T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 04-07-2011, n. 5826

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso in esame il sig. Foued Ben Fitouri Cherif e la moglie, sig.ra S.B. impugnano il decreto del Ministro dell’Interno del 4 gennaio 2007 con cui il primo è stato espulso dal territorio nazionale in applicazione delle disposizioni del decretolegge del 27 luglio 2005 n. 144 (decreto recante "misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale ", e convertito nella legge del 31 luglio 2005 n. 155) nonché il conseguente provvedimento di ritiro della Carta di soggiorno rilasciato allo stesso per motivi familiari.

In punto di fatto si premette che il Sig. Foued risiede regolarmente in Italia sin dal gennaio 1993, ove contratto matrimonio con cittadina italiana ed ha stabilito il proprio nucleo familiare (la ricorrente e tre figli in età scolare, soffrenti di disturbi alle vie respiratorie e patologie allergiche) e svolge attività lavorativa automa come titolare di impresa individuale per l’edilizia e ditta import export.

In diritto si deducono le seguenti censure:

1) Illegittimità costituzionale dell’art. 3 co. 2 del decretolegge del 27 luglio 2005 n. 144 recante "misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale ", come modificato dalla legge di conversione del 31 luglio 2005 n. 155) per contrasto con gli artt. 3, 13, 24, 111 e 113 della Costituzione;

2) Violazione e contrasto dell’art. 3 co 5 del predetto decretolegge per contrasto con l’art. 5 e l’art. 6 della CEDU;

3) Violazione degli artt. 2, 3 e 10 della legge n. 241/90; Eccesso di potere per difetto ed erroneità nella motivazione. Difetto di istruttoria anche in punto di interesse pubblico. Erronea valutazione dei fatti e dei presupposti. Violazione e falsa applicazione di legge. violazione dell’art. 24 Cost;

4) Violazione del diritto all’unità familiare del ricorrente e del diritto del medesimo di ottenere la cittadinanza italiana in quanto coniuge convivente di cittadina italiana;

5) In via subordinata: illegittimità costituzionale dell’art. 3 DL 144/05 nella parte in cui non prevede la possibilità di sospensione giurisdizionale del provvedimento di espulsione per contrasto con gli artt. 3, 13, 24, 111 e 113 della Costituzione.

In conclusione si chiede l’annullamento dell’atto impugnato nonché il risarcimento del danno in conseguenza di esso subito.

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione, che resiste solo formalmente.

Con ordinanza n. 1939 del 26 aprile 2007, la domanda di sospensione è stata respinta.

All’udienza pubblica del 12.5.2011 la causa è trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

Va in via preliminare ritenuta l’ammissibilità del gravame, visto che è in atti la procura conferita dal ricorrente all’Avv. Ballerini in data 9 febbraio 2007 tempestivamente rispetto al termine di scadenza per la proposizione del gravame.

Nel merito tuttavia il ricorso è infondato.

Con un primo gruppo di censure si lamenta l’illegittimità dell’art. 3 co. 2 del decretolegge del 27 luglio 2005 n. 144 recante "misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale ", come modificato dalla legge di conversione del 31 luglio 2005 n. 155, nella parte in cui prevede l’esecuzione immediata dell’ordine di espulsione senza apprestare adeguate garanzie di tutela e controllo giurisdizionale, per contrasto con gli artt. 3, 13, 24, 111 e 113 della Costituzione e l’art. 5 della CEDU in quanto non prevedere la garanzia della previa convalida dell’esecuzione dell’espulsione da parte del giudice ordinario, determinando un’irragionevole disparità di trattamento con i soggetti destinatari dell’ordinaria espulsione amministrativa ai sensi dell’art. 13 del d.lvo n. 286/1998.

La questione di legittimità costituzionale siccome prospettata s’appalesa manifestamente infondata.

Al riguardo va innanzitutto osservato che i provvedimenti di espulsione in parola non sono finalizzati, quali quelli ordinariamente disposti dal Questore e dal Prefetto ai sensi dell’art. 13 del d.lvo n. 241/90, solo al perseguimento dell’interesse pubblico affidato alle cure di una Pubblica Amminsitrazione, quali il rispetto della normativa in materia di immigrazione e del sistema pianificatorio vigente ovvero il mantenimento dell’ordine pubblico o della sicurezza interna – ma alla stessa salvaguardia dello Stato e dell’intera collettività dei consociati da attacchi esterni e indiscriminati, quali sono quelli di tipo terroristico. Ciò giustifica la diversità di trattamento della posizione di chi abbia semplicemente trasgredito la normativa sull’immigrazione o crei problemi di ordine pubblico, in cui i tempi per il controllo giurisdizionale del provvedimento di espulsione non siano incompatibili rispetto al fine di assicurare il rispetto di tali beni, rispetto alla posizione di chi sia sospettato di poter contribuire alla realizzazione di azioni terroristiche che mettano in gioco beni assolutamente fondamentali in cui l’esigenza di protezione di questi comporti la necessità di un’esecuzione immediata delle relative misure, a pena di perdita della loro efficacia, con conseguente indifferibilità anche per il tempo necessario alla convalida da parte dell’autorità giudiziaria.

