Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 11-01-2011) 28-06-2011, n. 25694

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Lecce – sezione di Taranto -, con sentenza 9/2/2007, confermava la decisione 16/1/2003 con la quale – tra l’altro – il Tribunale di Taranto:

– aveva affermato la penale responsabilità di:

– D.L.G., P.O. e M.G. in ordine al reato di concussione continuata (artt. 81 cpv. e 317 cod. pen.), perchè, nella rispettiva qualità di assistente, contabilizzatole e direttore di sezione in servizio presso il Genio Militare per la Marina di Taranto, avevano costretto alcuni imprenditori a versare loro, in più occasioni e sino al 29/9/1992, somme di denaro rapportate percentualmente agli importi percepiti in relazione ai lavori affidati in appalto agli stessi imprenditori dal Genio Militare (rispettivamente capi b-c-h dell’imputazione, con esclusione – per il M. – dell’episodio in danno dell’imprenditore C.);

– G.I. e L.N. in ordine al reato di falso ideologico continuato in atto pubblico (artt. 81 cpv. e 479 cod. pen.), perchè, nella rispettiva qualità di direttore dei lavori e di procuratore generale della ditta "M.I.T.E.E.", aggiudicataria ed esecutrice dei lavori relativi alla realizzazione, in Camigliatello Sitano, di una cisterna interrata e di un locale per il ricovero di un impianto di autoclave, in concorso con G.V., direttore del Genio Militare, e con tale A., incaricato della contabilità, avevano riportato nell’atto autorizzativo n. 623 del 15/10/1991, in quello dispositivo n. 932 del 17/10/1991, nel conto di liquidazione finale dell’11/12/1991, nel certificato di regolare esecuzione dei lavori in data 12/12/1991 false annotazioni circa l’epoca di consegna, di esecuzione e di completamento dei lavori, al fine di consentire la liquidazione di quanto dovuto alla ditta "M.I.T.E.E.", che aveva già in precedenza, ed esattamente nel luglio 1991 e, quindi, in epoca successiva alla chiusura del relativo esercizio finanziario, realizzato l’opera (capo r dell’imputazione);

– aveva condannato i predetti, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, a pena ritenuta rispettivamente di giustizia (condizionalmente sospesa per il G. e il L.) e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili;

– aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del G., in ordine al reato di cui all’art. 611 cod. pen. (capo f) – per avere minacciato, il 23/10/1992, C.V., al fine di determinarlo a rendere falsa testimonianza sui fatti per cui si procede – perchè estinto per prescrizione.

2. Il Giudice distrettuale, condividendo sostanzialmente il discorso giustificativo della sentenza di primo grado, ribadiva che la prova della colpevolezza degli imputati chiamati a rispondere del delitto di concussione era integrata dalle attendibili testimonianze delle persone offese e dalla copiosa documentazione amministrativa acquisita.

In rito, disattendeva l’eccezione d’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da D.R., uno degli imprenditori concussi, delle quali era stata data legittimamente lettura ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen., per essersi il teste reso irreperibile, come emerso dagli accurati e ripetuti accertamenti espletati (cfr, pgg. 29 e ss.). Riteneva in diritto, sulla base di quanto emerso dalla espletata istruttoria, che la condotta addebitata al D.L., al P. e al M. integrava gli estremi della concussione cd. ambientale e non poteva essere ricondotta, come sollecitato dalla difesa, nello schema del meno grave reato di corruzione, con conseguente declaratoria di estinzione di quest’ultimo illecito per prescrizione. Sottolineava che, sullo sfondo della generalizzata prassi invalsa presso gli uffici del Genio Militare per la Marina di Taranto e della conoscenza che di tale prassi, per esperienza diretta, avevano gli imprenditori interessati ad aggiudicarsi gli appalti, l’esplicita richiesta di denaro fatta dai pubblici ufficiali agli imprenditori, pur se non accompagnata da minacce dirette o indirette, integrava, di per sè, un chiaro messaggio intimidatorio, in forza del quale l’eventuale rifiuto avrebbe comportato la mancata assegnazione dell’appalto: in tale richiesta era da ravvisarsi l’abuso della qualità o dei poteri da parte dei pubblici ufficiali, quale causa determinante lo stato di coazione psichica del soggetto passivo, costretto o indotto alla dazione o alla promessa indebita di denaro.

