T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 04-07-2011, n. 5836

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Illustra preliminarmente il ricorrente – sino al 1996 magistrato in servizio presso il Tribunale Ordinario di Roma, attualmente in pensione – le vicende processuali cui accede la richiesta di rimborso delle spese legali sostenute nell’intero arco di svolgimento del procedimento penale conclusosi con la sua assoluzione per insussistenza del fatto, richiesta rigettata dal Ministero della Giustizia con la nota indicata in epigrafe.

In proposito, precisa parte ricorrente di essere stato imputato dalla Procura della Repubblica di Milano e rinviato a giudizio per il delitto di corruzione in atti giudiziari previsto dall’art. 319 ter del codice penale.

Il relativo giudizio si è concluso in primo grado con sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Milano in data 29 aprile 2003.

Il giudizio di colpevolezza è stato confermato, previa riduzione della pena, dalla Corte di Appello di Milano con sentenza del 23 maggio 2005.

La Suprema Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, con sentenza emessa in data 4 maggio 2006, ha annullato senza rinvio la sentenza di secondo grado, assolvendo in via definitiva il ricorrente dalla imputazione di corruzione in atti giudiziari per insussistenza del fatto.

Sulla base di tale pronuncia assolutoria il ricorrente ha, quindi, inoltrato al Ministero della Giustizia istanza volta ad ottenere il rimborso delle spese legali sostenute nell’ambito del procedimento penale ai sensi dell’art. 18 del decreto legge 25 marzo 1997 n. 67, convertito in legge con legge 23 maggio 1997 n. 135.

Il Ministero della Giustizia, con nota dirigenziale del 30 gennaio 2009, ha comunicato il rigetto dell’istanza sulla base del parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in data 27 gennaio 2009.

Ritenendo essere stato illegittimamente leso il proprio diritto al rimborso delle spese di lite sostenute in ragione della vicenda giudiziaria in cui è stato coinvolto, il ricorrente ha quindi proposto ricorso innanzi a questo Giudice al fine di ottenere l’accertamento di tale diritto, previo eventuale annullamento del provvedimento di diniego.

Avuto riguardo alla proposta azione impugnatoria, denuncia parte ricorrente il vizio di incompetenza che inficerebbe il gravato diniego per avere la procedente Amministrazione omesso di esercitare le proprie prerogative, limitandosi a recepire il parere espresso dall’Avvocatura Generale dello Stato la quale, seppur tenuta ai sensi dell’art. 18 della legge n. 135 del 1997 ad esprimersi unicamente sulla congruità delle spese legali da rimborsare, si è invece indebitamente pronunciata sull’an debeatur.

Quanto alle motivazioni su cui poggia il contestato diniego, sostiene parte ricorrente come la verifica della sussistenza del presupposto del collegamento funzionale rilevante ai fini del riconoscimento del rimborso delle spese legali debba essere condotta sulla base del contenuto dell’imputazione elevata a carico del pubblico ufficiale, e segnatamente in relazione all’ipotesi accusatoria prospettata dal pubblico ministero, e non già sulla base del verdetto definitivo che ne ha sancito definitivamente l’assoluzione, come ritenuto dall’Avvocatura Generale dello Stato.

Nel sostenere, quindi, parte ricorrente, sulla base del tenore testuale della norma ed alla luce delle previgenti regolamentazioni della materia, che condizione essenziale per poter fruire del beneficio sia che l’azione di responsabilità introduttiva del giudizio penale o civile nei confronti del dipendente pubblico ponga ad oggetto del thema decidendum il sindacato su atti o fatti direttamente connessi all’espletamento del servizio o all’adempimento dei compiti istituzionali, contesta la diversa interpretazione sostenuta dall’Avvocatura Generale dello Stato secondo cui la sussistenza del requisito andrebbe verificata in concreto ed ex post sulla base della ricostruzione del fatto effettuata dall’organo giudicante nel provvedimento conclusivo del giudizio o del procedimento.

Si riporta parte ricorrente, a sostegno dell’assunto secondo cui la spettanza del diritto al rimborso delle spese legali andrebbe condotta sulla base del canone ermeneutico dell’imputazione e non delle conclusioni formulate nella sentenza assolutoria, a specifici precedenti giurisprudenziali, significando la differenza che intercorre tra le ipotesi di imputazione di reati comuni a carico di pubblici ufficiali e quelle di imputazione di reati propri, soffermandosi sul rilievo da annettere allo statuto penale della pubblica amministrazione, sulla cui base occorre ricondurre il nesso funzionale della condotta all’imputazione e non alla sentenza.

Contesta, quindi, parte ricorrente il contenuto del parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato sia per l’inconferenza del parere ivi citato e del parere del Comitato Consultivo del 16 novembre ivi richiamato, che per l’irrazionalità della soluzione ivi prospettata per il caso in cui la sentenza di assoluzione del giudice di legittimità ometta di indicare l’atto contrario ai doveri di ufficio oggetto di iniziale imputazione, risultando per l’effetto l’art. 18 della legge n. 135 del 1997 censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 della Costituzione, anche con riferimento ai casi in cui il procedimento si concluda con un decreto di archiviazione, in cui manca un accertamento del fatto, rivelando pertanto le segnalate irrazionalità delle conseguenze discendenti dalla tesi prospettata dall’Avvocatura Generale dello Stato l’erroneità delle relative premesse.

Sotto ulteriore profilo, deduce parte ricorrente come le motivazioni sottese al contestato diniego contrastino con la ratio della previsione normativa, volta a sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento della loro attività giurisdizionale, significando come l’opzione di ricondurre il riscontro del nesso funzionale con il servizio all’atto conclusivo dell’iter processuale si tradurrebbe nell’onere per il dipendente di impostare la propria difesa in modo da ottenere un provvedimento che attesti il collegamento della condotta con il servizio espletato, così interferendo con il libero esercizio del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione, che risulterebbe violato, riversando sul dipendente le conseguenze degli errori commessi dai magistrati.

Si sono costituiti in giudizio sia il Ministero della Giustizia che l’Avvocatura Generale dello Stato.

Quanto alla posizione processuale di quest’ultima, eccepisce la difesa erariale il difetto di legittimazione passiva in quanto priva di autonoma soggettività giuridica essendo incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentando altresì come nessun atto dalla stessa adottato sia oggetto di impugnativa, non valendo a fondare la legittimazione passiva la circostanza che il contestato diniego sia motivato per relationem al parere reso dall’Avvocatura Erariale.

Quanto al merito del ricorso, la difesa erariale ne ha dedotto, con articolate controdeduzioni, l’infondatezza sulla base della ricognizione della portata della norma di cui all’art. 18 della legge n. 135 del 1997 e dell’evoluzione storica della disciplina, anche di settore, dettata in materia, sostenendo come la mera connessione delle condotte con la qualifica di pubblico ufficiale non sia sufficiente ai fini dell’ammissibilità del rimborso delle spese legali, dovendo piuttosto aversi riguardo al dato finalistico e teleologico della condotta con l’espletamento del servizio e con l’assolvimento di compiti istituzionali, da accertarsi ex post sulla base di un giudizio in concreto alla luce della valutazione di fatto operata in sede di esclusione da responsabilità.

Avendo la Corte di Cassazione escluso la sussistenza del requisito della connessione della condotta con l’attività del pubblico ufficiale, ne discenderebbe la legittimità del diniego opposto in ordine alla richiesta del ricorrente di beneficiare del rimborso delle spese legali.

Evidenzia, altresì, la difesa erariale, la sussistenza di un conflitto di interessi tra l’Amministrazione ed il dipendente, avendo la sentenza di assoluzione accertato l’avvenuta violazione dei doveri deontologici del magistrato, ostativa al riconoscimento del diritto al rimborso, riferendo inoltre dell’avvenuta condanna del ricorrente con sentenza della Corte dei Conti n. 650 del 2008 al risarcimento di euro 500.000 a titolo di danno non patrimoniale all’immagine dell’Amministrazione giudiziaria.

Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha insistito nelle proprie deduzioni, puntualmente controdeducendo alle argomentazioni svolte dalla difesa erariale, traendo diverse conclusioni dall’analisi delle discipline di settore succedutesi nel tempo e dei precedenti giurisprudenziali intervenuti in materia, deducendo l’inammissibilità dell’avvenuta introduzione della motivazione postuma inerente l’asserita sussistenza di un conflitto di interesse tra l’Amministrazione ed il ricorrente, di cui comunque nega la ricorrenza in concreto, altresì contestando che la norma di cui all’art. 18 della legge n. 135 del 1997 subordini il diritto al rimborso delle spese legali alla condizione negativa della insussistenza di siffatto conflitto.

Alla Pubblica Udienza dell’8 giugno 2011 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione, come da verbale.

Motivi della decisione

Con il ricorso in esame l’odierno ricorrente – in servizio fino al 1996 quale magistrato presso il Tribunale Ordinario di Roma, attualmente in pensione – ha adito questo Giudice al fine di ottenere l’accertamento del proprio diritto al rimborso delle spese legali, in applicazione dell’art. 18 del decreto legge 25 marzo 1997 n. 67, convertito in legge con legge 23 maggio 1997 n. 135, da questi sostenute nel corso dei tre gradi di giudizio intervenuti a seguito dell’imputazione e rinvio a giudizio per il delitto di corruzione in atti giudiziari previsto dall’art. 319 ter del codice penale, dal quale è stato assolto per insussistenza del fatto con sentenza emessa in data 4 maggio 2006 dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. IV Penale.

Chiede altresì il ricorrente, ove occorra, l’annullamento della nota adottata dal Ministero della Giustizia – meglio indicata in epigrafe nei suoi estremi – recante il rigetto della propria istanza volta ad ottenere il rimborso delle predette spese legali, adottata in adesione al parere negativo espresso dall’Avvocatura Generale dello Stato in ordine alla spettanza del diritto.

In via preliminare il Collegio è chiamato a pronunciarsi in ordine all’eccezione con cui l’Avvocatura Generale dello Stato, evocata in giudizio e ritualmente costituitasi, deduce il proprio difetto di legittimazione passiva.

L’eccezione merita favorevole esame, risultando l’Avvocatura Generale dello Stato – pur se dotata di propria soggettività giuridica, contrariamente a quanto sostenuto in sede di articolazione dell’eccezione – estranea al giudizio, non potendo valere a fondare la legittimazione passiva della stessa la circostanza che il contestato diniego sia motivato per relationem al parere reso dall’Avvocatura Erariale.

Ciò in applicazione dei principi generali in base ai quali la legittimazione passiva nei giudizi amministrativi spetta all’Amministrazione che ha adottato l’atto ritenuto lesivo e impugnato, ovvero all’Amministrazione cui la legge attribuisce il potere di porre in essere il provvedimento, da individuarsi, quanto alla fattispecie in esame, nell’Amministrazione di appartenenza del ricorrente, ovvero il Ministero della Giustizia.

Ed invero, emanato un atto amministrativo, esso è sempre riferibile all’autorità che lo ha emesso, anche se il contenuto dell’atto sia stato determinato sulla base di un parere di altra autorità, stante la preclusione della possibilità di censurare un parere disgiuntamente dall’atto terminale del procedimento in cui si inserisce, in quanto atto preparatorio endoprocedimentale come tale sfornito di autonoma capacità lesiva immediata.

Con la conseguenza che gli eventuali vizi del parere devono essere fatti valere in sede di impugnativa del provvedimento che lo ha recepito, poiché i suoi eventuali vizi ridondano in vizi del provvedimento terminale, dovendo quindi riconoscersi la legittimazione passiva dell’autorità che ha recepito il parere, facendolo proprio, il quale di per sé costituisce mero atto endoprocedimentale privo in quanto tale di autonoma capacità lesiva, la quale discende direttamente dall’atto dell’organo di amministrazione attiva che lo ha recepito.

Va, dunque, disposta l’estromissione dal giudizio dell’Avvocatura Generale dello Stato per difetto di legittimazione passiva della stessa, essendo il potere decisorio in ordine alla pretesa avanzata da parte ricorrente rimesso al Ministero della Giustizia, nella specie esercitato mediante adozione del gravato diniego, disposto in adesione al parere negativo espresso dall’Avvocatura (sulla cui portata, censurata da parte ricorrente, ci si soffermerà più avanti).

Delibata, nel senso di cui sopra, la questione di ordine processuale avente naturale priorità nella trattazione, viene in rilievo, quanto al merito del ricorso, nella gradata elaborazione logica delle questioni sollevate, la censura con cui parte ricorrente denuncia il vizio di incompetenza che inficerebbe il gravato diniego per avere la procedente Amministrazione omesso di esercitare le proprie prerogative, limitandosi a recepire il parere espresso dall’Avvocatura Generale dello Stato la quale, seppur asseritamente tenuta, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 135 del 1997, ad esprimersi unicamente sulla congruità delle spese legali da rimborsare, si sarebbe invece indebitamente pronunciata sull’an debeatur.

La censura, articolata nell’ambito della proposta azione impugnatoria, che si affianca all’azione volta ad ottenere, in sede di giurisdizione esclusiva, l’accertamento del diritto del ricorrente all’ammissione al beneficio del rimborso delle spese legali sostenute, non merita favorevole esame.

In disparte la questione inerente i rapporti tra le due azioni – impugnatoria e di accertamento – laddove vengano in rilievo controversie relative a posizioni di diritto soggettivo, deve, difatti, ritenersi costituire un’opzione consentita all’Amministrazione, investita della potestà decisoria, quella di provvedere mediante adozione di un atto che si sostanzi nell’adesione al contenuto di un diverso atto del procedimento al quale si fa espresso rinvio, dovendo ricondursi l’esercizio del potere decisorio al momento della scelta sottesa alla condivisione ed adesione al contenuto dell’atto richiamato, che costituisce motivazione per relationem del provvedimento finale.

In particolare, laddove l’Amministrazione ritenga di dover aderire ad un parere avente natura endoprocedimentale, non occorre che la relativa determinazione sia fondata su una articolata motivazione ripetitiva delle medesime argomentazioni ritenute condivisibili o espressiva di ulteriori apprezzamenti, o ancora, che sintetizzi o reiteri quanto già espresso nell’atto cui si fa rinvio, essendo sufficiente anche una motivazione per relationem, contrariamente a quanto avviene nell’opposta ipotesi in cui si l’Amministrazione intenda discostarsi dalle valutazioni espresse dall’organo consultivo.

Non conduce a diverse conclusioni – tali da configurare un profilo di illegittimità del gravato diniego – la dedotta preclusione per l’Avvocatura Generale dello Stato ad esprimersi sulla spettanza del rimborso delle spese legali, dovendo la stessa limitarsi, secondo gli assunti ricorsuali, alla valutazione della congruità degli onorari, come espressamente previsto dall’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997.

Nel dare atto il Collegio come la citata norma, nel prevedere che "Le spese legali… sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato", non attribuisca espressamente alcuna funzione consultiva a tale organo in relazione all’an debeatur del rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente, spettando la relativa decisione all’esclusiva competenza dell’Amministrazione di appartenenza, non può tuttavia ritenersi preclusa allo stesso la possibilità di pronunciarsi anche in ordine a tale profilo, ulteriore rispetto alla valutazione di congruità degli onorari, nell’esercizio della propria istituzionale funzione consultiva delle Amministrazioni dello Stato e di quelle ad esse equiparate, essendo comunque organo di consulenza legale dell’Amministrazione ai sensi della più generale norma contenuta nell’art. 13 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, né può ritenersi affetta da profili di illegittimità la determinazione con cui la competente Amministrazione abbia ritenuto di dover aderire al parere così espresso, facendone proprio il relativo contenuto, per come dianzi meglio illustrato.

Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato, avuto riguardo all’oggetto del compito e del potere alla stessa attribuiti, non ripete dalla normativa di riferimento alcuna preclusione ad estendere la propria valutazione oltre i profili inerenti il quantum degli onorari di cui è chiesta la ripetizione, risultando ragionevole e rispondente al ruolo dell’Avvocatura che la valutazione tecnica dalla stessa espressa possa riguardare l’intera vicenda inerente al rimborso (in senso conforme: TAR Lazio – Roma, Sez. I quater – 7 settembre 2010 n. 32113; Sez. II – 1 luglio 2010 n. 22061; T.A.R. Campania – Napoli – Sez. IV Sezione – 23 marzo 2010 n. 1572).

Nella specie, l’Avvocatura Generale dello Stato, investita della richiesta di parere, ha anteposto alla valutazione in ordine alla congruità del quantum della richiesta la verifica della ricorrenza dei necessari presupposti di legge per la concessione del beneficio, rimettendo alla competente Amministrazione il proprio giudizio negativo, la quale, nel condividere, facendolo proprio, il parere dell’organo consultivo, ha con lo stesso integrato la motivazione del provvedimento gravato.

Pare inoltre utile, ai fini della presente decisione, ricordare che la posizione dell’impiegato dello Stato che chiede il rimborso delle spese legali sostenute per difendersi in un giudizio in cui è stata esclusa la sua responsabilità, è di diritto soggettivo quanto all’an, dal momento che esse, per espressa disposizione di legge " sono rimborsate " all’impiegato stesso, mentre è di interesse legittimo per quanto concerne il quantum, posto che l’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997 dispone che il rimborso avviene "nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato", risultando quindi il riconoscimento dell’ammontare del rimborso subordinato al discrezionale vaglio tecnico di congruità dell’Avvocatura dello Stato, dal che consegue che il ricorso per il riconoscimento del diritto può essere proposto nei termini di prescrizione con azione di accertamento e di condanna, mentre quello che contesti l’ammontare della somma riconosciuta va proposto nel termine di decadenza nell’ambito del giudizio di legittimità, impedendo il testo dell’art. 18 citato al giudice amministrativo una determinazione diretta dell’ammontare del relativo credito del dipendente (T.A.R. Friuli Venezia Giulia – Trieste – 11 gennaio 2007, n. 43; T.A.R. Lazio – Roma – Sez. I – 7 ottobre 2004 n. 10451).

Delibati nel senso di cui sopra gli esaminati profili e proseguendo nella disamina delle questioni dedotte a sostegno del ricorso può, dunque, procedersi – seguendo l’impostazione impressa all’azione da parte ricorrente – alla verifica della spettanza del diritto del ricorrente ad ottenere il rimborso delle spese processuali sostenute in relazione alla vicenda giudiziaria in cui è stato coinvolto, conclusasi con la propria assoluzione, sottoponendo al sollecitato vaglio giurisdizionale le argomentazioni espresse a fondamento del gravato diniego, come contestate da parte ricorrente.

In via preliminare, ai fini di una migliore comprensione della vicenda che qui occupa, giova ricordare, in punto di fatto, che il ricorrente è stato condannato in primo grado, con sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 29 aprile 2003, per il reato di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter del codice penale.

Il giudizio di colpevolezza è stato confermato, previa riduzione della pena, dalla Corte di Appello di Milano con sentenza del 23 maggio 2005.

La Suprema Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, con sentenza emessa in data 4 maggio 2006, ha annullato senza rinvio la sentenza di secondo grado, assolvendo in via definitiva il ricorrente dalla imputazione di corruzione in atti giudiziari per insussistenza del fatto.

In ragione dell’intervenuta assoluzione, il ricorrente ha, quindi, inoltrato al Ministero della Giustizia istanza volta ad ottenere il rimborso delle spese legali sostenute nell’ambito del procedimento penale ai sensi dell’art. 18 del decreto legge 25 marzo 1997 n. 67, convertito in legge con legge 23 maggio 1997 n. 135 – quantificate in euro 3.442.500 – e tale istanza, come dianzi illustrato, è stata rigettata sulla base del parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in data 27 gennaio 2009.

Il contestato diniego poggia sulla riscontrata assenza di connessione tra gli atti e i fatti che hanno occasionato il processo in cui è stato coinvolto il ricorrente con l’espletamento del servizio, come desunta alla luce delle statuizioni recate dalla citata sentenza di assoluzione della Corte di Cassazione, laddove si afferma che l’attività posta in essere dal ricorrente non è riconducibile all’esercizio delle funzioni pubbliche proprie della sfera di attribuzioni dello stesso, non venendo in rilievo sotto alcun profilo la funzione giudiziaria esercitata dal ricorrente, il cui interevento nella vicenda cui il processo di riferisce è equiparabile a quello che avrebbe potuto spiegare qualsiasi privato non investito di funzioni pubbliche che si avvale della forza carismatica della sua persona.

A confutazione di tale impostazione, in base alla quale il collegamento funzionale con il servizio andrebbe individuato sulla scorta di una verifica condotta ex post e caso per caso, oppone parte ricorrente la diversa opzione interpretativa, ancorata all’esame del dato letterale e della ratio della norma, nonché all’analisi storicoevolutiva della precedente normativa di settore dettata in materia, in base alla quale tale collegamento andrebbe invece asseritamente verificato sulla base del contenuto dell’imputazione elevata a carico del pubblico ufficiale, e segnatamente in relazione all’ipotesi accusatoria prospettata dal pubblico ministero, costituendo condizione essenziale per poter fruire del beneficio che l’azione di responsabilità introduttiva del giudizio penale o civile nei confronti del dipendente pubblico ponga ad oggetto del thema decidendum il sindacato su atti o fatti direttamente connessi all’espletamento del servizio o all’adempimento dei compiti istituzionali, irrazionale essendo che il riscontro del nesso funzionale con il servizio venga effettuato con riferimento all’atto conclusivo dell’iter processuale.

Concernendo il thema decidendum sottoposto al vaglio del Collegio l’individuazione dell’atto processuale sul quale calibrare il giudizio di sussistenza del requisito della necessaria connessione tra la condotta del ricorrente oggetto di procedimento penale e l’espletamento del servizio o l’assolvimento degli obblighi istituzionali, la delibazione in ordine a quale delle due contrapposte opzioni ermeneutiche – sopra illustrate – appaia più rispondente alla lettera ed alla ratio della norma, anche sulla base di un giudizio di più ampia portata condotto sulla scorta dei generali parametri di compatibilità e di coerenza con l’ordinamento, imprescindibile ai fini della sollecitata verifica della riconducibilità dei comportamenti oggetto del procedimento penale che ha coinvolto l’odierno ricorrente alla fattispecie dettata dall’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997, impone di preliminarmente definire la portata applicativa della stessa mediante individuazione dei relativi presupposti per la concessione del previsto beneficio del rimborso delle spese legali.

Giova, in tale direzione, ricordare che il citato articolo 18 prevede, al comma 1, che "Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità ".

Rilievo decisivo, al fine di delineare l’ambito di estensione del diritto del dipendente pubblico al rimborso delle spese di patrocinio legale sostenute, deve tributarsi alla espressa previsione inerente la connessione degli atti e fatti, in relazione ai quali il dipendente è stato sottoposto a giudizio, con "l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali", da intendersi nel senso che tali atti e fatti siano riconducibili all’attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all’esecuzione del munus publicum.

