Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 31-03-2011) 28-06-2011, n. 25711 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La corte d’appello di Catanzaro, con la sentenza in epigrafe, per quanto qui ancora interessa confermò la sentenza 31 ottobre 2008 del Gip del tribunale di Cosenza, che aveva dichiarato A. A. colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e del reato di estorsione; P.G. colpevole di diversi reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, nonchè di furto e di estorsione e tentata estorsione; C.S. colpevole di diversi reati in tema di detenzione e porto abusivo di armi, anche clandestine e di ricettazione; R.N. colpevole dei reati di detenzione di una pistola clandestina e di ricettazione, condannandoli alle pene ritenute di giustizia.

A.A. propone ricorso per cassazione deducendo:

1) violazione di legge in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 297 c.p.p., comma 1 e art. 271 cod. proc. pen., in riferimento ai capi 9) e 23). Lamenta che la corte d’appello ha erroneamente ritenuto utilizzabile la conversazione intercettata n. 1274 del 12.11.2006, mentre mancava la motivazione sulla assoluta indispensabilità e necessarietà richiesta per poter disporre le intercettazioni. Erroneamente ed illogicamente la corte ha ricondotto ad una scelta semantica le espressioni usate nel decreto di autorizzazione, che si riferivano ad una mera eventualità che si potessero intercettare conversazioni utili con ciò escludendo la loro indispensabilità. 2) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione al riconoscimento della sua voce nella suddetta intercettazione. Invero, vi erano state più persone di nome Antonio indagate nel procedimento e non risulta che gli agenti che ascoltavano le conversazioni avessero mai sentito o conosciuto l’odierno ricorrente. In modo manifestamente illogico la corte ha poi affermato che il riconoscimento vocale era valido perchè costituiva un atto intuitivo prelogico. Manca una motivazione sulla attendibilità oggettiva della individuazione, che non può basarsi su intuizioni personali.

3) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per il reato di cui al capo 9), che è stata basata non su indizi certi, precisi e concordanti, ma su una mera presunzione o congettura basata sul fatto che al momento dell’irruzione della polizia egli si trovava a casa del padre. Del resto la stessa sentenza impugnata afferma che tale presenza era di per sè normale ed insignificante, sicchè non si vede come essa poteva divenire indiziante in mancanza di altri elementi.

4) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione al reato di cui al capo 23), in ordine alla mancata applicazione della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6.

Lamenta che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto che la attenuante non poteva concedersi perchè l’offerta di risarcimento del danno non riguardava tutti i reati in contestazione, senza considerare che il reato di detenzione di sostanze stupefacenti non consentiva risarcimento e che comunque l’attenuante può riguardare anche un solo reato contestato in continuazione.

5) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. La corte d’appello ha ritenuto inammissibile il motivo di gravame sul punto perchè generico, senza considerare che l’attenuante doveva e poteva essere applicata anche d’ufficio e che la sua applicazione era stata espressamente richiesta con i motivi di appello e nella discussione.

6) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche senza prendere in considerazione l’offerta di risarcimento del danno, comunque sintomo di resipiscenza.

7) violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione.

P.G. propone ricorso per cassazione deducendo:

1) violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione al reato di tentata estorsione di cui agli artt. 56 e 629 cod. pen.. Lamenta che la sentenza impugnata non spiega perchè dalla conversazione intercettata risultava che si era superato il livello della mera preparazione e programmazione ed era stato integrato il tentativo. Illogicamente è stato ritenuto irrilevante l’individuazione del soggetto passivo ed un suo contributo probatorio, sicchè non è possibile apprezzare le modalità della minaccia. La sentenza comunque manca di motivazione sul concorso del Presta nel reato e sul contributo causale che egli avrebbe fornito alla fase estorsiva.

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. Lamenta che erroneamente la corte d’appello ha omesso di prendere in considerazione la sentenza emessa nei confronti dei coimputati. Inoltre, al fine di valutare la concessione dell’attenuante i singoli episodi di cessione debbono essere valutati singolarmente. Erroneo è anche il richiamo alla presenza di correi ed alla eventualità di proventi mentre ciò che rileva è la scarsa offensività delle singole condotte.