Con riferimento alla posizione individuale degli imputati, la Corte territoriale rilevava quanto segue.

Quanto al D.L., chiamato a rispondere di concussione in danno dell’imprenditore N.A., la versione dei fatti da quest’ultimo fornita in sede di denunzia e arricchita di particolari nel corso dell’audizione dinanzi al P.M. e della deposizione dibattimentale aveva chiarito ogni aspetto della vicenda: con riferimento all’appalto dei lavori relativi al faro di Ugento, l’imprenditore aveva versato lire 1.500.000 al direttore di sezione R. e lire 2.000.000 al contabilizzatore S., le cui posizioni processuali erano state definite con sentenza di patteggiamento; lo S. – secondo gli accordi – avrebbe dovuto, a sua volta, consegnare una parte della somma ricevuta all’assistente D.L., che, però, si era lamentato di non avere ricevuto nulla e l’imprenditore si era visto costretto a versargli l’ulteriore somma di lire 300.000 o 400.000; altre tangenti erano state versate allo S. e al D.L., quando gli stessi erano stati trasferiti all’ufficio diretto dal colonnello L.. Doveva escludersi che il N. fosse inserito nell’ingranaggio di un collaudato sistema corruttivo, dal quale traeva indebiti profitti in danno dello Stato, considerato che era stato lo stesso N. a denunciare spontaneamente i fatti, il che dava conto dello stato di soggezione in cui il predetto era venuto a trovarsi. Non poteva ritenersi operativo il più breve termine di prescrizione previsto dal nuovo testo dell’art. 157 cod. pen., ostandovi la previsione di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3. Manifestamente infondata appariva la sollevata questione di costituzionalità di quest’ultima norma, con riferimento all’art. 3 Cost.. La globale valutazione del fatto ne evidenziava la particolare gravità e non consentiva la concessione dell’invocata attenuante di cui all’art. 323 bis cod. pen., con l’effetto che equa doveva ritenersi la misura della pena inflitta. A carico del P., chiamato a rispondere di concussione in danno degli imprenditori D.R., M.A. e C.V., militavano le attendibili dichiarazioni accusatorie di costoro, assolutamente dettagliate e precise. Non appariva necessaria l’acquisizione, sollecitata dalla difesa del prevenuto, delle bobine relative alle intercettazioni telefoniche eseguite nei confronti del D., per verificarne l’attendibilità, essendo questa già riscontrata da altre emergenze processuali. Infondata era l’eccezione d’inutilizzabilità, sollevata sempre dalla difesa del P., delle dichiarazioni dei predetti, per asserita violazione dell’art. 63 o dell’art. 197 bis cod. proc. pen., non avendo detti soggetti mai rivestito la qualità di indagati o di imputati. La pena inflitta era equa. Precise e dettagliate accuse a carico del colonnello M. erano state formulate dal N. e dal D., vittime di concussioni: il primo aveva riferito di avere avuto contatti per lo più con il contabilizzatore C. (che aveva patteggiato la pena), al quale aveva consegnato il denaro destinato anche al M., e di avere in una occasione consegnato direttamente a quest’ultimo la somma di lire 600.000; il secondo aveva riferito di avere versato al M. tangenti variabili tra lire 100.000 e lire 2.000.000 su lavori di piccolo importo e una tangente del 10% su un appalto di lire 50.000.000. Non ricorrevano i presupposti per accordare all’imputato le invocate circostanze attenuanti di cui all’art. 62 c.p., n. 4 e art. 323 bis cod. pen..