Nel contemperamento degli interessi in gioco, infatti, quello alla stessa sopravvivenza dello Stato e dell’incolumità delle persone presenti sul suo territorio prevalga rispetto a quello dell’individuo sospettato di attentarvi in quanto i primi costituiscono interessi e diritti fondamentali che attengono alla esistenza e sopravvivenza delle Istituzioni e soprattutto al diritto insopprimibile dei comuni cittadini alla vita ed all’integrità fisica rispetto al quale la garanzia della convalida giurisdizionale volta a tutelare l’interesse della persona sospettata di terrorismo a non essere qualificata come tale e a non essere allontanata da un Paese in cui altrimenti vorrebbe vivere appare come un bene minore, afferendo alla mera scelta della residenza e quindi alla mobilità della persona, e pertanto recessivo, in quanto in evidente rapporto di continenza rispetto al bene supremo della esistenza stessa della persona e della sua integrità fisica, rispetto a quest’ultimo.

Le medesime considerazioni valgono ad escludere senza dubbio l’incompatibilità della norma di cui all’art. 3 co. 5 del decretolegge del 27 luglio 2005 n. 144, che consente la sospensione fino a due anni del procedimento giurisdizionale nel caso in cui la decisione dipenda dalla cognizione di atti per i quali sussiste segreto di indagine o segreto di Stato, in quanto tale dilazione appare adeguatamente contenuta nel tempo e giustificata nella sua durata dalla evidente necessità di evitare che la divulgazione di informazioni fondamentali per l’attività di prevenzione possano vanificarne l’efficacia. Dal che discende, per conseguenza, l’infondatezza manifesta anche della questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame, in cui si esclude la possibilità di sospensione in sede giurisdizionale dell’atto impugnato, dedotta con il quinto mezzo di gravame – ed a prescindere dal rilevare la sopraggiunta carenza persistenza dell’interesse del ricorrente relativamente a tale profilo di doglianza trattandosi di profilo superato e assorbito nella fase di merito del ricorso- in quanto misura evidentemente volta a non frustrare la finalità perseguita con l’espulsione cui è connaturata l’imprescindibile indifferibilità, (cfr. sentenza TAR Lazio I ter n. 155 del 14 gennaio 2009 nel senso che si tratta di misura necessitata e giustificata alla luce del richiamato contemperamento di interessi in cui risultano prevalenti le esigenze di salvaguardia della sicurezza nazionale e di assicurare l’espulsione di soggetti pericolosi).

Resta da verificare la sussistenza o meno nella fattispecie in esame dei presupposti per l’applicazione della norma in contestazione, indicati mediante un concetto giuridico indeterminato, quello della pericolosità del soggetto interessato, e della valutazione dell’effettiva possibilità che egli possa contribuire ad azioni terroristiche, valutata secondo un giudizio di tipo prognostico effettuato ex ante dalle autorità competenti, che costituisce oggetto del terzo motivo di ricorso, ove si denuncia l’illegittimità del provvedimento applicativo della norma in contestazione sotto il profilo del difetto di motivazione e di istruttoria nonché di erronea valutazione dei fatti e dei presupposti, come già chiarito da questo Tribunale con sentenza della Sezione I ter n. 155 del 14 gennaio 2009.

La questione sottoposta all’esame del Collegio infatti investe un settore emblematico dei problemi della stessa definizione della natura della discrezionalità amministrativa, del principio di legalità, dei rapporti con la dottrina dei concetti giuridici indeterminati e dei limiti di tutela giurisdizionale, che investono sia l’individuazione dei presupposti dell’azione amministrativa (situazione di pericolo) sia la stessa determinazione della misura concreta adottata dall’autorità amministrativa per fronteggiare tale situazione di pericolo (misure preventive).

Com’è noto il giudizio sulla pericolosità è demandato all’autorità amministrativa competente ed il giudice amministrativo non è autorizzato a sostituire le proprie valutazioni a quelle effettuate, sulla base di elementi di giudizio non sempre ostensibili, all’amministrazione competente, salvo, ovviamente sotto i profili sintomatici dell’eccesso di potere, inteso sia nelle figure tradizionali sia in quelle più evolute del sindacato di ragionevolezza e di proporzionalità.