3) integrale mancanza grafica di motivazione rispetto alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche.

C.S. propone ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Poichè le dichiarazioni del G. sono inutilizzabili, la sua responsabilità è stata fondata solo sulla chiamata di correo del Ca.. La corte d’appello però ha omesso di valutare: a) la credibilità intrinseca del dichiarante Ca., che si era rifiutato di presentarsi in udienza per deporre; b) l’attendibilità della chiamata di correo, che non era riscontrabile stante le diverse e contrastanti versioni dei fatti fornite; c) l’esistenza di riscontri individualizzanti, che non potevano consistere nella telefonata tra il C. e il G. e nel rinvenimento della scheda telefonica. Erroneamente poi la corte ha dichiarato inammissibile il motivo di appello relativo alla concessione delle attenuanti generiche ed alla rideterminazione della pena, che invece era fondato.

R.N. propone ricorso per cassazione deducendo:

1) che l’unico elemento di prova a suo carico è dato da una intercettazione ambientale tra il Ci. ed una donna, la quale però ha valore meramente indiziario. Inoltre manca la motivazione sulla veridicità delle affermazioni intercettate e sulla esistenza di riscontri, e non è stata approfondita la realtà dei fatti in contestazione, mentre non si è tenuto conto degli elementi esposti nella impugnazione.

2) vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena.

Motivi della decisione

Quanto al ricorso dell’ A., il primo motivo è fondato, non però nel senso che la intercettazione n. 1271 del 12.11.2006 debba senz’altro essere dichiarata inutilizzabile per difetto di motivazione del decreto autorizzativo, bensì nel più limitato senso che è carente ed apodittica la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha valutato la sussistenza, nella specie, degli elementi richiesti per disporsi l’intercettazione e la correttezza e completezza della relativa motivazione nel provvedimento autorizzativo.

Va invero ricordato che l’art. 267 c.p.p., comma 1, richiede, per poter autorizzare l’intercettazione, da un lato che già vi siano gravi indizi di reato e, da un altro lato, che l’intercettazione stessa sia "assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini". Le norme del codice richiedono quindi un assoluto rigore nella motivazione del provvedimento autorizzativo circa la sussistenza dei presupposti che legittimano la captazione. In considerazione della rilevante capacità intrusiva del mezzo nella sfera privata del soggetto e della capacità di incidere sul fondamentale diritto costituzionale rappresentato dalla libertà di comunicazione, il legislatore ha previsto che l’intercettazione (telefonica, ambientale o telematica) debba essere un mezzo eccezionale ed ha quindi richiesto che la motivazione non si esaurisca nella semplice eventualità che possano essere intercettate conversazioni utili ai fini della indagini, ma che dia conto dell’elemento rappresentato dalla assoluta indispensabilità del mezzo da attivarsi. Una motivazione che si limitasse alla mera eventualità di conversazioni utili potrebbe invero consentire di intercettare chiunque con effetti a strascico, che è proprio ciò che il legislatore ha voluto impedire con le rigorose indicazioni di cui all’art. 267 c.p.p., comma 1.

Nella specie l’ A. aveva eccepito che il decreto autorizzativo della intercettazione n. 1274 non aveva motivato sulla assoluta indispensabilità del mezzo ma si era limitato ad evocare la eventualità e la mera possibilità di ricavare elementi indispensabili per l’indagine dalla captazione delle conversazioni tenute all’interno dell’auto in uso al P.. La sentenza impugnata ha respinto l’eccezione ritenendo che si sarebbe trattato solo di una infelice scelta semantica del giudice, perchè in realtà l’intercettazione era l’unico mezzo per acquisire al processo i dialoghi che fossero eventualmente intervenuti e fossero stati eventualmente rilevanti e che la motivazione sull’assoluta indispensabilità era rinvenibile nel riferimento alla categoria della necessità ("necessità di procedere ad accertamenti"), la quale evidentemente esprimeva una mancanza di alternative.

