Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 23-03-2011) 24-06-2011, n. 25352

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

MOTIVI DELLA DECISIONE Con ordinanza in data 10.8.2010 il Tribunale del Riesame di Catanzaro rigettava il ricorso proposto da L.P. avverso l’ordinanza cautelare della custodia in carcere emessa nei suoi confronti dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro in data 17.7.2010 per il delitto di cui all’art. 416 bis (capo 1).

La vicenda cautelare in argomento costituisce l’epilogo di una complessa attività di indagine svolta dal GICO di Catanzaro e dai CC del Comando Provinciale di Cosenza (operazione Santa Tecla) finalizzata ad accertare le attività delittuose svolte nella zona di (OMISSIS) da soggetti appartenenti o comunque gravitanti attorno al "locale di (OMISSIS)".

Il Tribunale premetteva che la sussistenza sin dagli anni 90 del secolo scorso di un’associazione per delinquere di stampo mafioso in Corigliano era già stata accertata con sentenze passate in giudicato.

Dopo un excursus storico che dava conto della genesi del locale di (OMISSIS), sottolineava come gli arresti e poi le condanne nel processo c.d. "Set Up", conclusosi con la sentenza del dicembre 2005, ormai passata in giudicato, avevano determinato un forte ridimensionamento della cosca coriglionese che era degradata al rango di ‘ndrina subordinata al locale zingaro di (OMISSIS).

La genesi del locale zingaro di (OMISSIS) era stato il tema del processo c.d. "Sibarys" che si era concluso nel giugno 2008 con la condanna, fra gli altri, di A.F. noto come "(OMISSIS)" e P.D..

Nel 2002 era uscito dal carcere F.G. che non solo aveva rivendicato l’egemonia del locale di (OMISSIS), ma aveva preteso di restaurare i vecchi rapporti. Per questo fu ucciso da killers degli A..

Nel novembre 2006 veniva eseguita la c.d. operazione "Corinan" che ricostruiva alcuni affari della cosca e che dava luogo ad un processo conclusosi nel settembre 2009 che riconosceva la persistenza del locale coriglianese.

Secondo il Tribunale le indagini svolte nell’ambito del presente procedimento, consistite nell’ascolto di intercettazioni telefoniche ed ambientali; servizi sul territorio che hanno portato ad arresti e sequestri di armi e stupefacenti; acquisizione di documentazione contabile; dichiarazione di numerosi collaboranti di giustizia, di indiscussa attendibilità, quali: R.T., C.G., B.G., C.A., CA.An., C. G., A.C., CU.Vi., hanno permesso di accertare, come l’assenza di un capo incontrastato che dirigesse il sodalizio criminoso, aveva determinato il sorgere di un contrasto fra BA.Ma., rimasto legato agli zingari, e M.P. S., che si muoveva invece in autonomia, per l’assunzione della leadership, di individuare l’organigramma delle fazioni in lotta tra loro, di pervenire all’identificazione di molti componenti dell’associazione e di delinearne i compiti e la struttura.

Le ragioni della contesa trovavano origine nella pretesa di monopolio dell’offerta di stupefacente.

In particolare con riguardo all’appartenenza di L.P. all’associazione in argomento il Giudice del Riesame richiamava le dichiarazioni di A.C., CU.Vi. e C. G. che lo aveva indicato come uno degli appartenenti al Locale di Corigliano con un ruolo apicale che comandava anche dal carcere trasmettendo imbasciate attraverso i parenti che effettuavano colloqui in carcere, in particolare tramite il fratello L. F., persona non affiliata, ma ritenuta affidabile "molto rispettata" dai consociati al punto di partecipare a riunioni con altri congiunti di sodali detenuti per risolvere ogni problema.

CU.Vi. aveva riferito del ruolo apicale del L. in seno alla cosca indicando in particolare che alla sua uscita dal carcere, tra il dicembre 2006 e il 2007, l’indagato aveva assunto il controllo del traffico degli stupefacenti per conto del gruppo e ne gestiva gli introiti. Il Tribunale sottolineava come il già grave quadro indiziario risultava ulteriormente confermato da intercettazioni telefoniche, specificatamente indicate (cfr. n. 1744 del 10.2.2007 ) e dall’intercettazione ambientale, progr. N. 429 del 14.1.2005, nel corso della quale MO.Eu. e B. A. detto (OMISSIS) dopo aver visto in strada B. M. parlare con L.P. si lamentavano tra di loro dicendo che due appartenenti della organizzazione criminale coriglianese non dovevano farsi vedere insieme in pubblico dove potevano essere visti dalle forze dell’ordine.