In sede di sindacato di legittimità, infatti è precluso al giudice amministrativo di rivalutare l’attendibilità o meno di tali giudizi prognostici, che costituisce una valutazione di merito riservata all’Amministrazione, che può essere riesaminata solo nei casi in cui la relativa materia rientri nella giurisdizione di merito, com’era opportunamente previsto per i provvedimenti contingibili ed urgenti del sindaco, in cui proprio l’ampiezza dei poteri conferiti all’autorità amministrativa per fronteggiare situazioni di grave pericolo per beni fondamentali aveva indotto il legislatore ad assoggettare le relative misure al controllo del giudice amministrativo; una simile penetrante forma di sindacato invece non è stata prevista dalla legislazione eccezionale antiterrorismo della cui applicazione si discute.

In tale materia, pertanto, il sindacato giurisdizionale su tali giudizi prognostici si configura in modo particolare, in quanto non ha ad oggetto non un mero accertamento di fatti, nella loro sussistenza attuale, ma ha ad oggetto altresì la formulazione, in base agli stessi fatti, mediante un processo logico di tipo inferenzialeprobabilistico, delle ipotesi di avveramento in futuro di altri, diversi fatti, la cui realizzazione si intende prevenire; sicchè le relative valutazioni possono essere sindacate, in sede di legittimità, solo nel caso in cui i fatti accertati e posti a fondamento del giudizio prognostico si rivelino insussistenti, oppure, ancorché effettivamente sussistenti, siano stati macrospocicamente travisati nel loro valore sintomatico oppure abbiano indotto alla formulazione di ipotesi di avveramento del tutto inverosimibili o estremamente improbabili.

Nella fattispecie in esame, il provvedimento di espulsione impugnato è stato adottato dal Ministro dell’Interno in quanto il ricorrente "ha un consolidato circuito relazionale con elementi di primo piano nel panorama dell’integralismo islamico presenti in Italia coinvolti in progettualità terroristiche" ed è stato ritenuto "che lo stesso possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche anche internazionali".

Le censure dedotte con il motivo di ricorso in esame si incentrano sull’assunto che il ricorrente sia stato espulso senza adeguati accertamenti istruttori volti a verificare se sussistessero i presupposti previsti dalla legge per l’adozione del provvedimento in contestazione, che quindi non risulta sufficientemente motivato ed è affetto da travisamento di fatti presupposti in quanto il Sig. Cherif non sarebbe considerabile né come socialmente pericoloso né come terrorista, ed il relativo giudizio valutativo, su cui si fonda il provvedimento impugnato, è frutto di mero pregiudizio – essendo stato determinato dal fatto che l’interessato frequentava la moschea e conosceva altri musulmani praticanti – e non sarebbero fondate su alcun elemento oggettivo.

Nella fattispecie in esame, il travisamento di fatti prospettato dal ricorrente non sussiste, in quanto la valutazione di pericolosità è scaturita non da semplici considerazioni negative sulla frequentazione occasionale di semplici integralisti conosciuti in moschea o su pregiudizi del Ministro dell’Interno derivanti dall’orientamento religioso del ricorrente, quanto piuttosto da precise risultanze dell’attività investigativa svolta che hanno accertato la frequentazione tutt’altro che occasionale di detti elementi, rintracciati a casa del ricorrente durante un’operazione di perquisizione da parte dell’Amministrazione che ha ritenuta l’effettiva sussistenza del "consolidato circuito relazionale" con elementi la cui pericolosità non è stata attribuita in virtù delle convinzioni religiose, e cioè del fatto che fossero integralisti, quanto piuttosto dall’attività dagli stessi condotta congiuntamente, consistente nella progettazione di azioni terroristiche; circostanze che hanno indotto il Ministero a disporre l’allontanamento del ricorrente al fine di prevenire la realizzazione di tali azioni mediante il contributo anche del ricorrente.

La validità di tale giudizio prognostico sul rischio di collaborazione in attività terroristiche del ricorrente, come sopra ricordato, non può essere sindacata nel merito in questa sede – va comunque al riguardo osservato, ex post, che le valutazioni oggetto di contestazione non consistevano in mere congetture ipotetiche visto che l’interessato è stato processato e condannato, nel Paese d’origine, proprio per il reato di finanziamento di organizzazione ed attività terroristiche – e comunque, per quanto concerne la sua legittimità, appare immune dai vizi dedotti in quanto si fonda su precise risultanze dell’attività investigativa attestanti il collegamento non occasionale con soggetti che partecipano a progetti terroristici (cfr. perquisizione effettuata in data 13 luglio 2005), da cui si poteva ragionevolmente indurre che la presenza del ricorrente nel territorio dello Stato rappresentasse un pericolo per la sicurezza pubblica, secondo un iter logico esente da illogicità o erroneità, e quindi atto a giustificare la misura dell’allontanamento in quanto necessaria ad evitare che l’interessato potesse contribuire alla realizzazione delle attività sopraindicate.

