Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-04-2011) 24-06-2011, n. 25452

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione E.M. avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli in data 4 febbraio 2010 con la quale, a seguito di annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione, è stata confermata la sentenza di primo grado (del 2007), affermativa della sua responsabilità in ordine ai reati di estorsione aggravata in concorso e illeciti detenzione e porto di arma comune da sparo, fatto, questo, al pari del precedente, aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Gli eventi delittuosi in esame risalgono al febbraio 1997 e si riferiscono ad una iniziativa estorsiva posta in essere nei confronti di un imprenditore di Angri, S.M., costretto con minacce telefoniche e intimidazioni ulteriori – consistite nella esplosione di colpi d’arma da fuoco ad opera proprio del ricorrente – a versare la somma di 60 milioni d lire che veniva materialmente appresa dal complice F.G..

Il fatto era stato ritenuto commesso dagli imputati, avvalendosi delle modalità intimidatrici proprie di una organizzazione camorristica di riferimento ed al fine di agevolare proprio tale genere di organizzazione della quale il F. era risultato esponente di vertice.

L’annullamento deciso dalla Cassazione era stato determinato dalla rilevazione di una nullità che aveva inficiato il giudizio di appello, per non essere stato dato rituale avviso al difensore di fiducia.

La Corte di appello ha dato atto del materiale probatorio consistito nelle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e nel contenuto di una intercettazione ambientale registrata nel 2003.

Era emerso, in particolare dal racconto di F.G., che la estorsione era stata ideata dal ricorrente e da A. D..

Egli si era inserito in tale iniziativa delittuosa per motivi personali ed aveva fatto lievitare l’importo della richiesta estorsiva a 60 milioni di lire, impegnandosi nella ricezione della somma di cui aveva dato ai complici una parte (quindici milioni) e trattenuto il resto per sè.

A riscontro delle dichiarazioni del F., la Corte ha citato quelle di E.F. (sentito come teste assistito) il quale aveva reso una deposizione conforme a quella appena ricordata, riferendo quanto in proposito aveva appreso da E.M. e quanto, altresì, appreso da terzi nel corso di un colloquio avvenuto in carcere.

Si trattava, in quest’ultimo caso, di O.G. e U. M. (in ordine ai quali la Corte precisava i rapporti di colleganza criminale con E.M. e con l’altro coimputato, A.D.).

In particolare E.M. aveva confidato ad E. F. che l’azione era stata portata avanti da A. il quale gli aveva fornito anche un’arma per minacciare la vittima.

Il primo aveva effettivamente esploso colpi d’arma da fuoco contro l’abitazione del S..

E.F. aveva infine appreso dal medesimo E. M. che l’azione era stata in realtà concepita da S. P., al posto del quale si era però inserito il F..

Inoltre la Corte di merito ha valutato come elemento di riscontro le dichiarazioni accusatorie di S.P. osservando che lo stesso aveva, affidabilmente, riferito della azione estorsiva posta in essere dal cugino A. e da E.M..

Di tali fatti egli aveva saputo quando il cugino A. lo aveva accusato di avervi preso parte.

Ritenendosi estraneo, aveva chiesto spiegazioni ad A. che gli aveva confermato che l’azione era stata posta in essere da E. M. con una pistola che egli stesso gli aveva fornito.

Anche E. gli aveva confermato tale circostanza, precisando pure il particolare della intromissione di F. che aveva riscosso la intera somma riservando per essi solo 10 o 15 milioni di lire.

La Corte ha citato pure le convergenti dichiarazioni di tali A. e G., ritenendole però poco precise perchè "de relato".

Infine i giudici di secondo grado hanno riconosciuto un particolare valore probatorio ad una conversazione ambientale intercettata nel 2003, relativa ad una conversazione di A. con altro soggetto, al quale il primo raccontava la vicenda assegnando a ciascun protagonista il ruolo fino a quel momento emerso sulla base delle risultanze sopra ricordate.

Deduce il ricorrente il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 192 c.p.p..

A suo avviso le dichiarazioni dei principali collaboratori ( F., E.F. e S.) sarebbero state mal interpretate dai giudici del merito, dopo una illegittima decontestualizzazione delle singole frasi da ciascuno pronunciate.

Inoltre vi sarebbero contraddizioni fra le diverse dichiarazioni, non adeguatamente valorizzate da parte della Corte.

Così le affermazioni del F. sarebbero in contrasto con quelle di S. a proposito della partecipazione anche di costui alla azione criminosa; sarebbero in contrasto anche con quelle di A., col quale non avrebbe mai parlato.

Le affermazioni di S. sarebbero in contrasto con quelle di tutti gli altri a proposito del suo coinvolgimento diretto.

Egli soltanto lo negava, al fine evidente di preservare la propria posizione.

Le affermazioni di E.F. sarebbero parimenti in contrasto con quelle di S. a proposito del ruolo svolto da costui. Inoltre il suo racconto conterrebbe particolari non congruenti col racconto degli altri a proposito del bersaglio dei colpi d’arma da fuoco esplosi da E.M. (l’auto della vittima e non la sua abitazione) l’importo ricevuto dalla vittima stessa e la identità del materiale percettore.

Dunque, la deposizione di E.F., travisata dalla Corte d’appello perchè l’avrebbe riportata con il riferimento al racconto – di E.M. – in termini erronei (l’ E.M. cioè avrebbe raccontato all’ E.F. di avere esploso colpi contro l’auto del S. e non contro la sua abitazione mentre tale particolare, che evidenzierebbe la falsità del racconto di Mario, in contrasto con tutte le altre obiettive emergenze, non è stato rilevato dalla Corte), comporterebbe la illogicità dell’intera ricostruzione accreditata dalla Corte.