Ricorre per Cassazione il difensore dell’indagato deducendo che l’ordinanza impugnata è incorsa:

1) in violazione di legge sostanziale e processuale. In particolare lamenta:

1. l’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia rese dopo il termine di gg. 180 di cui alla L. n. 81 del 1992, art. 16 quater, comma 1. Sul punto contesta la decisione del giudice del Riesame che ha affermato che tale inutilizzabilità vale solo nella fase del dibattimento ed opera solo con riguardo alle dichiarazioni raccolte dal P.M. e dalla P.G..

2. L’inattendibilità dei collaboratori e l’assenza di riscontri e sottolinea come spesso le loro dichiarazioni siano de relato (dich.

CU. dell’11.5.2009). Sottolinea comunque come le dichiarazioni dei collaboratori riguardino fatti per i quali il proprio assistito aveva già scontato la pena con conseguente violazione del principio del ne bis in idem. Il ricorrente era infatti stato condannato per associazione ex art. 416 bis c.p. nel processo Set Up ed aveva scontato la pena restando in carcere dal 23.7.1998 al 22.12.2006. 3. l’inutilizzabilità delle intercettazioni ai sensi dell’art. 271 c.p.p. perchè poste in essere senza il rispetto di quanto prescritto dall’art. 268 c.p.p. e comunque mancano i requisiti richiesti affinchè possano valere come piena prova (chiarezza, decifrabilità ed assenza di ambiguità).

2) vizio di motivazione con riguardo alle esigenze cautelari;

3) nullità dell’ordinanza per violazione del diritto di difesa avendo il GIP disposto la limitazione dei colloqui difensivi.

Presentava memoria difensiva nella quale contestava in particolare l’intercettazione ambientale del 14.1.2005 evidenziando che in tale data l’indagato era ristretto in carcere. Il motivo 1 – sub I) è infondato.

Questa Corte pronunciatasi a SSUU in data 25.9.2008 ha affermato che la sanzione di inutilizzabilità della prova, prevista per le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia dopo il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare, opera esclusivamente nel dibattimento.

A tale ultima conclusione è pervenuta attraverso una puntuale interpretazione letterale della norma in discussione nella quale si legge che le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia al P.M. e alla polizia giudiziaria, oltre il termine di 180 giorni dalla manifestazione di volontà di collaborare con la giustizia, non possono essere valutate ai fini della prova dei fatti in esse affermati contro le persone diverse dal dichiarante, salvo i casi di irripetibilità.

La regola di esclusione probatoria prevista dall’art. 16 quater, comma 9, impedisce la utilizzazione delle dichiarazioni ex art. 500 c.p.p., comma 4 prevista per le altre dichiarazioni, dal momento che l’unica deroga al regime di inutilizzabilità esplicitamente previsto è quello dei casi di irripetibilità della prova. Da quanto detto si desume pertanto che la inutilizzabilità in discussione è relativa alla fase dibattimentale ed è parziale perchè fa salvi i casi di irripetibilità. Ciò significa che le dichiarazioni rese dal collaborante oltre i centottanta giorni dalla manifestazione di volontà di collaborare sono certamente utilizzabili nella fase delle indagini preliminari e, quindi, anche ai fini della emissione di misure cautelari personali.

Con riguardo alla doglianza relativa all’inattendibilità dei collaboratori (motivo 1 – sub 2) deve rilevarsi che non è certamente questa, del sindacato di legittimità, la sede dove possa essere rimesso in discussione l’apprezzamento fattuale, riservato ai giudici del merito, sulle circostanze caratterizzanti la credibilità soggettiva e l’intrinseca affidabilità del racconto del collaboratore. Ma è precipuo compito della Corte di cassazione verificare se sia stata fatta, o non, corretta applicazione del criterio stabilito dall’art. 192 c.p.p., comma 3 ai fini della valutazione dell’effettiva consistenza probatoria delle chiamate in reità.

Risulta invero ormai compiutamente delineata nella giurisprudenza di legittimità, in tema d’interpretazione del canone di valutazione probatoria fissato dall’art. 192 c.p.p., comma 3, l’operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata in reità di un collaboratore di giustizia, alla stregua della quale essa, perchè possa assurgere al rango di elemento di prova pienamente valido a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di un’affermazione di responsabilità, seppure in termini di gravità indiziaria, necessita, oltre che del positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, anche di riscontri esterni, i quali debbono avere carattere "individualizzante" per il profilo dell’inerenza soggettiva al fatto, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche, circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere. Con il lineare corollario che le accuse introdotte mediante dichiarazioni de relato, aventi ad oggetto la rappresenta2ione di fatti noti al dichiarante non per conoscenza diretta ma perchè appresi da terzi, in tanto possono integrare una valida prova di responsabilità in quanto, oltre che intrinsecamente affidabili con riferimento alle persone del dichiarante e delle fonti primarie, siano sorrette da convergenti e individualizzanti riscontri esterni, in relazione al fatto che forma oggetto dell’accusa ed alla specifica condotta criminosa dell’incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa.