Poste tali coordinate interpretative relative alla connessione funzionale che gli atti e i fatti, per i quali il dipendente pubblico è sottoposto a giudizio, devono rivestire rispetto all’espletamento del servizio o all’assolvimento di obblighi istituzionali, in ordine alla quale sia parte ricorrente che parte resistente concordano, la questione centrale, di non poco conto, dedotta in giudizio concerne in sostanza l’individuazione dell’atto – e quindi il segmento processuale – con riferimento al quale tale connessione deve essere accertata, contrapponendosi in proposito le due diverse prospettate opzioni ermeneutiche volte, l’una ad agganciare il riscontro del nesso funzionale con il servizio all’atto conclusivo dell’iter processuale sulla base della ricostruzione del fatto effettuata dall’organo giudicante nel provvedimento conclusivo del giudizio o del procedimento, sulla scorta quindi di una verifica in concreto ed ex post, e, l’altra – propugnata da parte ricorrente – in base alla quale occorrerebbe avere esclusivo riguardo, in sostanza, all’atto iniziale di instaurazione del procedimento, e segnatamente, con riferimento alla fattispecie in esame, all’ipotesi accusatoria ed al capo di imputazione formulati a carico del ricorrente.

Entrambe le tesi sono dalle parti sviluppate attraverso le medesime analisi, condotte sulla base del tenore letterale della norma, della ratio della stessa, dell’analisi storicoevolutiva delle discipline di settore succedutesi nel tempo e dei precedenti giurisprudenziali, da cui traggono tuttavia considerazioni e conclusioni divergenti e configgenti tra loro sulla base di pregevoli argomentazioni che si presentano, indubitabilmente, suffragate da pertinenti richiami e articolate ricostruzioni.

Ritiene, tuttavia, il Collegio che risulti più rispondente alle finalità sottese alla norma dettata dall’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997, nonché maggiormente compatibile e rispondente ai principi generali dell’ordinamento, l’opzione ermeneutica che tende a prescrivere la necessità di una puntuale e concreta verifica dell’effettiva connessione tra l’attività che ha dato luogo all’avvio di un procedimento a carico di un dipendente pubblico con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento dei compiti istituzionali allo stesso affidati, a prescindere dalla qualificazione che ne viene data nell’atto di impulso processuale.

Ed invero, a tal fine, non può ritenersi sufficiente la connessione emergente dall’atto di impulso del procedimento, la quale può essere travolta e trovare smentita nel corso dello svolgimento dell’iter processuale alla luce della ricostruzione dei fatti storici sottesi alla vicenda processuale.

Aggiungasi che l’assumere quale parametro alla cui luce condurre il riscontro della connessione con il servizio gli atti introduttivi dei giudizi promossi a carico di dipendenti pubblici, porterebbe quale diretta conseguenza l’accollo, da parte delle Amministrazioni, delle spese di patrocinio legale sostenute dai propri dipendenti anche con riferimento a condotte che, in esito alla conclusione dei relativi procedimenti, risultino prive del prescritto nesso funzionale, come emblematicamente è accaduto nella vicenda processuale che ha coinvolto il ricorrente, il quale è stato imputato per il reato di corruzione in atti giudiziari – con atto di impulso processuale che rientra senza dubbio nell’astratto paradigma della connessione funzionale con il servizio – ed è stato assolto sulla base di un giudizio che ha escluso la riconducibilità della condotta allo stesso contestata alla tipicità della norma incriminatrice, sulla base della riscontrata assenza di un suo collegamento con l’attività funzionale del pubblico ufficiale, il quale si è limitato "a sfruttare rapporti interpersonali privati e ad agire quindi non da intraneus".

In punto di diritto e sotto un profilo di inquadramento generale della questione, va rilevato come la problematica del rimborso delle spese legali sostenute in occasione di procedimenti per responsabilità civile, penale o amministrativa dei dipendenti pubblici, si dipani sulla difficile coesistenza e sul contrapposto svolgersi delle istanze di garanzia per il dipendente accusato e di tutela delle finanze pubbliche, imponendosi una valutazione e un’opera di bilanciamento di tali contrapposti interessi che a livello normativo è stata tradotta nella previsione, dettata dal citato art. 18, che costituisce espressione del principio dell’ordinamento amministrativo secondo cui è consentito all’Amministrazione di intervenire a contribuire alla difesa del suo dipendente sottoposto a giudizio di responsabilità.

Tale norma subordina il rimborso alla sussistenza di due requisiti costituiti dall’essere il giudizio di responsabilità promosso "in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento degli obblighi istituzionali" e che esso si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell’istante.

Il giudizio di responsabilità può considerarsi promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento degli obblighi istituzionali solo nei casi in cui l’imputazione riguardi un’attività svolta in diretta connessione con i fini dell’ente, dovendo circoscriversi il diretto interesse dell’Amministrazione a sopportare gli oneri delle spese di difesa del dipendente ai soli casi in cui l’imputazione riguardi un’attività svolta in diretta connessione con i predetti fini e, come tale, all’ente stesso imputabile (T.A.R. Lazio – Roma – Sez. II – 1 luglio 2010 n. 22061;T.A.R. Lazio – Latina – Sez. I – 19 maggio 2009 n. 486; T.A.R. Lombardia – Milano – Sez. I – 21 giugno 2006 n. 1475; T.A.R. Trentino Alto Adige – Bolzano – 13 marzo 2007 n. 101; T.A.R. Calabria – Catanzaro – Sez. I – 22 dicembre 2004 n. 2463; T.A.R. Lombardia – Milano – Sez. I – 27 marzo 2002, n. 1291; T.A.R. Sicilia – Palermo – Sez. I – 27 maggio 2002 n. 1309).

La finalità della norma risiede, infatti, nell’esigenza di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio e tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse, dell’Amministrazione, delle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all’espletamento dei loro compiti istituzionali, con la conseguenza che il requisito essenziale in questione può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’Amministrazione di appartenenza (ex multis: Consiglio di Stato – Sez. IV – 11 aprile 2007, n. 1681; T.A.R. Trentino Alto Adige – 13 marzo 2007, n. 101; T.A.R. Puglia – Bari – Sez. I – 4 aprile 2005, n. 1353; T.A.R. Umbria – 31 gennaio 2008, n. 44; Consiglio di Stato – Sez. III – 25 novembre 2003, parere n. 332/03, sez. III – 1 marzo 2010 parere n. 275/10; T.A.R. Lombardia – Milano – Sez. I – 20 dicembre 2004, nn. 6497 e 6498; Cass. Civ. – Sez. I – 3 gennaio 2008, n. 2)

Se la funzione della predetta norma è quella di ripristinare la situazione di esposizione economica in cui viene a trovarsi il dipendente di un’amministrazione a causa di giudizi in cui lo stesso sia stato ingiustamente coinvolto per fatti o atti connessi con l’espletamento del servizio e nell’ambito dell’assolvimento di obblighi istituzionali, competendo pertanto tale rimborso solo quando sussista un nesso strumentale fra le condotte incriminate e il perseguimento degli obiettivi propri del servizio, non può sottacersi come il rimborso delle spese sia previsto anche nell’interesse dell’Amministrazione per evitare che il timore del dipendente per i rischi connessi all’espletamento dei compiti inerenti il proprio incarico si traduca in un freno al relativo svolgimento e, quindi, in una minore efficacia dell’azione amministrativa.

La disposizione dettata dall’art. 18, nel postulare, ai fini del rimborso, la connessione dei fatti e degli atti che hanno integrato la condotta ipoteticamente fonte di responsabilità per il dipendente con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali, nonché un esito del giudizio che abbia del tutto escluso la responsabilità del dipendente pubblico cui i fatti ed atti erano stati ascritti, consente di rinvenire la necessaria connessione con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali solo nelle ipotesi in cui gli effetti dell’attività del dipendente siano imputabili direttamente all’Amministrazione di appartenenza o quando tale attività sia comunque svolta in diretta relazione con i fini dell’Amministrazione stessa, con esclusione dei casi in cui sia stata posta in essere un’attività non già nell’interesse dell’Amministrazione di appartenenza ed in connessione con i fini istituzionali, bensì nell’interesse proprio del dipendente ed in relazione a fini personali, peraltro potenzialmente in conflitto con quelli dell’Amministrazione.