Anche le affermazioni di A. e G. sarebbero state interpretate con superficialità.

In conclusione rimarrebbero oscuri punti fondamentali delle comuni ricostruzioni in ordine al soggetto che esplose materialmente i colpi, al bersaglio di tali colpi e vi sarebbero ricostruzioni, come quella proveniente da E.F., che la difesa definisce false.

Diversa dovrebbe essere la ricostruzione dei fatti, secondo la difesa, posto che proprio la inattendibilità di tutte le dichiarazioni dei collaboranti avrebbe dovuto far comprendere che la iniziativa estorsiva era stata assunta e posta in essere dal F. il quale si era avvalso, per la esplosione dei colpi, di tale D.L., accusando poi però soggetti diversi da quelli effettivamente coinvolti per una legge interna alla organizzazione che vieta di sottoporre ad estorsione un soggetto parente di affiliati alla organizzazione (quale appunto il S.).

Inoltre dalle dichiarazioni di G. si sarebbe dovuto ricavare che la azione del ricorrente si era limitata alla fase iniziale, integrante mero tentativo.

Il ricorso è infondato.

La parte ricorrente articola un unico motivo di ricorso incentrato su una pretesa illogicità manifesta della motivazione, in realtà però sconfinando su un terreno che è precluso alla valutazione di questo giudice della legittimità: il terreno cioè della valutazione del risultato di prova che il ricorrente sottopone nuovamente a questa Corte come se si trattasse di un giudice del merito, sollecitando ad essa di rinnovare una autonoma valutazione, evidentemente più favorevole.

Invero il ricorrente a tanto si è in concreto indotto quando ha ritenuto di riportare ad una ad una le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia o comunque dei testimoni assunti nel processo per prospettare, nel ricorso, le ragioni di presunte discrasie ed evidenti inconciliabilità dei racconti.

Si tratta però di un modo di articolare il motivo di ricorso che non rispetta i limiti posti, per tale genere di gravame, dall’art. 606 c.p.p., essendo demandato alla Cassazione, come è noto, il sindacato solo sulla tenuta logica della motivazione e sulla relativa completezza e giammai sul senso fatto proprio dalle parole dei dichiaranti.

In particolare, quando si intende far notare la impossibilità di conciliare diverse versioni di testi la difesa ha, come mezzo processale a disposizione, non già quello di portare direttamente il giudice della legittimità a conoscenza di tali presunte discrasie.

Il ricorrente è tenuto, invece, a rappresentare in primo luogo le contraddizioni al giudice del merito e, in seguito, a denunciare con ricorso le ragioni di quella che egli ritiene essere stata una omessa valutazione delle proprie censure: in più, rappresentando anche la rilevanza della questione onde consentire alla Cassazione di sottoporre la sentenza impugnata alla cd. prova di resistenza, ossia di tenuta della relativa motivazione, pur in mancanza dell’elemento di prova contestato (se fondatamente) dalla parte.

Ed invece la parte ricorrente non sembra essersi attenuta a tali dettami in quanto non ha preso le mosse da quella che è stata la valutazione operata dalla Corte d’appello in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori e dal principio, cui questa si è attenuta, riguardo alla necessità che le dichiarazioni stesse debbano riscontrarsi quantomeno relativamente al nucleo essenziale del narrato.

La difesa fa notare la singolarità della posizione del S. che avrebbe tentato di tenersi fuori dai fatti, in contrasto con le dichiarazioni degli altri, ed la circostanza che E.M. avrebbe dichiarato a E.F. un fatto falso (aver tirato colpi contro l’auto della vittima) così denunciando la inattendibilità della propria narrazione.

E’ tuttavia evidente che simili apprezzamenti sulla attendibilità dei dichiaranti non può certo essere rimessa all’apprezzamento autonomo del giudice della legittimità, avendo mancato il ricorrente di sostenere e dimostrare di avere posto specifiche doglianze in proposito, con motivi altrettanto dettagliati, al giudice del merito.

E di non avere ricevuto, senza giustificazione alcuna, adeguata risposta.

D’altro canto il ricorrente trascura completamente la valutazione di attendibilità del S. e della sua chiamata in reità nei confronti del ricorrente, valutazione che la Corte d’appello ha comunque effettuato pur tenendo conto del fatto che S. ha affermato di essere estraneo alla vicenda estorsiva.

Ebbene, la Corte ha osservato che anche la autoesclusione del S. dalla azione estorsiva non valeva a porre in dubbio la sua credibilità a proposito della posizione del ricorrente atteso che il S. si è autoaccusato di numerosi reati tra quali omicidi ed altro, sicchè non avrebbe avuto interesse alcuno a mentire nel dichiararsi innocente rispetto al fatto de quo.

Inoltre la Corte ha anche affrontato i limiti della valenza indiziaria delle ammissioni del ricorrente, così come riportate da E.F., sottolineando come la narrazione del primo è risultata, "nei punti essenziali", conforme alla ricostruzione del F., sulla cui credibilità soggettiva ed oggettiva, parimenti, la motivazione del provvedimento impugnato si è soffermata con motivazione congrua e razionale.

La Corte ha anche posto in evidenza che la richiamata conformità delle ricostruzioni di S. e di E.M. rispetto alla dichiarazione auto ed etero-accusatoria del F. – la principale chiamata di correo da riscontrare – hanno fatto di quelle ricostruzioni se non elementi sicuramente probanti quantomeno riscontri individualizzanti capaci di giustificare la valenza probatoria della chiamata.

La motivazione è, in altri termini, logica e plausibile e il sindacato di questa Corte non può essere ulteriormente invocato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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