Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 08-06-2011) 28-06-2011, n. 25721 Relazione tra la sentenza e l’accusa contestata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 18 ottobre 2010, la Corte d’ Appello di Trieste, 1^ sezione penale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale in sede riduceva la pena detentiva inflitta all’appellante F. M. a tre anni sette mesi dieci giorni di reclusione e sostituiva la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea per la durata di cinque anni; confermava nel resto la decisione impugnata con la quale F. era stato condannato anche alla pena pecuniaria di duemila euro di multa, perchè dichiarato colpevole del delitto di truffa aggravata continuata ( artt. 81 e 640 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11) posta in essere con abuso della qualità di promotore finanziario della società di intermediazione mobiliare SANPAOLO INVEST incaricato della gestione del portafoglio dei coniugi B.W. e C.R. e con artifici e raggiri consistiti nella compilazione con la loro falsa firma di sette richieste di carnet di assegni bancari e quindi di quarantacinque assegni bancari per importo complessivo di Euro 119.980 che venivano messi direttamente all’incasso o comunque in circolazione, inducendo in tal modo in errore i dipendenti bancari ai quali i titoli venivano presentati con corrispondente danno per le persone offese B. e C., in Trieste fra giugno e ottobre 2004.

La Corte territoriale rigettava il primo motivo di appello al rilievo che non sussisteva la denunciata violazione dell’art. 521 c.p.p., perchè il fatto ritenuto in sentenza corrispondeva esattamente a quello contestato. La circostanza che fossero stati indotti in errore gli impiegati che avevano messo all’incasso i titoli e non le persone offese era priva di rilievo perchè il dettato normativo non implica la necessaria identità tra persona indotta in errore e persona offesa, ben potendo la condotta fraudolenta essere indirizzata ad un soggetto di verso dal titolare del patrimonio, sempre che sussista il rapporto causale tra induzione in errore e gli elementi del profitto e del danno. Il secondo motivo di appello veniva invece ritenuto meritevole di accoglimento e per l’effetto la pena detentiva, quantificata dal primo Giudice in sei anni e due mesi di reclusione, veniva ridotta, tenuto conto dei parametri di cui all’art. 133 c.p., a tre anni sette mesi dieci giorni di reclusione, congrua essendo quella pecuniaria e senza riconoscimento delle attenuanti generiche perchè l’incensuratezza, in quanto condizione indispensabile per poter svolgere l’attività di promotore finanziario, cedeva a fronte della gravita del fatto posto in essere con abuso della sua funzione di fiduciario connessa alla sua apparente probità.

Contro tale decisione ha proposto tempestivo ricorso l’imputato, a mezzo del difensore, che ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi: – erronea applicazione della legge penale per mancata correlazione fra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza e conseguente violazione dell’art. 521 c.p.p. perchè i fatti contestati e per i quali il ricorrente è stato dichiarato colpevole non sono sussumibili nella fattispecie penale di cui all’art. 640 c.p., perchè, condivisibile essendo la ricostruzione in fatto, erroneamente si è ritenuto che il reato non implichi la necessaria identità tra la persona indotta in errore e la persona offesa. La truffa presuppone infatti che la persona offesa, per effetto dell’inganno posto in essere dal soggetto agente, compia l’atto dispositivo per lei pregiudizievole volontariamente, ancorchè con deliberazione viziata per effetto degli artifizi e raggiri. Nel caso in esame i signori B., soggetti passivi che hanno subito il pregiudizio patrimoniale, non hanno posto in essere alcun atto di disposizione. Per l’effetto il principio di diritto invocato dalla Corte Triestina risulta incompatibile con i principi ricordati. Nè, a ben vedere vi è stato alcun atto di disposizione, da parte dell’istituto di credito presso il quale gli assegni sono stati tratti e poi pagati, "perchè non vi è alcuna discrezionalità da parte di una banca che vede porre all’incasso effetti tratti da un soggetto – apparentemente abilitato – che voglia disporre dei propri fondi in ordine alla possibilità di pagare o meno quel assegno.

Pertanto, manca del tutto la correlazione fra fatto contestato e il reato ascritto, versandosi quindi in ipotesi di erroneità della qualificazione giuridica data al fatto, non inquadrabile nella fattispecie contestata di truffa"; – erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 133 c.p. e omessa motivazione quanto alla determinazione della pena, perchè la pena irrogata, benchè ridotta appare comunque esorbitante essendo stata fissata una pena base sensibilmente superiore al minimo edittale senza nemmeno tentare di date contezza della scelta operata; – erronea applicazione della legge penale e segnatamente dell’art. 62-bis c.p. nonchè omessa motivazione in punto di mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, negate in ragione della qualifica professionale dell’imputato, circostanza che già è alla base della contestata aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 e che quindi viene considerata due volte a discapito dell’imputato stesso ed analogamente è stato fatto in relazione all’entità della somma sottratta.

Motivi della decisione

1. La richiesta di annullamento della sentenza impugnata per violazione dell’art. 522 c.p.p. è manifestamente infondata. La nullità invocata presuppone infatti che il "fatto" ritenuto in sentenza sia diverso da quello contestato, conseguente pregiudizio del diritto di difesa. Ed infatti l’art. 522 invocato è norma di chiusura del capo quarto del titolo secondo del libro settimo del codice di rito, che disciplina il sistema delle "nuove contestazioni", che in quanto nuove devono essere oggetto di rappresentazione da parte del pubblico ministero per porre l’imputato in condizione di difendersi. Nel caso in esame, in sentenza non è stato "ritenuto" alcun fatto nuovo. Del resto il ricorrente si duole, in realtà, di errore di diritto relativamente alla qualificazione come truffa della condotta.

Esplicitamente infatti afferma che "manca del tutto la correlazione tra il fatto contestato e il reato ascritto, versandosi quindi in ipotesi di erroneità della qualificazione giuridica data al fatto, non inquadrabile nella fattispecie contestata della truffa". Si denuncia cioè violazione dell’art. 640 c.p..

2. Ma in relazione a tale doglianza non vi è richiesta di annullamento bensì di assoluzione, in riforma dell’impugnata sentenza, richiesta che ipotizza il giudizio di legittimità come un terzo grado di merito. In ogni caso i motivi addotti sono manifestamente infondati. Va infatti ribadito che "l’integrazione del reato di truffa non implica la necessaria identità fra la persona indotta in errore e la persona offesa, e cioè titolare dell’interesse patrimoniale leso, ben potendo la condotta fraudolenta essere indirizzata ad un soggetto diverso dal titolare del patrimonio, sempre che sussista il rapporto causale tra induzione in errore e gli elementi del profitto e del danno, (cfr. per tutte, Cass. Sez. 2, 21.2-5.3.2008 n. 10085).

3. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per la richiesta subordinata di riduzione della pena previo riconoscimento delle attenuanti generiche con prevalenza sulle aggravanti contestate.

Peraltro la critica alla motivazione della sentenza impugnata muove dal presupposto che vi sia stata una duplice valutazione negativa della medesima condizione soggettiva dell’imputato, laddove i giudici di merito hanno escluso una valenza preponderante (tale da giustificare il riconoscimento delle invocate attenuanti) all’incensuratezza, condizione che nella specie è stata ritenuta non rappresentare particolare rilievo, in conseguenza di motivazione che, in quanto non manifestamente illogica, non può essere censurata in questa sede.

3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere in conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali e della somma, che in ragione dei profili di colpa rinvenibile nei rilevati motivi di inammissibilità, si stima equo liquidare in Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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