Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 11-05-2011) 28-06-2011, n. 25713

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – La sentenza oggetto di impugnazione ha confermato la condanna alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione inflitta all’odierno ricorrente accusato di avere maltrattato ripetutamente la convivente e le prime due figlie che la stessa aveva avuto da precedenti unioni nonchè di avere compiuto atti sessuali con la minore A. di 12 anni costringendola con la forza a subire baci in bocca, abbracciandola e tentando di portare oltre la propria condotta senza riuscirvi per la reazione della ragazzina che gli aveva dato una gomitata al naso.

Avverso tale decisione, l’imputato ha proposto ricorso, tramite il difensore, deducendo:

1) violazione di legge ( art. 606 c.p.p., lett. b) in rel. all’art. 500 c.p.p., comma 4) per avere la Corte confermato la utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla minore A. nella fase delle indagini preliminari senza che vi fosse prova del fatto che, successivamente, ella era stata sottoposta a violenza, minaccia ovvero offerta di denaro o altra utilità per deporre il falso. Sul punto, la Corte si è richiamata alla decisione di primo grado che ha spiegato l’atteggiamento reticente della teste P.A. con il fatto che l’imputato l’aveva minacciata di denunciarla per furto e le aveva promesso che non avrebbe più coabitato con lei.

Secondo il ricorrente invece, l’atteggiamento reticente della teste trova giustificazione solo nel fatto che la sua ritrattazione era vera e non dipendeva nè dalla personalità umile descritta dal consulente nè dalla denuncia di furto (peraltro già archiviata) di cui la P. era venuta a conoscenza solo dopo la deposizione;

2) mancata assunzione di una prova decisiva ( art. 606 c.p.p., lett. d)). La Corte ha negato la rinnovazione del giudizio al fine di espletare la perizia grafica invocata dal ricorrente tesa a dimostrare che lo scritto anonimo con insulti ricevuto dall’imputato mentre era in carcere, era di mano di A. che, quindi non aveva la personalità timida che si è voluto sostenere e che, quindi era ben in grado di denunciare artatamente una violenza non subita;

3) mancanza di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) in relazione alle censure mosse dal ricorrente nell’atto di appello. Si fa, infatti notare che l’imputato appellante aveva lamentato la mancanza degli elementi concreti della minaccia e/o promessa di utilità per deporre il falso ma la Corte non ha fornito alcuna precisazione sul punto.

Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

2. Motivi della decisione – Il ricorso è infondato.

2.1. Sebbene la doglianza in ordine alla confermata utilizzabilità delle dichiarazioni della minore A. possa apparire non del tutto destituita di fondamento, a ben vedere anche il primo motivo di ricorso deve essere respinto, sia, perchè la decisione sul punto non risulta affatto ingiustificata sia perchè, in ogni caso, anche ipotizzando di accogliere il motivo ed escludere le dichiarazioni della minore, il giudizio di responsabilità ribadito nei confronti dell’odierno ricorrente deve ritenersi ugualmente motivato aliunde in modo ampio ed adeguato dai giudici di primo e secondo grado (le cui decisioni, come noto, quando sono del medesimo segno, concorrono a formare un unicum – S.u. 4.2.92, Musumeci, Rv. 191229; Sez. 1^, 20.6.97, Zuccaro, Rv. 208257 Sez. 1^, 26.6.00, Sangiorgi, Rv.

216906).

Sul piano formale, avuto riguardo al tenore letterale dell’art. 500 c.p.p., comma 4 il problema è qui rappresentato dalla difficoltà di ricondurre le condotte specificamente attuate nei confronti della minore A., nell’alveo della nozione di normativa.

Sulla base delle parole della ragazza e della stessa madre, si è, infatti, accertato, che ad A. sarebbe stata prospettata la rassicurazione dell’imputato che, ove scarcerato grazie ad una ritrattazione della più grave accusa di violenza sessuale, egli non sarebbe rientrato a casa interrompendo, quindi, quella convivenza dolorosa e faticosa caratterizzata da indubbi maltrattamenti (non negati nemmeno dal ricorrente che infatti incentra la propria doglianza solo sulla imputazione di cui all’art. 609 bis c.p.). Altro elemento di "forza" per indurre una ritrattazione sarebbe stata la minaccia – riferita dalla madre di A. – che D.R. avrebbe rivolto sia a lei che alla figlia di denunciarle per non meglio identificati furti che le due donne avrebbero commesso nelle abitazioni di terzi ove erano andate a prestare servizio come domestiche.