La Corte di merito riteneva che il reato di falso ideologico addebitato al G. e al L. era documentalmente provato, non era contestato nella sua materialità ed era stato finalizzato a consentire il pagamento immediato di quanto dovuto all’impresa appaltatrice M.I.T.E.E. (rappresentata dal L.) per i lavori eseguiti; non potevano sorgere dubbi sulla natura pubblica degli atti incriminati; non si trattava di falso innocuo, perchè finalizzato ad aggirare disposizioni amministrative e contabili, che non consentivano di dare corso, in quel momento, al pagamento del corrispettivo dell’appalto, perchè le relative opere erano state ultimate (luglio 1991) dopo la chiusura dell’esercizio finanziario (marzo 1991); tanto era stato lealmente riconosciuto dallo stesso G. (che aveva parlato di "soluzione all’italiana"); il reato era punito a titolo di dolo generico; il coinvolgimento del privato L. nella falsificazione degli atti incriminati era indubbia, avendo egli stesso partecipato alla formazione di tali atti, ai quali era direttamente interessato; il trattamento sanzionatorio era conforme ai criteri tipizzatoli di cui all’art. 133 cod. pen.. La Corte territoriale, inoltre, disattendeva l’eccezione, sollevata dal L., di nullità della notificazione del decreto che disponeva il giudizio, considerato che detta notifica era stata regolarmente eseguita presso il domicilio risultante dagli atti, le cui variazioni successive non erano state mai comunicate all’Autorità giudiziaria procedente. In relazione al reato di cui all’art. 611 cod. pen. ascritto al G., l’appello era inammissibile L. n. 46 del 2006, ex art. 1 e comunque non ricorrevano i presupposti di operatività della norma di cui al capoverso dell’art. 129 cod. pen..

3. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati.

3.1. Il D.L. ha dedotto: 1) mancanza o manifesta illogicità della motivazione sotto più profili: l’unica prova a suo carico era integrata dalla testimonianza di N.A., sulla cui attendibilità andavano avanzate le più ampie riserve, avuto riguardo alle numerose contraddizioni tra le dichiarazioni rese in sede di indagini e quelle rese in dibattimento, contraddizioni delle quali dava atto la stessa sentenza impugnata (pg. 45), e considerato l’interesse del teste, costituitosi parte civile, all’esito del processo; nulla si era detto per evidenziare l’abuso di potere o della qualità, che non poteva essere identificato con la mera richiesta indebita di denaro; il suo ruolo di mero assistente tecnico non implicava alcuna capacità dispositiva e non poteva comportare alcun abuso di potere o della qualità; 2) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 317 cod. pen., considerato che dal racconto della stessa persona offesa, che aveva chiarito il sistema pilotato vigente presso il Genio Militare per l’assegnazione degli appalti, emergeva il pieno inserimento del N. in un’attività corruttiva, al fine di garantirsi l’aggiudicazione sistematica di gare d’appalto al di là di ogni regola di trasparenza.

3.2. Il P. ha dedotto: 1) violazione della legge processuale, con riferimento all’art. 512 c.p.p. e art. 526 bis cod. proc. pen., e connesso vizio di motivazione in relazione alla ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni del D. attraverso la lettura dei verbali di sommarie informazioni rese in sede di indagini: era mancato un serio accertamento sulla irreperibilità del teste e non si era considerato che questa poteva essere stata il frutto di una libera e volontaria scelta finalizzata a sottrarsi all’esame nel contraddittorio delle parti; 2) omessa acquisizione delle intercettazioni telefoniche espletate sull’utenza in uso al D., i cui esiti erano rilevanti per valutare l’attendibilità o meno del teste; 3) erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 317 cod. pen., e connesso vizio di motivazione:

gli elementi acquisiti evidenziavano che tra i pubblici ufficiali e gli imprenditori la trattativa si era svolta sempre su un piano paritario e i secondi erano stati spinti a versare la tangente per assicurarsi l’appalto, il cui importo veniva artificiosamente gonfiato; non provata la circostanza che il mancato versamento della tangente comportava l’esclusione dell’imprenditore dai successivi appalti (la posizione dell’imprenditore C. dimostrava il contrario; l’esclusione del M. era stata determinata dal fatto che la sua azienda impiegava lavoratori in nero); difettava la prova dell’abuso della qualità o dei poteri, non potendo il P., peraltro, incidere in alcun modo sull’appalto.

3.3. Il M. ha dedotto: 1) violazione dell’art. 512 cod. proc. pen., con riferimento anche alle ordinanze dibattimentali 6/11/2001 e 20/9/2002, per la disposta lettura e la conseguente utilizzazione delle dichiarazioni rese in sede di indagini dal D., non potendosi ritenere dimostrata la imprevedibilità della irreperibilità del teste; 2) violazione dell’art. 317 cod. pen. e connesso vizio di motivazione, considerato che la ricostruzione effettuata dalla Corte di merito in termini di concussione ambientale non aveva posto in evidenza alcun comportamento specifico a lui addebitarle e inquadratole nello schema della concussione e che a suo carico erano emerse soltanto delle elargizioni di denaro, circostanza quest’ultima che induceva a ritenere il meno grave reato di corruzione; 3) violazione dell’art. 323 bis c.p. e art. 62 c.p., n. 4 e vizio di motivazione in relazione al diniego di tali attenuanti.