Si tratta di una motivazione apodittica e meramente apparente, perchè non viene spiegata la ragione per la quale il riferimento alla necessità di procedere ad accertamenti integrerebbe la assoluta indispensabilità occorrente per disporre l’intercettazione. Infatti, anche ad ammettere che la necessità possa identificarsi con la indispensabilità, mancherebbe comunque l’elemento della assolutezza che è richiesto dalla norma. Inoltre, indicare la mera eventualità e la mera possibilità che su una vettura possano intervenire conversazioni utili per la prosecuzione delle indagini non equivale a dire che vi è una alta probabilità che ciò avvenga, ossia che vi è la assoluta indispensabilità del mezzo, essendo questo l’unico o il più idoneo ad acquisire elementi di prova non altrimenti individuabili.

In conclusione, il giudice del merito dovrà compiere una nuova valutazione del decreto autorizzativo della intercettazione in questione, accertando, con congrua motivazione, se da esso risulti che il mezzo era assolutamente indispensabile per la prosecuzione della indagini.

E’ fondato anche il secondo motivo del ricorso dell’ A. perchè effettivamente, in ordine al sicuro riconoscimento dei conversanti nel dialogo in questione, la motivazione è molto generica, limitandosi a considerazioni di ordine generale ma senza indicare alcun elemento concreto da cui si desuma la prova che si trattasse proprio dell’attuale ricorrente, e giungendo perfino ad affermare che il riconoscimento consisteva in un atto intuitivo prelogico sottratto all’esplicazione di argomenti razionali, richiamando una definizione di una precedente decisione di questa Corte (Sez. 2^, 27.1.1994, n. 4860, Nardozzi, m. 197782), la quale però si riferiva a tutt’altra fattispecie ed aveva comunque sottolineato la necessità che il riconoscimento di persona abbia il requisito della certezza e che siano indicati (per permettere il controllo sulla loro adeguatezza) i criteri adottati nella valutazione della prova. Nella specie, invece, dalla sentenza impugnata non risultano quali siano stati i criteri utilizzati per stabilire che una delle voci dialoganti fosse proprio quella dell’ A.A.. Non è stato invero indicato un qualche elemento che consenta di affermare una preconoscenza del medesimo, e soprattutto della sua voce, da parte degli agenti operanti o che permetta di ricollegare con certezza al medesimo il contenuto della conversazione. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio anche su questo punto.

Dall’accoglimento dei primi due motivi consegue anche l’accoglimento del terzo perchè, qualora il giudice del rinvio dovesse ritenere inutilizzabile l’intercettazione o non certo l’autore del dialogo, dovrebbe comunque compiere una nuova valutazione sulla responsabilità del ricorrente in ordine al reato di cui al capo 9), che nella sentenza impugnata è stata dedotta anche con riferimento al contenuto della conversazione intercettata. E’ comunque opportuno osservare che è fondato anche il terzo motivo di ricorso, perchè effettivamente il concorso di A.A. nel reato di detenzione di sostanza stupefacente è stato genericamente affermato sulla sola presenza dello stesso in casa del padre al momento dell’irruzione della polizia, presenza che d’altra parte la stessa sentenza impugnata riconosce che poteva essere dovuta alla distribuzione degli inviti per la festa della figlia, ammettendo che la presenza del figlio a casa del padre era normale e non poteva assumere un significato particolare. Il giudice del merito ha collegato tale presenza al fatto che nella intercettazione si era genericamente parlato tra il Presta e un tal Tonino di acquisto di sostanza stupefacente. Ma, anche qualora l’intercettazione fosse utilizzabile, esattamente il ricorrente rileva che, così come risulta dalla sentenza impugnata, il collegamento è del tutto generico e non presenta i caratteri della gravità e della precisione, dal momento che non si specifica se era stato fatto cenno alla natura della sostanza da acquistare, al quantitativo, al prezzo, al fornitore. Inoltre, la sentenza impugnata non specifica per quale ragione la mera presenza di A.A. in casa del padre (che la stessa sentenza ritiene che possa essere giustificata da altre ragioni) costituisca prova del suo concorso nella detenzione e nella suddivisione in dosi della droga. In particolare, non si chiarisce se l’imputato sia stato visto nascondere qualcosa, o avvicinarsi alla cucina (dove fu ritrovata la droga), o fuggire, o comunque tenere un qualche altro comportamento significativo della sua partecipazione al delitto.