Ai fini del rimborso delle spese legali sostenute da un pubblico dipendente, affinché sia ravvisabile una connessione tra la condotta tenuta e l’attività di servizio del dipendente è necessario che la suddetta attività sia tale da poter imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente alla Amministrazione di appartenenza, poiché il beneficio del ristoro delle spese legali richiede un rapporto causale con una modalità di svolgimento di una corretta prestazione lavorativa le cui conseguenze ricadrebbero sull’Amministrazione, non essendo pertanto sufficiente che l’evento avvenga durante e in occasione della prestazione.

Soluzione questa rispondente alla ricordata ratio sottesa alla norma, volta a tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto e nell’interesse dell’Amministrazione, in modo da sollevare quei soggetti dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse con il loro legittimo agire.

In ragione delle divisate istanze e della necessaria sussistenza dei cennati concorrenti presupposti per la rimborsabilità delle spese legali – ovvero che il giudizio di responsabilità si riferisca a fatti ed atti connessi o posti in essere in conseguenza dell’espletamento del servizio o dell’assolvimento degli obblighi istituzionali e non solo in occasione di essi, e che si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità del dipendente – non ravvisa il Collegio valide ragioni per accedere alla tesi prospettata da parte ricorrente, in base alla quale il momento discretivo per la verifica della ricorrenza dei presupposti di ammissione al beneficio andrebbe individuato nella fase di instaurazione del procedimento e tale verifica andrebbe condotta alla luce della ricostruzione della fattispecie causativa di responsabilità effettuata con il relativo atto di impulso.

Sulla base di tale suggerita opzione ermeneutica – seppur pregevolmente ancorata a divisate esigenze di tutela del dipendente in ragione del concreto sviluppo processuale – verrebbe in sostanza rimessa agli organi deputati a dare l’impulso processuale o procedimentale, volto all’accertamento della responsabilità del dipendente, la qualificazione della fattispecie in termini di connessione funzionale con il servizio che, oltre a spogliare l’Amministrazione di appartenenza di qualsivoglia potere valutativo in ordine alla valutazione della condotta, ricondurrebbe nell’ambito di applicazione dell’art. 18 tutte quelle ipotesi in cui il giudizio conclusivo del procedimento abbia escluso siffatta riconducibilità, riversando sulla collettività l’onere delle relative spese processuali pur in mancanza di quella necessaria diretta connessione tra il comportamento del dipendente e l’espletamento del servizio o l’assolvimento dei fini istituzionali dell’ente di appartenenza.

Si verificherebbe, in sostanza, una sorta di automatismo nell’ammissione al beneficio sulla sola base della qualificazione dell’atto o del fatto impressa in sede di avvio processuale o procedimentale, che a giudizio del Collegio condurrebbe a conseguenze ultronee rispetto alle finalità ed alla portata della norma, la cui operatività verrebbe ancorata al mero dato formale della iniziale prospettazione della responsabilità del dipendente, prescindendo da ogni concreta verifica in ordine all’effettiva ricorrenza del prescritto requisito del collegamento funzionale.

Il poteredovere, attribuito all’Amministrazione di appartenenza del dipendente sottoposto a giudizio di responsabilità, di accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del beneficio, si troverebbe ad essere abdicato a favore degli organi deputati a dare l’impulso processuale, venendo ad essere vincolato ed ancorato alla iniziale qualificazione della condotta dagli stessi impressa sulla base, giova rilevare, di un quadro ricostruttivo meramente ipotetico e prognostico e di risultanze istruttorie ancora incomplete.

Il potere attribuito all’Amministrazione di appartenenza del dipendente si risolverebbe unicamente nella formale verifica dell’astratta riconducibilità dell’iniziale ipotesi di responsabilità, formulata a carico del dipendente, nel paradigma della connessione con il servizio, privandola della possibilità di concretamente esercitare tale potere di verifica mediante una autonoma valutazione della condotta.

Se, invece, come ritiene il Collegio, deve riconoscersi all’Amministrazione la possibilità di esercitare il proprio potere mediante autonome valutazioni della condotta al fine del riscontro in concreto e con carattere di effettività del nesso funzionale con il servizio, nessun vincolo può a tale esercizio discendere dalla qualificazione impressa alla condotta in sede di formulazione dell’ipotesi di responsabilità per cui si procede, che ben può essere smentita dall’esito del relativo procedimento.

Dovendo prescindersi dalla astratta qualificazione della condotta affinché il requisito della connessione con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento dei fini istituzionali si muova su di un piano di effettività e concretezza, tale da non estendere oltre i limiti imposti dalla finalità della norma il relativo ambito di applicazione, ed essendo l’ammissione al beneficio subordinata all’accertamento dell’esclusione di responsabilità, nessun ostacolo è rinvenibile alla possibilità per l’Amministrazione procedente di avvalersi della ricostruzione della condotta e del giudizio di fatto sul quale è fondata l’esclusione della responsabilità del dipendente al fine di apprezzare la riferibilità del comportamento del dipendente ai compiti allo stesso assegnati o ai propri fini istituzionali.

Non è dunque possibile, per le ragioni anzidette, accedere alla prospettazione di parte ricorrente che riconduce il collegamento funzionale, rilevante ai fini del rimborso delle spese processuali, al contenuto dell’imputazione elevata a carico del dipendente e dell’ipotesi accusatoria formulata dal pubblico ministero, non potendo peraltro i rappresentati profili problematici discendenti dall’opzione, propugnata dal Collegio, a favore della diversa ricostruzione ermeneutica delle modalità di riscontro del presupposto costituito dal collegamento funzionale con il servizio minare la correttezza teorica della soluzione.

In linea generale, difatti, ogni disposizione normativa, stante la sua generalità ed astrattezza, è di per sé inidonea ad offrire una soluzione chiara ed univoca per tutte le ipotesi applicative che si verificano, connaturale essendo a tali caratteri che residuino incongruenze e ambiti di problematicità applicativa della norma da comporre in sede di interpretazione della stessa, coerentemente con i previsti canoni ermeneutici e con i principi generali dell’ordinamento.

Ciò posto, a fronte dell’obiezione sollevata da parte ricorrente rispetto alla ritenuta necessità – affermata dall’Avvocatura Generale dello Stato nel parere recepito nel gravato diniego – di procedere alla verifica della sussistenza del requisito della connessione in concreto ed ex post, sulla base della ricostruzione del fatto effettuata dall’organo giudicante nel provvedimento conclusivo del giudizio o del procedimento, obiezione sviluppata sul rilievo che taluni procedimenti non si concludono con un accertamento del fatto, come nel caso di adozione del decreto di archiviazione, osserva il Collegio che in tali casi, esclusa la possibilità di annettere alcun automatismo all’azione introduttiva del giudizio di responsabilità, è la stessa Amministrazione di appartenenza del dipendente che può procedere all’autonoma valutazione degli elementi di rilievo ai fini del riscontro della sussistenza dei requisiti per la concessione del beneficio, fermo il rilievo da annettersi all’ulteriore presupposto, costituito dalla pronuncia di esclusione di responsabilità del dipendente, da calibrarsi in relazione alla natura ed alla portata del provvedimento conclusivo del giudizio.

Ne discende che l’eventualità che nella pronuncia finale manchi un accertamento del fatto non si traduce in un indice di erroneità delle premesse – e della relativa conclusione – da cui muove l’opzione a favore della necessità del riscontro in concreto del collegamento funzionale della condotta con il servizio, dovendo in proposito evidenziarsi come tali ambiti di supposta criticità applicativa, che caratterizzerebbero la soluzione valorizzata, possono trovare adeguata composizione alla luce della strettamente connessa diversa problematica inerente la portata da annettersi al requisito di rimborsabilità delle spese legali costituito dall’esclusione della responsabilità del dipendente, posto che per l’ammissione a tale beneficio non è sufficiente che il dipendente non venga dichiarato responsabile, essendo piuttosto necessario che tale responsabilità venga esclusa, statuizione questa che non consegue a tutte le tipologie di pronunce diverse da quelle di condanna.

L’art. 18 in esame costituisce una disposizione dal contenuto di diritto amministrativo e civile non avente natura processualpenalistica, che riconosce in capo al dipendente il rimborso delle spese legali relative a giudizi che si siano conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, da cui risulti quindi acclarata, in via definitiva e certa, l’estraneità del dipendente dai fatti addebitati.