3.4. Il G. ha dedotto: 1) questione di costituzionalità della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, con riferimento all’art. 3 Cost.; 2) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla L. n. 46 del 2006, art. 1 e art. 10, comma 3, per essere stato l’appello, in relazione al reato di cui all’art. 611 cod. pen., ritenuto inammissibile senza la pronuncia della relativa ordinanza, impedendo così di proporre ricorso per cassazione;

l’appello era comunque ammissibile e andava deciso nel merito; 3) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sotto il profilo che era stato ritenuto insussistente il reato di cui all’art. 317 cod. pen., pure contestatogli, e sussistente quello ex art. 611 cod. pen., che al primo era funzionale; 4) vizio di motivazione in ordine alla ritenuta configurabilità del reato di cui all’art. 611 cod. pen., la cui stessa materialità, alla luce delle dichiarazioni rese dal C., doveva essere esclusa; 5) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 611 cod. pen., in quanto l’accertata insussistenza della concussione escludeva che il C. potesse rendere falsa testimonianza; 6) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 479 e 49 cod. pen.: si era di fronte ad un falso innocuo, in quanto inidoneo ad offendere la pubblica fede, perchè non incideva sulla capacità probatoria dell’atto preso in considerazione; il falso innocuo non andava confuso col falso grossolano, a cui pareva avere fatto riferimento la Corte d’Appello;

a norma della L. n. 20 del 1994, artt. 1 e 1 bis, la responsabilità amministrativa dei pubblici ufficiali andava valutata tenendo conto del vantaggio apportato alla P.A. dalla condotta posta in essere dagli stessi pubblici ufficiali; 7) manifesta illogicità della motivazione sotto il profilo che si era escluso il reato di abuso d’ufficio, pure contestato, e si era ritenuto il falso, che rappresentava il reato mezzo.

3.5. Il L. ha dedotto: 1) inosservanza della legge processuale, con riferimento all’art. 157 c.p.p., comma 8 e art. 429 cod. proc. pen., per non essergli stato regolarmente notificato il decreto che disponeva il giudizio, notifica avvenuta presso la sede della ditta M.I.T.E.E. e non presso la sua residenza; 2) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per non essersi considerato che egli non aveva alcun interesse personale alla falsificazione degli atti e che l’attività incriminata era riconducitele esclusivamente ai pubblici ufficiali in essa coinvolti;

3) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 157 e 159 cod. pen. e art. 420 quater cod. proc. pen., per non essere stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, non potendosi computare a suo carico, essendo rimasto contumace, periodi di sospensione del relativo termine per ragioni di impedimento a comparire.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono in parte fondati e vanno accolti nei limiti di seguito precisati.

2. In relazione alla posizione processuale di G.I. e L.N., entrambi dichiarati colpevoli del reato di falso ideologico continuato in atto pubblico e il primo, inoltre, prosciolto dal reato di cui all’art. 611 cod. pen., perchè estinto per prescrizione, deve riassuntivamente osservarsi quanto segue.

2.1. Priva di pregio è la doglianza in rito articolata dal L., che lamenta la nullità della notificazione del decreto che disponeva il giudizio e di tutti gli atti conseguenti.

La notifica all’imputato del decreto che disponeva il giudizio risulta essere stata regolarmente eseguita nel luogo dove il predetto esercitava abitualmente, all’epoca, l’attività lavorativa (sede della ditta M.I.T.E.E., di cui era procuratore generale), ai sensi dell’art. 157 c.p.p., comma 8, e la lettera raccomandata con la quale si comunicava l’avvenuto deposito dell’atto presso la Casa Comunale risulta essere stata regolarmente ricevuta, in data 22/12/1998, dalla moglie P.G.. L’imputato, d’altra parte, non può limitarsi a denunciare, con argomentazioni peraltro perplesse (cfr. atto d’appello, richiamato nel ricorso), l’asserita inosservanza della norma processuale in tema di notificazione della citazione a giudizio, ma deve rappresentare al giudice di non avere avuto effettiva cognizione dell’atto e indicare gli specifici elementi che consentano l’esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice (Sez. U., n. 119 del 27/10/2004, dep. 7/1/2005, imp. Palumbo). Tali ulteriori precisazioni sono assenti nel motivo di ricorso, che si rivela, pertanto, aspecifico.