E’ fondato anche il quarto motivo relativo alla attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6. La corte d’appello non ha contestato la congruità dell’offerta di risarcimento nè la tempestività della stessa, ma ha ritenuto che, trattandosi di reati avvinti dal vincolo della continuazione, l’offerta, per essere valida, avrebbe dovuto riguardare tutti i reati concorrenti. Questa tesi è però infondata.

Ed invero, già prima della emissione della sentenza impugnata, le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto di giurisprudenza, hanno statuito che "In tema di continuazione, la circostanza, attenuante dell’integrale riparazione del danno va valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso" (Sez. Un., 27.11.2008, n. 3286/09, Chiodi, m. 241755). In motivazione la sentenza ha precisato che questo principio incide "sulla determinazione del "quantum" dei rispettivi aumenti di pena, in caso di circostanza inerente ad uno ovvero a più tra gli altri reati posti in continuazione". La corte d’appello non ha tenuto conto di questo indirizzo giurisprudenziale.

Va accolto anche il quinto motivo dell’ A. perchè effettivamente, in ordine al richiesto riconoscimento della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la corte d’appello ha compiuto più un giudizio da giudice di legittimità che – come invece avrebbe dovuto fare – da giudice di merito, essendosi limitata ad affermare che essa si trovava "nell’impossibilità di enucleare i passaggi della decisione impugnata su cui sarebbe chiamata ad esercitare il proprio controllo". Sennonchè la Corte non doveva tanto controllare i passaggi della sentenza di primo grado quanto compiere un nuovo giudizio di merito sulla concedibilità della attenuante speciale che era stata espressamente richiesta con i motivi di appello e in udienza e che comunque avrebbe potuto essere applicata dal giudice di appello anche di ufficio, ai sensi dell’art. 597 c.p.p., comma 5. La corte, pertanto, avrebbe potuto omettere di motivare sul punto solo qualora non vi fosse stato uno specifico motivo di appello o una richiesta in udienza dell’attenuante. Nel caso in esame, pertanto, la corte era tenuta a dare congrua ed adeguata motivazione sulla denegata concessione della attenuante richiesta, motivazione che invece è del tutto assente.

Il sesto ed il settimo motivo dell’ A. restano assorbiti.

Per quanto concerne il ricorso di P.G., il primo motivo è fondato. Invero, in riferimento all’imputazione di tentata estorsione, la sentenza impugnata richiama quella di primo grado, nella quale è riportato il contenuto di una intercettazione ambientale che costituisce l’unico elemento sul quale si basa l’affermazione di responsabilità. La sentenza impugnata si limita ad affermare genericamente che dal dialogo sarebbe stato possibile desumere che la vicenda aveva superato il livello della mera preparazione e programmazione ed era approdata alla fase realizzativa. Si tratta di una motivazione meramente apparente, e in sostanza mancante, perchè il solo riferimento ad una incerta fase realizzativa non può sostituire la necessità di una specifica indicazione degli atti posti in essere dall’imputato, al fine di una loro valutazione sotto il profilo sia della idoneità sia della univocità. D’altra parte, esattamente la difesa del ricorrente mette in evidenza che le conversazioni captate non avevano come interlocutore il proprietario dell’auto, sicchè era necessaria una puntuale motivazione sulla idoneità della minaccia che sarebbe stata posta in essere al fine di costringere il soggetto passivo all’atto di disposizione patrimoniale. La sentenza impugnata, inoltre, difetta di una specifica motivazione sul contributo causale che il P. – dopo avere concorso nel furto della vettura – avrebbe fornito alla fase estorsiva.