A fronte del mancato riferimento, nella norma, a formule assolutorie specifiche, così come invece indicate espressamente nel codice di procedura penale per i benefici riconosciuti per la riparazione per l’ingiusta detenzione di cui agli art. 314 e 315 cpp. (per colui che è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato……..), deve ritenersi che la relativa formulazione condiziona, per il riconoscimento del diritto, la verifica della conclusione del giudizio di responsabilità con sentenza o provvedimento che escluda la responsabilità del dipendente, cosicché non può aversi riguardo, ai fini dell’ammissione al beneficio, alla situazione di fatto determinata dalla sequenza dei giudizi intervenuti ed ai meri effetti processuali, posto che le disposizioni dettate a fini processualpenalistici non possono valere con riferimento ai profili extrapenali di cui all’art. 18 citato, riguardante il rimborso delle spese legali a carico delle Amministrazioni di appartenenza del dipendente sottoposto a giudizio.

Essendo, ai sensi dell’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997, il rimborso delle spese legali relative al giudizio penale cui sia stato sottoposto il dipendente dovuta solo qualora la sentenza conclusiva escluda la sua responsabilità nell’occorso, tale rimorso non può ritenersi spettante nel caso in cui, ad esempio, egli sia stato prosciolto per intervenuta prescrizione, avendo egli la facoltà e l’onere di rinunciare alla prescrizione o comunque di impugnare la sentenza che dichiari per l’effetto estinto il reato, al fine di addivenire ad una pronuncia pienamente assolutoria nel merito (Consiglio di Stato – Sez. VI – 29 aprile 2005 n. 2041).

Cosicché devono ritenersi fuoriuscire dal perimetro applicativo della norma le fattispecie in cui il giudizio si sia concluso con decisioni meramente processuali, e la responsabilità del dipendente sia stata esclusa per ragioni di rito a fronte delle quali non è stata, quindi, esclusa con certezza la responsabilità del dipendente.

Essendo l’art. 18 espressione del divieto generale di locupletatio cum aliena iactura ( artt. 1207, 1720 e 2031 del codice civile) arricchito dei contenuti propri che connotano l’amministrazione pubblica ( art. 97 Costituzione), il meccanismo pecuniario del rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente pubblico sottoposto a processo penale per fatti connessi con l’assolvimento dei suoi obblighi istituzionali può attivarsi solo dove l’identificazione fra la p.a. ed il suo dipendente ingiustamente accusato non lasci adito ad alcun dubbio circa l’esenzione da responsabilità di quest’ultimo.

La disposizione dell’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997 è, difatti, meramente confermativa del principio generale di rimborsabilità delle spese legali sopportate dal dipendente pubblico assolto da un giudizio di responsabilità occorsogli per ragioni di servizio, anche in ossequio alla regola civilistica generale di cui all’art. 1720, comma 2, del codice civile in tema di rapporti tra mandante e mandatario, secondo la quale il mandatario ha diritto ad esigere dal mandante il risarcimento dei danni subiti a causa dell’incarico, che declina e traduce, a sua volta, il principio generale dell’ordinamento di divieto di locupletatio cum aliena iactura (Consiglio di Stato – Sez. IV – 11 aprile 2007, n. 1681).

In particolare, affinché possa operare il rimborso delle spese ai sensi dell’art. 1720, comma 2, del codice civile, ispirandosi l’art. 18 allo schema dettato in materia di mandato, è necessario che le stesse siano state sostenute a causa e non semplicemente in occasione dell’incarico.

La richiamata norma civilistica è espressione del principio legislativo di rimborsabilità delle spese, o comunque di ristoro delle perdite, sopportate nella gestione dell’interesse altrui, ed il rimborso ivi previsto concerne soltanto la spese sostenute dal mandatario in stretta dipendenza dall’adempimento dei propri obblighi, ovvero quelle spese che, per la loro natura, si collegano necessariamente all’esecuzione dell’incarico conferito, nel senso che rappresentino il rischio inerente all’esecuzione dell’incarico, potendo solo il nesso di causalità necessaria tra l’adempimento del mandato e la perdita pecuniaria giustificare la ristorabilità dei danni subiti a causa dell’esercizio del mandato conferito.

L’esistenza di un principio legislativo di rimborsabilità delle spese, o comunque di ristoro delle perdite sopportate nella gestione dell’interesse altrui, secondo la regola affermata dall’art. 1720 del codice civile, laddove applicato ad incarichi aventi natura di munus publicum, postula che i comportamenti da cui origina il procedimento per l’accertamento di responsabilità siano riconducibili all’attività funzionale pubblica la quale ne deve costituire la condizione, e non la semplice occasione di realizzazione.

Ricostruita, dunque, la giusta valenza da attribuirsi alla dedotta evenienza della mancanza di un accertamento del fatto nei casi di adozione dei decreti di archiviazione – asseritamente ostativa alla percorribilità dell’opzione ermeneutica di agganciare la verifica della connessione della condotta con il servizio al provvedimento conclusivo del giudizio – che risulta quindi inidonea ad intaccare l’impianto teorico sotteso alle indicate modalità di verifica della ricorrenza dei presupposti previsti dall’art. 18, in coerenza con le finalità e la ratio di tale norma, deve delibarsi l’inconferenza dell’ulteriore censura con cui parte ricorrente lamenta come siffatto canone ermeneutico, sganciato dal riferimento all’imputazione ed ancorato alle conclusioni formulate nel provvedimento conclusivo, si tradurrebbe nell’onere per il dipendente di impostare la propria difesa in modo da ottenere un provvedimento che attesti il collegamento della condotta con il servizio espletato, così interferendo con il libero esercizio del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione, che risulterebbe violato, riversando sul dipendente le conseguenze degli errori commessi dai magistrati.

In proposito, occorre rilevare che ogni eventuale scelta difensiva adottata dal soggetto sottoposto a giudizio di responsabilità – sia essa penale, civile o amministrativa – rientra nella sua individuale e personale sfera di autonomia connotata da libere valutazioni, anche di tipo prognostico e di convenienza, anche processuale, cosicché la scelta di lucrare la possibilità di ottenere il rimborso delle spese di giudizio attraverso l’allestimento di una specifica strategia difensiva, se non può integrare il paventato pregiudizio al libero esercizio di difesa costituzionalmente tutelato, essendo immanente ad ogni scelta difensiva la valutazione dei possibili rischi e degli eventuali benefici, così non può tradursi in un ostacolo alla percorribilità della descritta opzione ermeneutica che, nell’escludere un automatico vincolo discendente dal capo di imputazione ai fini della rimborsabilità delle spese legali, impone l’accertamento in concreto della ricorrenza dei relativi presupposti, e segnatamente della connessione con il servizio, anche attraverso – laddove sussista – il giudizio di fatto contenuto nell’atto conclusivo del procedimento.

Sotto altro profilo deve rilevarsi che la distinzione tra reati propri e reati comuni, valorizzata da parte ricorrente al fine di sostenere la suggerita necessità di ancorare la verifica della connessione con il servizio ad un giudizio formulato ex ante in relazione all’ipotesi accusatoria formulata, porta quale inevitabile conseguenza la riconduzione di tutte le fattispecie di ipotizzata responsabilità connessa alla qualifica rivestita dal pubblico funzionario nell’ambito di applicazione della norma dettata dal più volte citato art. 18, sulla base del segnalato criterio – contrastante con la ratio della norma – di natura meramente formale ed automatico, pur a fronte di pronunce conclusive del procedimento che escludano espressamente il connotato di stretta connessione e di strumentalità della condotta con i compiti e gli obiettivi propri del servizio, estendendo oltre i consentiti limiti erogazioni fissate con norma di stretta interpretazione e gravanti sulla finanza pubblica, fino a ricomprendervi anche ipotesi in cui sia risultata accertata l’estraneità della condotta indagata rispetto all’adempimento dei compiti ed all’esercizio delle pubbliche funzioni proprie dell’incarico rivestito dal dipendente.