Nel caso in esame, la procedura di notificazione, completata con la consegna della raccomandata a mani della moglie dell’imputato, lascia ragionevolmente presumere che quest’ultimo, in difetto di elementi di segno contrario, abbia avuto effettiva conoscenza dell’atto a lui destinato.

2.2. Il reato di falso ideologico in atto pubblico addebitato al G. e al L. è estinto per prescrizione.

Ed invero, avuto riguardo all’epoca a cui risale la consumazione dell’illecito (tra l’ottobre e i primi giorni del dicembre 1991), il termine di prescrizione, considerato nella sua massima estensione di anni 15 (art. 157 c.p., comma 1, n. 3 e art. 160 c.p., comma 3, nel testo previgente) e pur tenuto conto dei periodi di sospensione, che ammontano complessivamente a un anno, mesi nove e giorni quattro, è – ad oggi – interamente decorso (prescrizione maturata il 16/9/2008).

E’ il caso di precisare che non ricorrono i presupposti di operatività della norma di cui al capoverso dell’art. 129 cod. proc. pen., considerato che, come sottolineato nella sentenza di merito, la documentazione acquisita, le ammissioni fatte dal G. e il necessario coinvolgimento, sotto il profilo del concorso morale, del L., in quanto persona direttamente interessata, nell’attività di falsificazione conclamano la responsabilità dei due imputati in ordine all’illecito in esame.

Nè l’assoluzione nel merito degli imputati dal connesso reato di abuso d’ufficio si pone in contrasto logico con la soluzione adottata in ordine al reato di falso. Detta assoluzione riposa, infatti, sul rilievo, interno alla fattispecie tipica di cui all’art. 323 cod. pen., del difetto del requisito della doppia ingiustìzia, dato di fatto – questo – che non incide sul reato di falso.

23. Quanto al reato di cui all’art. 611 cod. pen., ascritto al solo G., deve preliminarmente rilevarsi che la doglianza relativa all’erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla L. n. 46 del 2006, art. 1 e art. 10, comma 3, per non avere la Corte territoriale pronunciato l’ordinanza d’inammissibilità del gravame, onde consentire il ricorso per cassazione sul punto, è priva di qualunque fondamento sia perchè superata dall’intervento – medio tempore – della Corte Costituzionale (sentenza n. 85 del 4/4/2008), sia perchè l’eventuale ricorso per cassazione doveva essere comunque, ex art. 580 cod. proc. pen., convertito in appello.

Correttamente la sentenza in verifica perviene, sulla base delle risultanze processuali acquisite, alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, non risultando evidente l’insussistenza del fatto o l’estraneità ad esso dell’imputato, considerato che la condotta a costui contestata aveva come obiettivo quello di ostacolare in qualche modo le indagini in corso, condizionando la persona (teste C.) che avrebbe dovuto rendere dichiarazioni al riguardo.

2.4. Conclusivamente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti del G. e del L., in ordine al reato di falso ideologico continuato (capo r), perchè estinto per prescrizione. Il ricorso del G. va rigettato nel resto.

3. La posizione processuale di D.L.G., P.O. e M.G., dichiarati colpevoli del reato di concussione, impone un’attenta riflessione sulla qualificazione giuridica dei fatti per così come ricostruiti dai giudici di merito e rispettivamente addebitati agli imputati.

3.1. In via preliminare, deve sottolinearsi che non hanno pregio le doglianze dei ricorrenti P. e M. sulla ritenuta utilizzabilità, attraverso lettura, delle dichiarazioni rese, nel corso delle indagini, alla Polizia giudiziaria dall’imprenditore D.R., resosi successivamente irreperibile.