In ordine al secondo motivo del P., relativo al mancato riconoscimento della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, va ricordato che la sentenza impugnata si è basata anche sulla estrema articolazione e sul numero delle condotte di detenzione e di spaccio. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, però "In materia di sostanze stupefacenti, la circostanza attenuante speciale del fatto di lieve entità non può essere legittimamente esclusa sulla base del mero presupposto che l’imputato ha posto in essere una pluralità di condotte di cessione della droga reiterate nel tempo, prescindendo in tal modo da una valutazione di tutti i parametri dettati in proposito dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5" (Sez. 6^, 1.7.2010, n. 29250, Moutawakkil, m. 249369); "Lo svolgimento di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale ma continuativo non è incompatibile con l’attenuante della lieve entità del fatto, come si desume dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, che, con il riferimento ad un’associazione costituita per commettere fatti descritti dall’art. 73, comma 5, rende evidente che è ammissibile configurare come lievi anche gli episodi che costituiscono attuazione del programma criminoso associativo" (Sez. 6^, 29.5.2008, n. 25988, Lataj, m. 240569; Sez. 4, 27.11.1997, n. 1736, Fierro, m. 210161); "Come risulta dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, comma 6, anche la cessione continuativa a terzi di sostanze stupefacenti può integrare il fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, stesso D.P.R., avuto riguardo alla quantità e qualità della sostanza detenuta e spacciata, da accertarsi con riguardo al principio attivo, alla complessità ed all’ampiezza della organizzazione, al numero ed alla qualità dei soggetti coinvolti, nonchè – più in generale – ad ogni altro profilo della vicenda che, secondo il giudizio discrezionale ma motivato del giudice di merito, appaia idoneo ad incidere sulla entità del fatto" (Sez. 6^, 10.3.1995, n. 5415, Corrente, m. 201644).

E’ vero che la sentenza impugnata ha fatto anche riferimento alle "modalità complessive dell’azione", ad "una sorta di professionalità nell’attività delittuosa", alla "considerazione delle singole contestazioni", alle allusioni ai proventi ricavabili dai dialoghi intercettati, ma si tratta di motivazione generica, in quanto non sono specificati i singoli elementi concreti che escludono il riconoscimento della attenuante. Giustamente, poi, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non ha motivato sulle ragioni per le quali non ha condiviso le argomentazioni con le quali la sentenza emessa in un separato giudizio a carico di altri imputati aveva applicato l’attenuante ai medesimi fatti.

Il terzo motivo del ricorso del Presta resta assorbito.

Ritiene il Collegio che sia fondato anche il ricorso di C. S., perchè effettivamente la motivazione con la quale è stata ritenuta provata la sua responsabilità è poco chiara, mancante e manifestamente illogica. In sostanza, l’imputazione nei confronti del C. deriva dalla chiamata in correità di tale Ca.Au., il quale aveva dichiarato che le armi rinvenute nel suo terreno gli erano state consegnate dal C. e da tale G.L.A.. Le dichiarazioni accusatorie del Ca., ovviamente, necessitavano di riscontri individualizzanti. La sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che tali riscontri non potevano rinvenirsi nella dichiarazioni fatte verbalmente alla PG dal G., perchè queste erano inutilizzabili. Quindi, a quanto sembra, ha ritenuto elemento di riscontro il fatto materiale che il G. aveva fatto una telefonata al C., del cui contenuto però non si sa nulla.

Ora, innanzitutto, il ricorrente lamenta fondatamente che la sentenza impugnata manca totalmente di motivazione sulla stessa credibilità intrinseca del Ca., cosa che evidentemente la corte d’appello da per presupposta, senza però motivare in proposito e senza esaminare le specifiche censure avanzate sul punto con l’atto di appello, nel quale si era eccepito che il Ca. aveva fornito dei fatti versioni diverse e contrastanti ogni volta che era stato chiamato a raccontarli, puntualmente indicando i punti insanabilmente divergenti fra le varie dichiarazioni. L’appellante aveva quindi eccepito che mancava l’intrinseca attendibilità della chiamata in correità, perchè la propalazione accusatoria era priva di un filo logico e zeppa invece di macroscopiche contraddizioni, che non potevano essere ricondotte ad unità e che vertevano su elementi essenziali e circostanze ben precise. Sul punto la sentenza impugnata ha omesso di motivare. Inoltre, la corte d’appello ha omesso di considerare che il Ca. (alla cui deposizione era stato subordinato il rito abbreviato) si era rifiutato di sottoporsi all’esame, mentre un tale atteggiamento avrebbe dovuto essere valutato dal giudice nel giudizio di attendibilità intrinseca del chiamante in correità.

La corte d’appello ha poi ritenuto che, pur non essendo utilizzabili le dichiarazioni del G., l’inutilizzabilità non si estendeva all’attività materiale da lui posta in essere alla presenza dei carabinieri ed alla successiva perquisizione che aveva portato al rinvenimento della scheda telefonica e della armi in sequestro, elementi che rappresenterebbero appunto i riscontri esterni alla chiamata di correo. Sennonchè, secondo la giurisprudenza di questa Corte, i riscontri esterni debbono essere individualizzanti. Ora, nella sentenza impugnata non è chiarito come possa considerarsi riscontro individualizzante la circostanza che il Ca. abbia fatto ritrovare le armi (circostanza che nulla indica circa la responsabilità del C. e la riferibilità a questi del fatto contestato); o la circostanza di una telefonata intercorsa tra C. e G. e della attività materiale posta in essere dai carabinieri e consistente nel rinvenimento della scheda telefonica presso l’abitazione del C. e dei suoi familiari (dato che i carabinieri non avevano avuto modo di ascoltare nè la voce dell’interlocutore del G. nè il tenore della conversazione). In ogni modo, anche qualora potesse ritenersi provato che la telefonata era intercorsa tra il G. e il C., non è specificato perchè essa costituirebbe un riscontro individualizzante, dal momento che nulla si sa sul suo contenuto.

Le ulteriori doglianze del C. (relative alle attenuanti generiche ed alla determinazione della pena) restano assorbite.

E’ infine fondato anche il ricorso di R.F., che è stato ritenuto responsabile per la detenzione di una pistola con matricola abrasa all’interno della sua falegnameria, pistola che era sfuggita alla perquisizione operata dai carabinieri, e la cui detenzione invece era stata desunta dal contenuto di una conversazione intercettata il giorno successivo all’interno di una autovettura ed intervenuta tra tale Ci.Fr. ed una donna non identificata.

Effettivamente, sulla prova della responsabilità per il reato in questione, la motivazione della sentenza impugnata è generica, nonchè basata su ipotesi e congetture. Fondatamente il ricorrente eccepisce che la conversazione intercettata può avere un valore meramente indiziario, che doveva essere corroborato da altre acquisizioni e doveva spingere gli investigatori a cercare ulteriori elementi di prova. Nella specie invece non fu neppure ripetuta la perquisizione che il giorno prima aveva dato esito negativo, circostanza questa che probabilmente sarà stata pure giustificata dalla ragione ipotizzata dalla corte d’appello (non bruciare l’intercettazione in corso) ma che comunque ha impedito di trovare un ulteriore elemento probatorio. La sentenza impugnata, inoltre, ha riconosciuto piena ed indiscussa credibilità alle parole del Ci. senza verificare la veridicità della affermazioni intercettate, senza affrontare il problema della necessità di riscontri, e senza approfondire la realtà dei fatti in contestazione. Nemmeno è stata data adeguata risposta alla eccezione che il giorno precedente era stata eseguita dai carabinieri una accurata perquisizione senza che l’arma fosse stata ritrovata e non è stata adeguatamente valutata la circostanza che (quali che ne fossero i motivi) non era stata disposta una nuova perquisizione a seguito del dialogo intercettato, e che nemmeno erano stati sentiti nè il Ci., nè il Ra. (indicato come il soggetto che avrebbe avuto una discussione con il R. circa la pistola con matricola abrasa).

Ritiene il Collegio che non possa accogliersi la richiesta del Procuratore generale di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste, che presuppone un giudizio di merito che non può essere compiuto in questa sede.

La seconda doglianza del R., relativa al trattamento sanzionatorio, resta assorbita.

In conclusione, tutti i ricorsi debbono essere accolti e, di conseguenza, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di tutti i ricorrenti con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Catanzaro.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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