Non può dunque ritenersi sufficiente, ai fini dell’ammissione dell’accollo da parte delle Amministrazioni di appartenenza delle spese di patrocinio legale, che le condotte indagate abbiano ricevuto una particolare qualificazione per effetto diretto della qualifica di pubblico ufficiale del dipendente che le ha poste in essere, potendo da tale specifica qualifica rivestita e dalla conseguente imputazione desumersi soltanto che la condotta è stata posta in essere in occasione del servizio o in connessione con la qualifica rivestita, laddove è invece necessario il riscontro dello stretto nesso di strumentalità tra l’adempimento delle attribuzioni affidate al dipendente ed il comportamento oggetto del giudizio, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non ponendo in essere quell’atto o quel comportamento indagato, da porsi in relazione con l’attività di istituto ed imputabile all’Amministrazione stessa.

All’ipotesi interpretativa che ravvisa il requisito della connessione, necessaria ai fini dell’applicazione dell’art. 18, in tutte le ipotesi di imputazione per reati propri – come propugnata in definitiva da parte ricorrente – va quindi preferita quella che valorizza il parametro di tipo finalistico in base al quale la condotta deve essere stata posta in essere allo specifico fine di espletare il servizio, non potendo la connessione con il servizio ricavarsi dalla mera ricorrenza della qualifica di pubblico ufficiale su cui si basa l’imputazione, dal momento che in tal modo si darebbe rilievo ad un elemento – la qualifica rivestita – che scaturisce dalla mera esistenza del rapporto di servizio, che costituisce circostanza ben diversa da un rapporto di connessione dell’attività con il servizio.

L’imputazione basata sulla qualifica di pubblico ufficiale muove da giudizi prognostici ed astratti che non possono valere ad indebitamente estendere il perimetro applicativo dell’art. 18 modificandone il paradigma legale, il quale richiede che le condotte siano connesse con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali, e dunque rientranti nell’alveo della riferibilità al volere dell’Amministrazione, con esclusione di quelle che siano occasionalmente ricollegabili ad un incarico e non pure al diretto svolgimento delle funzioni istituzionali ed i cui effetti non siano imputabili all’Amministrazione, in quanto non ascritte nel novero delle incombenze direttamente promananti dalla posizione funzionale ed organizzativa rivestita dall’interessato nell’ambito della struttura dell’Amministrazione di appartenenza.

La mera connessione delle condotte con la qualifica di pubblico ufficiale non è quindi sufficiente ai fini dell’ammissibilità del rimborso delle spese legali, altrimenti dovendo farsi rientrare nel campo applicativo della norma tutte le imputazioni relative a reati propri inerenti a condotte che trovino nel servizio la mera occasione di realizzazione, secondo la ricostruzione che ne viene data in sede di impulso processuale sulla base di un giudizio astratto basato su di un incompleto quadro probatorio, in contrasto con la portata e la ratio della norma nel cui ambito applicativo non possono essere ricondotte fattispecie caratterizzate – come quella in esame – dalla rottura del nesso di immedesimazione organica.

Non conduce a diverse conclusioni l’analisi, condotta da parte ricorrente, del quadro normativo precedente al decreto legge n. 67 del 1997, scandito da discipline di settore, alla luce del quale nessun preciso ed inequivoco indice può cogliersi a sostegno dell’affermata sufficienza della connessione tra la condotta del dipendente – oggetto del procedimento penale – e l’espletamento del servizio come emergente dall’atto di imputazione sulla scorta di un giudizio ex ante ed in astratto.

Se rispetto a tali discipline l’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997 si pone in rapporto di sostanziale continuità, la dizione relativa ai giudizi "promossi… in conseguenza di fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali" non può essere letta come univoco criterio di riferimento all’atto introduttivo del giudizio al fine di individuare il necessario nesso funzionale attraverso la valorizzazione del termine "promossi’, trovando tale nesso più compiuta precisazione alla luce delle espressioni relative allo "espletamento del serviziò ed allo "assolvimento di obblighi istituzionali’.

Peraltro, proseguendo la norma di cui all’art. 18 in esame affermando che tali giudizi devono essersi "conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità", alla prospettata valorizzazione del termine "promossi’, potrebbe opporsi la valenza da annettersi al successivo ricorso al termine "conclusi’, così addivenendo ad antitetica conclusione in applicazione dei medesimi canoni interpretativi volti ad enfatizzare il dato testuale della norma prescindendo dal significato allo stesso attribuibile sulla base della ratio della stessa in un’ottica di complessiva compatibilità con l’ordinamento.

Né, al fine di diversamente ritenere, potrebbe annettersi rilievo all’obiezione, formulata da parte ricorrente, secondo cui attraverso la verifica del nesso funzionale sulla base dell’atto conclusivo si perverrebbe alla paradossale conclusione di privare del diritto al rimborso il dipendente nell’ipotesi processualmente a lui più favorevole in cui viene escluso l’esercizio illegittimo della pubblica funzione.

Se, secondo il noto brocardo, "adducere inconvenientes non est solvere argumentum’, deve altresì osservarsi che l’esclusione dell’esercizio illegittimo della pubblica funzione, accertato a conclusione dell’iter processuale, vale ad attestare l’estraneità della condotta posta in essere, che ha dato avvio al relativo procedimento, all’espletamento del servizio ed all’assolvimento di obblighi istituzionali, con conseguente preclusione alla possibilità di accedere al beneficio del rimborso delle spese processuali, dovendo la condotta ritenersi essere stata posta in essere per fini privati sulla base della mera occasione del servizio o della qualifica, cosicché nessuna ragione è rinvenibile affinché l’Amministrazione si accolli le spese del relativo procedimento.

La disciplina dettata dall’art. 18 non può essere ricostruita, quanto ad ambito di applicazione, nell’ottica della maggior tutela possibile dell’interesse del pubblico dipendente che, per il solo fatto della qualifica rivestita, sia sottoposto a giudizio e successivamente esonerato da responsabilità sulla base di una ricostruzione del fatto da cui non emerga il nesso funzionale con il servizio stesso, non mirando tale norma alla tutela di tutti quei dipendenti che abbiano affrontato spese legali per essere stati sottoposti a giudizio di responsabilità in ragione del solo fatto di essere pubblici dipendenti, ma richiedendosi un quid pluris costituito dalla connessione della condotta con i fini dell’ente e della relativa imputabilità.

Lo sbilanciamento dell’asse di tutela a favore del pubblico dipendente – come sotteso alla trama argomentativa cui è affidato il ricorso – a prescindere dal concreto accertamento che questi abbia effettivamente agito nell’ambito delle relative attribuzioni, non trova invero alcuna rispondenza con la finalità della norma, volta ad assicurare lo svolgimento delle funzioni attribuite ai propri funzionari proteggendoli dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio e tenendoli indenni, laddove abbiano agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse, dell’Amministrazione, delle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all’espletamento dei loro compiti istituzionali, imputando gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’Amministrazione di appartenenza, non essendo individuabile alcun interesse pubblico che giustifichi l’accollo da parte della pubblica amministrazione delle spese processuali che i propri dipendenti siano chiamati a sostenere in ragione di un collegamento meramente occasionale con il servizio, addossandone il relativo onere alla collettività.

Le considerazioni sopra illustrate trovano, inoltre, conferma nella concezione oggettiva di pubblica funzione, sganciata dalla formale investitura, in base alla quale la qualifica di pubblico ufficiale è essenzialmente connotata dall’oggettivo esercizio di una funzione e dall’attività svolta in concreto, essendo escluso il solo riferimento al rapporto di dipendenza dello Stato o da altro ente pubblico o al titolo di investitura, coerentemente con lo statuto penale della pubblica amministrazione ai sensi del quale si qualifica come pubblica la funzione amministrativa che, oltre ad essere disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, si presenta alternativamente come caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, svolgentesi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.

