rimborso delle maggiori spese,quelli di carattere generale (art. 1453 e segg. cod. civ.) a conseguire la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno:diritto quest’ultimo che nel caso concreto è stato,pertanto, legittimamente riconosciuto all’ATI (Cass. 13509/2007; 1217/2000; 7196/1997; 2651/1995).

Conclusivamente la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte di appello di Messina in diversa composizione, che si atterrà ai principi esposti e provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte,accoglie il quarto, quinto e sesto motivo del ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *