Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-04-2011) 24-06-2011, n. 25468

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – La Corte di appello di Milano ha rideterminato in euro 800 di multa la pena inflitta ad F.L.A.M. con generiche, escludendo l’aggravante del fatto determinato, per il delitto di cui all’art. 595 c.p., L. n. 223 del 1990, art. 30 e L. n. 47 del 1948, art. 13, di diffamazione di D.S.B.M., Procuratore della Repubblica di Aosta.

Ed ha confermato la condanna agli effetti civili.

Alla F. era imputato di avere, nella trasmissione televisiva (OMISSIS), risposto al conduttore V.B.:

"… Tutto quello che vogliamo fare è per fare giustizia a nostro figlio e invece la Procura di Aosta non ne vuole sapere, cioè fa di tutto, copre la verità e difende l’assassino pur di dar colpa a me, ma non di trovare la verità…"; "… la Procura di Aosta invece di cercare il vero colpevole si perde, perchè siamo qui ancora dopo tre anni? E’ scandaloso…"; "… sa cos’è, volevo dire questo che a noi fa soffrire e che in tutta questa storia la Procura di Aosta, gl’inquirenti, hanno dimenticato, e dico dimenticato S., cioè non si rendono conto che c’è la morte di un bambino, io sono diventata il loro capro espiatorio, cioè loro si divertono, colpa o non colpa, sui giornali".

Il Tribunale aveva inquadrato gli asserti dell’imputata nel contesto del procedimento in corso, c.d. "Cogne bis", scaturito dall’esposto dei coniugi L., nel quale era finito indagato anche il suo originario difensore. E, pur preso conto delle ragioni personali della F., ne aveva escluso l’esercizio del diritto di critica, ritenendo ingiustificabili le attribuzioni non solo alla professionalità, ma anche all’integrità morale della persona offesa.

L’appello sosteneva le frasi rivolte all’Ufficio, sicchè solo il Ministro della Giustizia, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, sarebbe stato legittimato a dare impulso all’azione penale. La Corte di merito ha ripetuto che la D.S., direttamente offesa dall’attribuzione dolosa di persecuzione della F., non si è querelata nella sua qualità ed in rappresentanza dell’ufficio.

E, pur escludendo l’aggravante, ha condiviso i motivi di diritto e di fatto esposti nella sentenza del Tribunale.

2 – Il ricorso (Avv. L. Imperato – P. Savio), premesso che il nome della querelante non è mai stato citato nel corso della trasmissione, deduce: 1 – vizio di motivazione in ordine all’individuazione univoca del destinatario, sviluppando la premessa con riferimenti al procedimento ed agli assegnatari delle indagini; 2 – violazione di legge e contraddittorietà della motivazione in ordine alla titolarità del diritto di presentare querela da parte della dr.ssa B., sostenendo che, come si desume dall’imputazione cui bisognava attenersi, l’offesa si proietta sull’Ufficio, mentre la sentenza sposta l’attenzione sull’attività specifica del singolo magistrato, nemmeno messa in discussione nell’intervista; 3 – idem in relaz. all’art. 595 c.p., quanto alla legittimazione a presentare querela della dr.sa D.S.B., dichiaratamente agente in qualità di capo dell’ufficio giudiziario, perciò rappresentando lo stesso ufficio, non le persone ad esso appartenenti; 4 – idem, quanto ai criteri di accertamento dell’individuazione del destinatario dell’offesa ed alla ritenuta "plurioffensività della diffamazione", in ipotesi rivolta ad un ente ed ai suoi componenti; 5 – contraddittorietà della motivazione, travisamento del fatto e della prova, rappresentata dalla trascrizione delle dichiarazioni dell’imputata nel corso della trasmissione – violazione art. 51 c.p..

2. Il ricorso è ai limiti di ammissibilità e comunque infondato.

I primi quatto motivi sono volti ad escludere, sotto il profilo procedurale, la legittimazione della dr.ssa D.S. ad esercitare il diritto di querela e, sotto quello sostanziale, la sua stessa qualità di persona offesa. Tali motivi sono manifestamente infondati perchè pretestuosi e non consentiti in quanto prospettano la lettura alternativa di taluna locuzione della querela e delle espressioni incriminate, per dar corpo a presupposti di fatto per ciascun aspetto diversi da quelli che i Giudici di merito hanno ripetutamente tratto dal tenore della stessa querela e delle manifestazioni qualificate diffamanti, valutate nel contesto.

Difatti la motivazione di entrambe le sentenze s’incentra sul rilievo specularmente decisivo che l’imputata ha attribuito a qualsiasi magistrato della Procura, che esplicava attività d’ufficio nella vicenda in cui era coinvolta, di trascurare la gravità del fatto della morte di suo figlio, rendendola "capro espiatorio" per trarre "divertimento" dal rilievo di stampa.

Orbene, tali attribuzioni concernono mozioni e comportamenti delle persone fisiche, non atti impersonali dell’ufficio di Procura di cui ciascuna faceva parte. E poichè i pochi magistrati di tale ufficio risultano indistintamente coinvolti, perciò anche ed in primo luogo il suo capo, ritenuto dai Giudici dei due gradi non estraneo alle indagini, all’evidenza non si vede come escludere in questa sede che l’offesa fosse diretta anzitutto alla sua persona, quand’anche in querela tale persona abbia posto accento sulla propria funzione direttiva.

L’ultimo motivo è erroneo già perchè parifica nell’enunciato il c.d. "travisamento del fatto", impossibile da rilevarsi in questa sede, al "travisamento della prova". L’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) nel testo vigente autorizza il ricorrente a dedurre il travisamento della prova, indicando un atto la cui esistenza per sè dimostri la motivazione viziata, non a chiedere al Giudice di legittimità di valutarne il tenore al fine di indurne lui stesso il fatto.

L’equivoco dell’enunciato si traduce nel disattendere il senso reale della risposta offerta in sentenza, dovutamente concisa ( art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), ripetendo la tesi di parte. Difatti la Corte di Milano ha spiegato il perchè dell’offensività delle frasi incriminate valutandole nel contesto. A riprova, ha anche rimarcato che tale offensività è stata immediatamente rilevata dallo stesso intervistatore, che ha preso distanza dall’intervistata.

Infine risulta incensurabile il diniego dell’esimente.

Per diritto vivente, di cui sono superflue le citazioni, la manifestazione in qualsiasi contesto dell’opinione sull’operato di colui che svolga una pubblica funzione non può tradursi in attacco alle sue qualità personali. L’indagato ha diritto di manifestare il suo pensiero nei confronti di chi svolge le indagini. Ma l’esercizio del suo diritto di critica si giustifica solo qualora l’opinione, obiettivamente offensiva da lui espressa, offra una tesi dialetticamente confutabile, che perciò non consista nell’asserto apodittico di disvalore connaturato al modo d’agire del magistrato d’iniziativa penale, le cui scelte sono vincolate al rispetto della legge, proprio per la tutela dell’interesse pubblico alla punizione del reato.

Nella specie, ritenuta in fatto l’attribuzione alla persona offesa di tali scelte per sue mozioni inconciliabili con il dovere istituzionale, risulta rettamente esclusa l’esimente richiesta.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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