Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 14-04-2011) 24-06-2011, n. 25441

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Termini Imerese, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale C. M. era stato condannato alla pena di giustizia con riferimento al delitto di minaccia per avere pronunziato all’indirizzo di M.A., la frase: "se mio padre avrà gualche problema con te, ti farò scomparire come il sale nell’acqua".

Ricorre per cassazione il difensore e deduce violazione degli artt. 192 e 210 c.p.p. e carenza dell’apparato motivazionale. Con l’atto di appello si era dedotto che la affermazione di responsabilità si fondasse unicamente sulle dichiarazioni della presunta PO. Per tutta risposta il Tribunale, prendendo atto di ciò, osservava che il giudice di primo grado, non avendo elementi di riscontro alle parole del M. o del C., aveva "scelto" la versione che sembrava assistita dal più alto livello di attendibilità. In realtà, sarebbe stato compito del giudice di appello colmare la lacuna motivazionale della sentenza di primo grado, attraverso l’esposizione dei contenuti delle versioni fornite dalla contrapposte parti e delle ragioni per le quali la versione della PO e dei suoi familiari era stata ritenuta più credibile di quella dell’imputato.

Il Tribunale ha trascurato l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che ha chiarito che il controllo di attendibilità sulle dichiarazioni della PO, costituitasi PC, deve essere rigoroso, fino a giungere a valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri mezzi.

Per altro la difesa dell’imputato ha avuto modo di dimostrare come, a sua volta il M. e i suoi familiari fossero stati querelati dal C.. Secondo i giudici del meri torcia non conferisce ai predetti la veste di indagati. L’assunto è errato atteso che, in presenza di una querela, la pg ha obbligo di riferire alla AG e il PM ha obbligo di procedere alla iscrizione nel registro degli indagati.

Inoltre il Tribunale non ha tenuto in considerazione le parole dell’unico teste non legato da vincoli di parentela al M., V.C.; anzi travisando il senso della prova derivante dalla valutazione della sua ricostruzione dei fatti, ha affermato che il predetto avrebbe dichiarato di essere giunto sul posto dopo che il litigio tra C. e M. si era concluso.

Il ricorrente poi deduce violazione dell’art. 612 c.p. e illogicità di motivazione, atteso che il Tribunale erroneamente – e contraddicendo la giurisprudenza di legittimità – ritiene che costituisca reato una minaccia condizionata.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e merita rigetto.

Il ricorrente va condannato alle spese del grado.

Il Tribunale ha fondato il suo con convincimento – coincidente con quello del GdP – tanto sulle dichiarazioni della PO, quanto su quelle dei familiari di costui, ritenendo "neutra" la dichiarazione del V., giunto quando la lite aveva avuto ormai termine. Ebbene è noto (e lo ricorda anche il ricorrente, cfr. ad. es. ASN 200433162- RV 229755) il principio in base al quale le dichiarazioni rese dalla PO – anche se costituita PC e dunque portatrice di pretese economiche – sottoposte ad un adeguato controllo di credibilità, possono essere assunte, anche da sole (scil., senza che sia indispensabile applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4) come prova della responsabilità dell’imputato.

Nel caso in esame, il giudice di appello chiarisce per qual motivo, tra le due contrapposte versioni, ha attribuito credibilità a quella del M. e dei suoi congiunti.

Non è poi esatto che il soggetto a carico del quale è stata proposta querela assuma "automaticamente" la veste di indagato. La iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. è, infatti, comunque, conseguenza di una, sia pur sommaria, delibazione da parte del PM; se così non fosse, l’assunzione di tale qualifica (con tutte le sue conseguenze e, tra esse, quelle indicate dal ricorrente) dipenderebbe dal mero arbitrio del privato e non dalla decisione dell’Organo dell’accusa.

Infine, va chiarito che non integrano il delitto di minaccia le locuzioni intimidatrici espresse in forma condizionata, quando siano dirette, non già a restringere la libertà psichica del soggetto passivo, ma a prevenirne un’azione illecita o inopportuna e siano rappresentative della reazione legittima determinata dall’eventuale realizzazione di dette azioni (ASN 200729390-RV 237436): è altrettanto vero che, innanzitutto, deve esservi proporzione tra la condotta che si vuole evitare e la maniaccia condizionata, e,poi,che la condotta che si vuole scongiurare abbia intrinseci caratteri di ingiustizia o di inopportunità.

E’ inoltre indispensabile, come sopra anticipato, che la reazione sia legittima. Nel caso in esame, mentre certamente non ricorre il primo presupposto (la minaccia di far "scomparire" taluno è certamente – almeno in astratto – preoccupante), non è stato dimostrato (da parte di chi invoca la natura "legittima" della frase minacciosa) che ricorra il secondo. Meno che mai è stata sostenuta (oltre che dimostrata) la natura legittima della reazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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