Questa S.C., finora, nell’affrontare il tema della interpretazione dell’art. 500 c.p.p., comma 4, è stata posta a confronto, prevalentemente, con situazioni riconducibili più precipuamente nella nozione di violenza o minaccia ma, anche scorrendo le pronunzie in proposito, si può constatare come il filo conduttore che lega tutte quelle decisioni sia rappresentato dallo sforzo di stabilire se le condotte di cui si discute – di qualunque tipo esse siano – abbiano rappresentato una "azione esterna alla libera scelta del testimone" (sez. 2^, 22.1.08, Atonna, Rv. 238911). La varietà degli esempi che l’esperienza concreta e giudiziaria offrono è, in altri termini, tale che, nel decidere se sia giustificata l’acquisizione probatoria delle dichiarazioni rese in precedenza dal testimone è necessaria l’emersione in dibattimento di circostanze che diano prova che, nei confronti del testimone, siano state poste in essere condotte idonee ad incidere sulla spontaneità del suo dichiarare.

Ovviamente, unanime e costante è l’opinione che gli elementi indizianti in tal senso "siano concreti e quindi precisi nella loro consistenza materiale" (sez. 2^, 22.1.08, Atonna, cit), "non possono risolversi in meri sospetti", ma "non vi è "necessità di specifici accertamenti al riguardo" (Sez. 1^, 30.9.09, Siniaku, Rv. 245558).

Orbene, sembra consentito affermare che, sebbene la fattispecie concreta in esame offra un esempio che si pone "ai limiti", non può definirsi errata la conclusione dei giudici di merito di acquisire le dichiarazioni della ragazza la cui reticenza a deporre in dibattimento era apparsa oltremodo "sospetta" e che è stata ritenuta frutto di un insieme di fattori che – come asserito in altra decisione di questa S.C. (sez. 6^, 8.7.05, Garacci, Rv. 232050) – hanno dato vita ad un "quantum" di natura indiziaria, caratterizzato da plausibilità logica, che, pur senza realizzare la condizione della certezza "al di là di ogni ragionevole dubbio", poteva legittimamente far presumere l’esistenza di una situazione che, se non era proprio "intimidazione", di certo comprometteva la genuinità e spontaneità della deposizione dibattimentale della minore A..

Di certo, a fronte della prospettiva – testimoniata da A. E. (compagna del D.R. e madre di A.) – di una denuncia falsa per furto nei confronti suoi e della figlia A., si può ben parlare di minaccia idonea a suscitare il timore di un danno ingiusto da evitare. Peraltro, la mancanza di certezze sui tempi di tale minaccia, della denuncia e della sua archiviazione (di quest’ultima riferisce lo stesso ricorrente) impedisce di valutare funditus la tesi difensiva – non corroborata da allegazioni a riguardo – della inefficacia della minaccia (perchè – dice il ricorrente – A. ne sarebbe venuta a conoscenza solo dopo la archiviazione). Vi è da dire, però, che, in ogni caso, la stessa archiviazione è prova della concretezza della minaccia.

Si può discutere, poi, sulla riconducibilità nell’alveo della "promessa di altra utilità" della mera prospettiva – rappresentata alla minore – di non ripristinare la convivenza con D.R. ma è evidente, anche nelle diverse pronunzie di questa S.C., che le stesse intimidazioni sono state ritenute ravvisabili in comportamenti che, di norma, potrebbero apparire neutri ma che assumevano diversa "colorazione" avendo riguardo al "contesto ambientale" in cui determinati fatti (persino ove non ascrivibili individualmente all’imputato), avevano avuto luogo (Sez. 6^, 8.7.05, Garacci, Rv.

232050).

Mutatis mutandis, perciò, non risulta irragionevole, nella specie, considerare la "promessa" di non tornare a casa (da parte del D. R. alla minore che lo aveva denunciato) come una sorta di "remunerazione" (e quindi, "promessa di altra utilità") dell’auspicata ritrattazione delle accuse di violenza sessuale.

Contestualizzando – appunto – ben si può immaginare quale valore tale prospettiva potesse avere per una minore esasperata da una prolungata convivenza con il compagno della madre che cosi spesso si era lasciato andare a comportamenti violenti ed altamente offensivi anche nei suoi confronti (riferisce la stessa A. che l’uomo la picchiava e si rivolgeva spesso ad A. dicendole frasi del tipo "fatti violentare, così ti svegli") e dove il clima era tale che (come si dirà meglio più avanti), persino per poter parlare tranquillamente con la madre, ella doveva uscire di casa.

Come si è accennato, peraltro, l’accusa di violenza sessuale ascritta al D.R. trova riscontri obiettivi anche a volere, in teoria, prescindere dalle parole della minore A..

Soccorre, in proposito, tutto quanto riferito dalla stessa madre della ragazza la cui attendibilità è valorizzata anche solo dal fatto che – come bene sottolinea il giudice di primo grado – ella ha riferito e confermato tutto "obtorto collo".