L’esigenza di tutelare i beni assolutamente fondamentali sopraindicati, infatti, impone una tutela molto avanzata, che impone all’Autorità procedente di adottare la misura dell’espulsione anche sulla base del semplice sospetto, sulla base di una valutazione effettuata anche solo alla stregua di meri indizi, in cui assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza di progettualità terroristica, che possono essere ravvisati in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza che detta azione venga realizzata nell’imminenza, ma che, nel loro complesso, siano tali da fondare un giudizio che tale possibilità possa verificarsi. Ne consegue che non risulta necessario quel grado di accertamento completo, reclamato invece da parte ricorrente, prescritto in sede penale per la condanna per il tentativo di reato, che qui si intende semplicemente prevenire, attesa la diversa finalità, preventiva e non punitiva, della misura in contestazione.

Per completezza va precisato che, anche a prescindere dalla ritenuta sussistenza dei presupposti per l’espulsione per motivi di terrorismo, comunque i precedenti penali del ricorrente – che è stato ripetutamente condannato con sentenza dell’11 aprile 1996, passata in giudicato, a dieci mesi di reclusione per detenzione di stupefacenti; il 22 marzo 1999 e dallo stesso tribunale ad un anno e un mese di reclusione per detenzione e spaccio di stupefacenti, con sentenza anch’essa passata in giudicato e con revoca della sospensione condizionale della pena- reati gravi che sono chiaramente indicativi della pericolosità sociale dell’autore tanto da essere stati espressamente previsti dal legislatore quale ragione ostativa all’ingresso e permanenza in Italia dello straniero aventi valenza preclusiva del rilascio del permesso di soggiorno – nonché le pendenze penali per oltraggio e resistenza a un pubblico ufficiale; per rissa, lesioni personali, danneggiamento di cose altrui e porto abusivo di armi e l’essere stato destinatario di un avviso orale ai sensi dell’art. 5 della legge n. 328/1988, costituiscono elementi di valutazione rilevanti ai fini del giudizio di pericolosità sociale che giustifica la revoca del permesso di soggiorno anche qualora rilasciato per motivi di coesione familiare, come previsto dall’art. 9 del d.lvo n. 286/98.

Alla luce delle circostanze sopra richiamate va disatteso il quarto motivo di censura, ove si lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato in quanto violativo del diritto del ricorrente ad ottenere la cittadinanza italiana in quanto coniuge di cittadina italiana e padre di figli italiani.

Come ripetutamente affermato da costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Tribunale, il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano in presenza dell’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica che ostino a detto acquisto affievolisce ad interesse legittimo.

Quanto al diritto all’unità familiare, il Collegio non può che condividere le conclusioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che con sentenza del 7 aprile 2009 ha respinto il ricorso dei ricorrenti (ricorso n. 1860/07) osservando l’unità della vita familiare potrà essere preservata fuori del territorio italiano e che anche se i figli del primo ricorrente vanno a scuola in Italia e sono impregnati della cultura italiana, niente vieta loro di proseguire gli studi in Tunisia ed ai membri della famiglia affetti da patologie respiratorie ivi ricevere le cure anche mediche necessarie.

Del pari condivisibili sono le altre affermazioni ove la Corte ribadisce che la Convenzione non sancisce il diritto per uno straniero di entrare o di risiedere in un particolare Paese in quanto anche se un cittadino straniero possiede uno status non precario di residente ed ha raggiunto un elevato grado d’integrazione, la sua situazione non può essere assimilata a quella di un cittadino dello Stato e comunque riconosce allo Stato la possibilità di adottare nei confronti delle persone interessate misure – compresa l’espulsione – atte a tutelare la società ed al mantenimento dell’ordine pubblico che siano necessarie in una società democratica e rispondenti ai principi di una società democratica, cioè giustificate da un bisogno sociale imperioso e, segnatamente, proporzionate allo scopo legittimo perseguito.

In conclusione, alla luce delle considerazioni soprasvolte, il provvedimento di espulsione impugnato, ed il conseguente atto di revoca del titolo autorizzatorio al soggiorno di lungo periodo, siccome non palesemente illogico o arbitrario o fondato su presupposti di fatto insussistenti o travisati, risulta immune dai vizi di legittimità dedotti.

Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato e conseguentemente va respinta l’istanza risarcitoria.

Sussistono tuttavia giusti motivi per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater) respinge il ricorso in epigrafe e la domanda risarcitoria.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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