Ai fini della legittimità della lettura, a norma dell’art. 512 cod. proc. pen., degli atti assunti dalla Polizia giudiziaria in sede di indagini, l’irreperibilità sopravvenuta del soggetto che abbia reso dichiarazioni al di fuori del dibattimento, alla quale non può attribuirsi presuntivamente il significato della volontaria scelta di sottrarsi all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore, integra, se rigorosamente accertata, un’ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova in contraddittorio e di conseguente irripetibilità dell’atto dovuta a fatti o circostanze imprevedibili (Sez. U. n. 36747 del 28/5/2003, dep. 24/9/2003, imp. Torcasio).

L’irreperibilità del D., come si evince dalla sentenza impugnata, risulta essere stata rigorosamente accertata, attraverso l’espletamento di accurate e scrupolose indagini, e non sono emersi elementi che rendevano prevedibile con obiettiva probabilità, al momento dell’assunzione dell’atto da parte della Polizia giudiziaria, la situazione successivamente verificatasi (cfr. pgg. 29 e seguenti della sentenza impugnata).

La denegata rinnovazione del dibattimento, per acquisire le bobine relative alle intercettazioni telefoniche nelle quali era coinvolto il D., al solo fine di verificare l’attendibilità di costui, è scelta del giudice di merito che, in quanto adeguatamente e logicamente motivata, non è censurabile sotto il profilo della legittimità. Correttamente, pertanto, le dichiarazione del D., unitamente a quelle degli altri imprenditori coinvolti nella presente vicenda, sono state utilizzate a dimostrazione dei fatti di cui si discute.

3.2. L’apparato argomentativo su cui riposa la sentenza impugnata, che recepisce il discorso giustificativo di quella di primo grado, ravvisa nei fatti esaminati gli estremi della cd. concussione ambientale, per la cui configurazione sarebbe sufficiente la mera richiesta di denaro o di altra utilità da parte del pubblico ufficiale ovvero la mera dazione di denaro o di altra utilità da parte del soggetto passivo, in forza di una generalizzata e notoria prassi in tal senso invalsa in un determinato settore della Pubblica Amministrazione, e ciò perchè il privato, presa coscienza del consolidato sistema di illegalità, verrebbe a trovarsi in una posizione di inferiorità e sarebbe indotto alla dazione per scongiurare situazioni a lui pregiudizievoli, individuabili, con riferimento al caso specifico, nella mancata aggiudicazione della commessa o nella esclusione dall’affidamento di futuri lavori.

Le imprese coinvolte nella presente vicenda, inoltre, in quanto operanti in una realtà economica asfittica, erano – secondo i giudici di merito – particolarmente interessate ad eseguire lavori per conto del Genio Militare, ente di sicura solvibilità, e, pur di aggiudicarsi.

I relativi appalti, avevano dovuto subire il condizionamento della consolidata prassi illegale vigente in quella Amministrazione.

3.3. Tale qualificazione giuridica dei fatti per cosi come ricostruiti pecca di superficialità, esalta dati meramente suggestivi e non è in sintonia con la fattispecie tipica di cui all’art. 317 cod. pen..

La concussione ambientale, non rientrante nell’espressa previsione dell’art. 317 cod. pen., è figura elaborata dalla giurisprudenza e da una parte della dottrina, che hanno dilatato l’ambito di rilevanza penale della detta norma, nella prospettiva di fronteggiare quel fenomeno criminologico, sempre più diffuso nell’attuale momento storico, che vede la prestazione dell’indebito al pubblico ufficiale non come effetto dell’abuso di costui e del conseguente comportamento induttivo o costrittivo, ma come scelta necessitata del privato di doversi adeguare ad una prassi consolidata e ineluttabile di illegalità diffusa, imperante in un certo settore della Pubblica Amministrazione, si da subirne le corrispondenti "regole", per evitare conseguenze a lui sfavorevoli. Una tale situazione sarebbe inquadratole, secondo tale indirizzo ermeneutico, nel paradigma dell’art. 317 cod. pen., in quanto, nell’ambito di un sistema di illegalità diffusa, la condotta costrittiva o induttiva tipica della concussione può evidenziarsi "anche attraverso il riferimento ad una convenzione tacitamente riconosciuta, che il pubblico ufficiale fa valere e il privato subisce, nel contesto di una comunicazione resa più semplice nella sostanza e sfumata nelle forme per il fatto di richiamarsi a regole già "codificate"" (Sez. 6 n. 13395 del 13/7/1998, dep. 18/12/1998, imp. Salvi), hi sostanza, si è ritenuto che, in tale contesto, "la condizione del privato è il riflesso di una "intimidazione d’ambiente", in cui se non si unge la ruota nulla si muove".