E’, pertanto, ancora più credibile che ella, nonostante ciò, abbia ricordato e descritto il clima di elevata aggressività esistente in casa ove "volavano ceffoni…..schiaffi e testate" (in un’occasione, anche trauma alle ossa nasali da condurre al Pronto Soccorso la figlia A.) ed insulti e che "non di rado recava in volto i segni delle percosse – ecchimosi ecc – ma usciva di casa ugualmente per andare a lavorare" (v. ff. 2 e 3 sentenza Trib).

A proposito della violenza sessuale, poi, il racconto è stato reso in termini tali da escludere qualsiasi dubbio di genuinità visto che esso inizia con il riferire che "il giorno 22 ottobre, appena rincasata, le andò incontro la secondogenita di dodici anni, M., dicendole che lei ed A. avevano premura di parlarle;

si allontanò, quindi, di casa con le figlie verso il supermercato GS e qui A., inizialmente silenziosa, le confidò che due giorni addietro, mentre lei si era assentata da casa, L. (amputato n.d.r.) era entrato nella stanza, le aveva strappato dalle braccia la sorellina di pochi mesi posizionandola sul girello, quindi l’aveva spinta violentemente sul letto e l’aveva baciata sulle labbra introducendole la lingua in bocca" (f. 3). Il racconto si era completato con la precisazione che la stessa cosa era avvenuta quello stesso pomeriggio ma che lei, A., era riuscita divincolarsi colpendolo con una gomitata al naso.

La teste A. ha, quindi, ricordato che, circa tre mesi dopo, la figlia aveva dichiarato di aver inventato tutto perchè sperava che, denunciando D.R., egli se ne sarebbe andato di casa ma è anche vero che la stessa teste ha confermato che la sera, rientrando a casa, D.R. aveva il naso coperto da un fazzoletto.

Quest’ultima circostanza non è però l’unica che ha indotta ad annettere credibilità al racconto della violenza sessuale perchè i giudici hanno anche rammentato come il racconto del fatto fosse iniziato da parte della secondogenita M. e, soprattutto, risulta convincente la considerazione logica del giudice di primo grado (avallata dalla Corte d’appello) secondo cui "se veramente le accuse mosse dalla figlia fossero state false e finalizzate ad ottenere l’arresto di D.R. ed il suo allontanamento da casa, non si comprende perchè mai A. stessa dovesse avere remore di sorta a raccontare il fatto alla madre e, soprattutto, perchè abbia opposto resistenza alla determinazione di lei di andare subito a denunciare il fatto".

Peraltro, la madre, pur riferendo degli atteggiamenti esitanti ed ondivaghi della figlia ne ha evidenziato un carattere "chiuso" che ben può spiegare, unitamente agli altri elementi – come fatto bene dai giudici di merito – le parziali ritrattazioni della ragazza. A proposito di quest’ultima, peraltro, vi è anche una consulenza tecnica, richiamata dai giudici d’appello, "che ha escluso qualsivoglia sua propensione alla divagazione ovvero all’arricchimento fantastico degli avvenimenti salienti della propria vita"" (f. 3).

2.2. Nessuna censura può muoversi alla sentenza impugnata neppure per il fatto di non avere – come dedotto nel secondo motivo – accolto la richiesta di espletare una perizia grafica. La rinnovazione del dibattimento nel giudizio di appello è un istituto di carattere eccezionale (Sez. 1^ n. 8511/92, Russo Rv 191507; Sez. 6^ n. 6873/93, Rizzo, Rv. 195141; Sez. 6^ 15.3.96, Riberto, Rv. 205673) al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti "sicchè non può essere censurata la sentenza nella quale siano indicati i motivi per i quali la riapertura dell’istruttoria dibattimentale non si reputi necessaria".

Questo è, per l’appunto, ciò che hanno fatto i giudici di secondo grado quando hanno sottolineato la "irrilevanza" di tale accertamento ai fini della decisione "atteso che dovrebbe riguardare una lettera ricevuta in carcere dal prevenuto in data 11.1.2010 cioè una circostanza evidentemente successiva rispetto ai fatti oggetto del presente processo". 2.3. Infondata è, infine, anche l’ultima doglianza (terzo motivo) che ha ricevuto sostanziale risposta già nel corso della trattazione del primo motivo. E’, comunque, da ribadire che è costante opinione di questa S.C. (da ult. sez. 1^, 30.9.09, Siniaku, Rv. 245558) che gli elementi dai quali trarre il convincimento che il teste sia stato in qualche modo (esplicito 0 più subdolo), indotto a non deporre o deporre il falso non necessitino di "specifici accertamenti a riguardo".

Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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