Ciò detto deve evidenziarsi che il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei criteri ermeneutici sopra indicati.

Ha dato conto dell’attendibilità intrinseca dei chiamanti e ne ha sottolineato la convergenza e l’assoluta indipendenza. I collaboratori, in particolare A.C., CU.Vi. e CO.Gi. hanno indicato l’attuale ricorrente come uno degli appartenenti al Locale di (OMISSIS) con un ruolo apicale che comandava anche dal carcere trasmettendo imbasciate attraverso i parenti che effettuavano colloqui in carcere. Il Tribunale ha sottolineato come CU.Vi. aveva riferito del ruolo apicale del L. in seno alla cosca indicando in particolare che alla sua uscita dal carcere, tra il dicembre 2006 e il 2007, l’indagato aveva assunto il controllo del traffico degli stupefacenti per conto del gruppo gestendone gli introiti. Dichiarazioni che risultavano ulteriormente confermato da intercettazioni telefoniche, specificatamente indicate (cfr. n. 1744 del 10.2.2007).

Il collegio osserva che effettivamente L. era detenuto il 14.1.2005, data in cui è stata intercettata la conversazione ambientale, richiamata dal Tribunale, nel corso della quale MO. E. e BR.An. detto (OMISSIS) avrebbero visto in strada BA.Ma. parlare con L.P. e si sarebbero lamentavano tra di loro dicendo che due appartenenti della organizzazione criminale coriglianese non dovevano farsi vedere insieme in pubblico dove potevano essere visti dalle forze dell’ordine è.

Tanto premesso occorre però considerare il fatto che tale conversazione non assume affatto nell’economia della decisione impugnata il rilievo determinante che il ricorrente pretende di attribuirgli ma, al contrario, riveste un ruolo del tutto marginale, di elemento di ulteriore conferma di conclusioni già autonomamente raggiunte dal Tribunale del Riesame sulla scorta dell’analisi di numerosi altri elementi probatori Questa Corte ha già avuto modo di affermare che anche in sede di legittimità può procedersi alla cosiddetta prova di resistenza nel senso di valutare se gli elementi di prova in contestazione abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito, controllando in particolare la struttura argomentativa della motivazione al fine di stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa senza l’utilizzo di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute di per sè sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Cass., 1A, n. 1495 del 2.12.1998) Nel caso in esame il Tribunale ha fondato il suo convincimento ed ha incentrato la sua decisione su altri elementi di prova richiamando nel corpo della motivazione stessa la conversazione ambientale in esame solo in termini aggiuntivi, come dato di ulteriore conferma di una prova già pienamente raggiunta e di una argomentazione già completai N. 1495 del 1999 Rv. 212274, N. 569 del 2004 Rv. 226972; N. 10094/05). Il ricorso è pertanto infondato anche su tale doglianza. Infondato è anche il motivo 1 – sub 3).

Gli argomenti esposti sono generici, non individuando le ragioni in fatto o in diritto per cui l’attività captativa sarebbe stata realizzata in violazione di legge. Così come infondate perchè versate in fatto sono le doglianze in ordine alla valutazione del contenuto delle conversazioni intercettate. Infondato è anche il 3 motivo di ricorso. IL provvedimento con il quale venga differito il colloquio dell’indagato in stato di custodia cautelare con il suo difensore non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei casi di assenza o manifesta illogicità della motivazione o di mancato rispetto dei limiti temporali previsti dall’art. 104 c.p.p., comma 3. E comunque può correttamente basarsi anche sulla ritenuta gravità dei fatti riguardanti una pluralità di indagati, unitamente all’esigenza di evitare la possibilità di preordinate e comuni tesi difensive di comodo Infondato è anche il 2 motivo di ricorso con il quale il ricorrente lamenta un vizio di motivazione in ordine alle esigenze cautelari.

In tema di custodia cautelare in carcere, applicata nei confronti dell’indagato per il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), l’art. 275 c.p.p., comma 3, pone una presunzione di pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, con la conseguenza che al giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione. Ne deriva che la prova contraria, costituita dall’acquisizione di elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari, si risolve nella ricerca di quei fatti che rendono impossibile che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la conseguenza che, ove non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono verificati, persiste la presunzione di pericolosità (Cass. Penale sez. 5, 48430/2004, Rv. 231281 Grillo Massime precedenti Conformi: n. 755 del 1995 Rv. 201598).

Al riguardo non può non rilevarsi come il Tribunale abbia fornito una motivazione adeguata su entrambi i profili, non solo rilevando che il giudizio sulla personalità era negativo per i suoi precedenti specifici e per il suo persistente legame con il gruppo.

Il ricorso è pertanto infondato e deve essere respinto. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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