Osserva, però, la Corte che il solo dato ambientale sfugge alla tipicità della fattispecie incriminatrice delineata dall’art. 317 cod. pen., la quale impone di recuperare alla costrizione o all’induzione un’autonomia sul piano del comportamento individuale, nel senso che non può prescindersi dall’individuazione della condotta specifica dell’agente pubblico, attraverso la quale si determina nel privato quel condizionamento psicologico che si traduce nella convinzione della ineluttabilità della prestazione indebita.

Non può ravvisarsi nella semplice richiesta di denaro o di altra utilità da parte del pubblico ufficiale l’abuso della qualità o dei poteri. E’ sintomatica, in coerenza con tale affermazione, la modifica dell’art. 322 c.p., la cui operatività è stata allargata al caso in cui sia il pubblico agente a sollecitare la dazione indebita del privato; tale norma offre certamente, anche sul piano lessicale, una copertura ampia ad ipotesi riconducigli alla fenomenologia che ha dato origine alla figura della cd. concussione ambientale; la previsione, in relazione all’atteggiamento che il privato assume di fronte alla istigazione, può proiettarsi ed evolversi nella corruzione.

La dilatazione della figura della concussione, che ingloba situazioni di mera pressione ambientale, senza alcun riferimento a condotte individuali, si risolve in una applicazione analogica in malam partem dell’art. 317 c.p., imperniato inequivocamente sulla stato di soggezione della vittima, provocato dalla condotta del pubblico funzionario e non "latente" nell’ambiente. La concussione ambientale, inoltre, cancella il requisito della costrizione o, più esattamente, dell’induzione e crea, per così dire, una responsabilità penale di posizione, fondata cioè non sull’abuso della qualità o dei poteri, ma sulla posizione o qualifica rivestita dal pubblico ufficiale.

Al concetto di induzione, in particolare, deve essere attribuito un significato restrittivo: è l’induzione mediante inganno o persuasione che assume rilievo e l’inganno o la persuasione deve essere l’espressione dell’abuso della qualità o dei poteri, visto sotto il profilo del suo influsso sulla psiche della vittima; abuso e induzione cioè non sono due differenti condotte, ma sono le due facce di una stessa condotta, osservata sotto angoli visuali distinti.

La cd. concussione ambientale, se intesa in senso lato, prescindendo cioè dal comportamento individuale dell’agente e dando rilievo alla sola posizione di costui, non solo non soddisfa il necessario requisito della tipicità, ma finisce per creare una sorta di zona franca o, meglio, un "salvacondotto" per un certo mondo imprenditoriale che, per interessi propri, contribuisce alla creazione e al mantenimento del sistema presupposto di illegalità e che si ha difficoltà, sul piano della comune logica, a collocare nel ruolo di "vittima" del sistema.

La fenomenologia connessa alla cd. "intimidazione d’ambiente", in difetto di elementi indicativi dello stato di soggezione della vittima determinato dalla condotta abusiva del pubblico funzionario, deve più propriamente essere inquadrata nella corruzione antecedente (propria o impropria): l’inserimento del privato in un sistema di mercanteggiamento sistematico dei pubblici poteri e l’adesione alla pratica della "tangente" non consentono di apprezzare nel privato medesimo lo stato di soggezione come effetto di un abuso riconducibile ad iniziative individuali del rappresentante di pubblici poteri, ma denunciano il ruolo di protagonista del sistema assunto dal privato, che accetta la situazione di malcostume, condivide e si adegua ai meccanismi criminosi, consolidandone la valenza, per conseguire indebiti privilegi (aggiudicazione di appalti al di fuori di ogni regola di trasparenza). In una tale situazione, prende corpo quell’accordo corruttivo in forza del quale le volontà dei protagonisti, secondo le regole proprie del sinallagma, si incontrano, ciascuno perseguendo il risultato prefissato. Gli estremi della concussione ambientale possono profilarsi solo in casi marginali, quando cioè, pur nell’ambito di un sistema diffuso di illegalità, intervenga comunque un’azione di preminenza prevaricatrice e di sopruso del pubblico ufficiale, che determini una turbata e intimorita volizione del soggetto privato, che ben può considerarsi "vittima" del sistema e, quindi, concusso.