La qualifica di pubblico ufficiale vale ai soli fini della possibilità di essere sottoposti a giudizio per reati propri, dovendo nell’ipotesi accusatoria i fatti ascritti essere riconducibili e funzionalmente ricollegabili all’incarico ricoperto, ma l’ipotesi accusatoria così formulata non è di per sé sufficiente ai fini dell’ammissione allo speciale beneficio del rimborso delle spese legali sostenute, dovendo la connessione con il servizio essere verificata in concreto e non potendo – contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, e sulla base delle considerazioni sin qui illustrate – l’azione instauratrice del procedimento costituire il parametro per accertare la sussistenza del prescritto nesso funzionale.

Applicando le indicate coordinate ermeneutiche alla fattispecie in esame, deve osservarsi come la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, con cui è stata annullata senza rinvio la sentenza di condanna del ricorrente per corruzione in atti giudiziari, abbia espressamente statuito che "L’interferenza addebitata allo S.R. (n.d.r. il ricorrente), in quanto non diretta nell’ambito del suo ufficio, ma indirizzata verso l’esterno (giudici della Cassazione), non ha alcun collegamento con l’attività funzionale del pubblico ufficiale, limitatosi a sfruttare rapporti interpersonali privati e ad agire quindi non da intraneus" al fine di condizionare la decisione della Corte di Cassazione sulla controversia civile IMISIR.

A sostegno di tale affermazione, precisa la Corte come il ricorrente, a fronte della ricezione di somme di denaro, non contattò direttamente il magistrato componente il collegio giudicante della Cassazione, ma si limitò a sollecitare la mediazione di persona amica che quel magistrato conosceva, rappresentando che anche laddove il ricorrente avesse instaurato un diretto contatto con quest’ultimo, la conclusione non sarebbe diversa "considerato che avrebbe agito a titolo personale e da extranens e mai avrebbe potuto fare valere i suoi poteri istituzionali, stante l’appartenenza di quel magistrato ad altro ufficio" sulla base della considerazione che "l’interferenza, in tanto può assumere rilievo ai fini della corruzione passiva, in quanto va ad influire sulla sequenza procedimentale che sfocia nell’adozione di un atto rientrante nella competenza dell’ufficio al quale appartiene l’agente".

Significativo appare, inoltre, essere il passaggio con cui la Corte di Cassazione significa come "l’attività di intermediazione posta in essere dallo S.R. (n.d.r. il ricorrente) tra R.F. e B.F., perchè quest’ultimo – a sua volta – contattasse un giudice della Corte di Cassazione del quale era amico per segnalare la nota causa, certamente non è riconducibile all’esercizio delle funzioni pubbliche proprie della sfera di attribuzioni dello stesso S.R. (n.d.r. il ricorrente), presidente dell’Ufficio Gip del Tribunale di Roma, ufficio che, per struttura, organizzazione e competenza, ha una sua ben precisa individualità ed autonomia, nulla ha a che vedere con la Corte di Cassazione e non dispone di settori operativi che, in una qualche maniera, possano influire sulle decisioni civili della Suprema Corte. In sostanza, l’intervento dello S.R. (n.d.r. il ricorrente), certamente non in linea con i doveri deontologici di un magistrato, è equiparabile a quello che avrebbe potuto spiegare un qualsiasi altro privato, non investito di funzioni pubbliche e che si avvale unicamente della forza carismatica della sua persona. E lo S.R. (n.d.r. il ricorrente) aveva fatto leva proprio sul prestigio e sull’autorevolezza che gli derivavano dalla sua posizione sociale, per confidare nella disponibilità del destinatario della segnalazione e, magari, nel buon esito della stessa. E’ di palese evidenza che, in quanto accertato in sede di merito, non viene in gioco la funzione giudiziaria dello S.R. (n.d.r. il ricorrente) sotto alcun profilo, nè come coinvolgimento diretto nè come concreta possibilità di incidere, strumentalizzando le sue attribuzioni istituzionali, sulle determinazioni di altri magistrati del suo ufficio, alla cui sfera di competenza la controversia civile IMI/SIR era assolutamente estranea. Ciò che la sentenza impugnata, a prescindere dalle già rilevate incongruenze logiche in cui incorre, suggestivamente enfatizza, per giustificare la conclusione alla quale perviene, è la venalità della carica, l’avere cioè lo S. R. (n.d.r. il ricorrente) fatto leva sull’autorevolezza connessa al suo status di alto magistrato, per assicurare il suo intervento, retribuito, a favore dei R. nel giudizio di legittimità. Ma la mera venalità della carica, disgiunta dal mercimonio dell’attività funzionale, non integra – per deficit di tipicità – la corruzione, che sanziona, invece, l’accettare la promessa o il ricevere denaro al fine di compiere un atto contrario ai doveri di ufficio connessi alla funzione e non alla qualità.".

L’accertamento condotto dalla Corte di Cassazione, nell’escludere la configurabilità del reato proprio di corruzione in atti giudiziari a carico del ricorrente, ha quindi escluso la sussistenza di un collegamento funzionale tra l’attività dallo stesso compiuta – da cui ha preso avvio l’iter processuale – con l’attività di pubblico ufficiale, dovendo conseguentemente su tale base, alla luce della portata da attribuirsi all’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997, escludersi la rimborsabilità delle spese legali dallo stesso sostenute nel corso dell’iter processuale che l’ha coinvolto.

La disciplina del rimborso delle spese legali riconnette tale beneficio a particolari situazioni, in quanto dettato dalla necessità di tenere indenni i pubblici dipendenti dalle conseguenze e dai rischi, naturalmente connessi all’esercizio dell’attività svolta e inevitabilmente collegabili al loro particolare status, esprimendo una volontà legislativa ben individuata e coerente, che non è consentito all’interprete estendere oltre i casi esplicitamente previsti del Legislatore.

Conseguentemente, l’insussistenza del nesso di connessione diretta tra i fatti oggetto del procedimento penale e l’attività istituzionale svolta dal ricorrente, nel legittimare il gravato diniego di rimborso, lo rende del tutto rispettoso dei limiti di legge, posto che i fatti per i quali si è proceduto in sede penale a carico del ricorrente non sono stati originati da un’attività svolta in diretta connessione con i fini dell’Amministrazione, ovvero nell’ambito di un rapporto di immedesimazione organica tale da consentire una immediata e diretta riferibilità della condotta alla stessa, ma solo in occasionale collegamento con il servizio svolto dal ricorrente e per proprio vantaggio, trattandosi di attività estranea ai compiti di istituto, in cui il ricorrente ha agito per motivazioni e finalità personali e ove la qualità di pubblico ufficiale è venuta in rilievo solo nella fase di imputazione, dalla quale è risultato assolto in via definitiva.

L’insussistenza del presupposto costituito dalla necessaria connessione della condotta che ha originato la vicenda processuale con lo svolgimento del servizio e con l’assolvimento dei compiti istituzionali, nella portata che a tale presupposto deve attribuirsi sulla base delle considerazioni dianzi esposte, nel precludere il riconoscimento a favore del ricorrente del diritto al rimborso delle spese processuali sostenute, consente al Collegio di prescindere dall’esame della sussistenza di ulteriori motivi ostativi a tale riconoscimento riconducibili alla eventuale sussistenza di una posizione di conflitto di interessi tra il ricorrente e l’Amministrazione di appartenenza, dedotta da parte resistenze e negata da parte ricorrente, anche in astratto.

In conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui illustrate, il ricorso in esame, sia nella sua parte impugnatoria che in quella di accertamento, va rigettato stante l’infondatezza delle relative azioni.

La peculiarità della fattispecie e la parziale novità delle questioni dedotte consente la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso N. 2772/2009 R.G., come in epigrafe proposto, così statuisce:

– dispone l’estromissione dal giudizio dell’Avvocatura Generale dello Stato per difetto di legittimazione passiva;

– rigetta il ricorso;

– compensa tra le parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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