3.4. Nel caso in esame, per quello che si evince dalla ricostruzione in fatto operata dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado, non è dato apprezzare alcuno specifico comportamento induttivo degli imputati, quale espressione di prevaricazione nei confronti dei soggetti privati e di condizionamento delle scelte dei medesimi, ma piuttosto l’operatività di un consolidato sistema di illegalità, nel quale la pratica della "tangente" era costante, e l’adesione a tale sistema sia dei pubblici funzionar preposti all’aggiudicazione e alla gestione degli appalti, sia delle imprese private interessate ad assicurarsene l’affidamento.

E’ sintomatico che numerosissime erano le imprese iscritte nell’elenco dei fornitori della "Marigenimil" di Taranto e quindi elevata era – in astratto – la concorrenza nell’assegnazione delle commesse; gli imprenditori erano costantemente presenti negli uffici dell’Ente, per acquisire notizie relative a lavori da eseguire e per i quali potersi proporre, adeguandosi alle regole dell’imperante sistema illegale; le commesse venivano, per lo più, assegnate sempre alle stesse imprese, le quali contenevano il ribasso o contabilizzavano i lavori in misura superiore al valore effettivo degli stessi proprio per fare fronte al costo aggiuntivo delle tangenti. Tali dati di fatto dimostrano la condivisione del detto sistema da parte delle imprese private, inseritesi in esso da protagoniste e divenute parte attiva di un meccanismo corruttivo.

3.5. Le argomentazioni sin qui svolte impongono di qualificare sub specie iuris i fatti ascritti al D.L., al P. e al M. (capi b, c, h) come corruzione propria ex art. 319 cod. pen..

Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti del predetti, perchè il reato, così come qualificato, è estinto per prescrizione. Avuto riguardo, infatti, all’epoca a cui risale la consumazione dell’illecito (fino al 29/9/1992) e alla misura massima della pena per questo prevista (inferiore a cinque anni di reclusione, per effetto delle accordate attenuanti generiche), il termine di prescrizione, considerato nella sua massima estensione di anni sette e mesi sei (art. 157 c.p., comma 1, n. 4 e art. 160 c.p., comma 3, nel testo previgente) e pur tenuto conto della sospensione di un anno, mesi nove e giorni quattro, è – ad oggi – interamente decorso.

E’ il caso di precisare che, per tutte le considerazioni sviluppate dai giudici di merito nella ricostruzione in fatto della vicenda e che qui si intendono richiamate, non ricorrono i presupposti di operatività della norma di cui al capoverso dell’art. 129 cod. proc pen.. Rimangono assorbiti gli altri motivi di ricorso.

3.6. La declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di falso ideologico in atto pubblico e di corruzione propria, così come rispettivamente addebitati, non fa venire meno la responsabilità civile degli imputati conseguente a tali illeciti, la cui sussistenza, per quanto già detto, è ampiamente provata.

Devono, pertanto, essere confermate le statuizioni civili a favore del Ministero della Difesa, costituito parte civile, e i ricorrenti devono essere condannati a rifondere a tale parte processuale le spese del grado, liquidate nella misura in dispositivo precisata.

La sentenza impugnata deve, infine, essere annullata senza rinvio nella parte relativa alle statuizioni civili in favore di N. A., che, per quanto innanzi esposto, non è vittima di concussione ma concorrente necessario nel reato di corruzione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G. e L. in ordine al reato di falsità ideologica, perchè estinto per prescrizione; rigetta nel resto il ricorso di G..

Annulla la medesima sentenza senza rinvio nei confronti di D. L., P. e M. in ordine al reato di corruzione propria, così qualificati i fatti rispettivamente ascritti a titolo di concussione, perchè estinto per prescrizione.

Conferma le statuizioni civili a favore del Ministero della Difesa e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 1.800,00 per onorari.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nella parte relativa alle statuizioni civili in favore di N.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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