Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
I ricorrenti impugnano i provvedimenti indicati in epigrafe deducendone la illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili.
Si è costituito in giudizio il Comune di Desio, eccependo sia l’inammissibilità, sia l’infondatezza dell’impugnazione e chiedendone il rigetto.
Le parti hanno presentato memorie e documenti.
Con ordinanza depositata in data 11.06.2010, il Tribunale ha accolto la domanda cautelare contenuta nel ricorso.
All’udienza del giorno 12.05.2011 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
1) Marzia Ersilia Abbondi è persona affetta da disabilità mentale di grado lieve con dislalia ed è stata riconosciuta invalida con riduzione permanente della capacità lavorativa nella misura del 67%.
In data 5 luglio 2005 la Abbondi è stata accolta presso la Comunità residenziale di via Rovere, gestita da CERES Onlus di Segrate, in considerazione della particolari problematiche familiari dell’interessata, che ne condizionavano la crescita e lo sviluppo, nonché l’acquisizione della necessaria autonomia.
Va osservato che proprio il Comune di Desio ha richiesto la collocazione della Abbondi presso la struttura gestita da CERES Onlus; del resto, sono agli atti i successivi impegni di spesa assunti dall’amministrazione comunale per assicurare la permanenza della disabile presso la struttura di accoglienza (cfr. documentazione di parte ricorrente).
Con atto datato 10 marzo 2010, l’avv. Galli, agendo in nome e per conto dell’amministrazione comunale, comunicava a CERES e ai familiari della Abbondi, di ritenere che l’amministrazione non fosse più obbligata a sostenere l’onere economico del ricovero in considerazione della disciplina dettata dal regolamento locale per la concessione dei contributi e sussidi economici a persone fisiche, con l’avviso che dal 1° aprile 2010 non sarebbe più stato effettuato alcun versamento.
Di conseguenza la Abbondi è stata dimessa dalla struttura in data 30 aprile 2010.
Avverso la determinazione dell’amministrazione e il presupposto regolamento comunale la Abbondi ha proposto il ricorso in esame.
2) In via preliminare, vanno esaminate le questioni processuali emerse nel corso del giudizio.
2.1) In particolare, non è dubitabile che il ricorso appartenga alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la controversia afferisce alla materia dei servizi pubblici e coinvolge le scelte organizzative del servizio da parte dell’amministrazione comunale, sicché la lite concerne le determinazioni conseguenti all’esercizio dei poteri pubblicistici di organizzazione del servizio e non coinvolge questioni meramente patrimoniali, con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33 del d.l.vo 1998 n. 80 e dell’art. 133 del codice del processo amministrativo.
2.2) Parimenti, è palesemente infondata l’eccezione di inammissibilità con la quale il Comune sostiene che l’amministratore di sostegno non sarebbe legittimato a proporre l’impugnazione in nome e per conto della disabile, in quanto nominato dal Giudice Tutelare di Milano e non da quello di Monza, ritenuto competente nel caso di specie.
Sul punto è sufficiente osservare che l’eventuale incompetenza del giudice tutelare avrebbe dovuto essere dedotta mediante gli strumenti di impugnazione predisposti dal codice di procedura civile, mentre la relativa eccezione è del tutto irrilevante nel presente giudizio, in quanto non incide sull’esistenza e l’efficacia dei provvedimenti giurisdizionali (presenti in atti) in forza dei quali l’amministratore di sostegno ha proposto il ricorso.
2.3) Del tutto priva di pregio è anche l’eccezione con la quale il Comune adombra il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto la Abbondi in data 5.5.2010 ha spostato la propria residenza da Segrate al Comune di Meda.
Sul punto va osservato che al momento del ricovero la Abbondi risiedeva nel Comune di Desio, quindi ella ha spostato la residenza, una prima volta, nel Comune di Segrate in data 29.03.2006, poi nel Comune di Meda, con decorrenza dal 5.5.2010 (cfr. doc. 5 bis e doc. 19 di parte ricorrente).
L’art. 6, comma 4, della legge 2000 n. 328 – Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali – dispone che per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica.
Parimenti, l’art. 8, commi 4 e 5, della legge regionale Lombardia 2008 n. 3 stabilisce che "gli oneri per le prestazioni sociali e le quote a carico dei comuni, relative a prestazioni sociosanitarie, sono a carico del comune in cui la persona assistita è residente o, nei casi di cui alle lettere b) e c) dell’articolo 6, dimorante", con la precisazione che "qualora la persona assistita sia ospitata in unità d’offerta residenziali situate in un comune diverso, i relativi oneri gravano comunque sul comune di residenza o di dimora in cui ha avuto inizio la prestazione, essendo a tal fine irrilevante il cambiamento della residenza o della dimora determinato dal ricovero".
La normativa ora richiamata rende palese che gli oneri economici di cui si tratta gravano sul Comune di residenza del disabile al momento del ricovero presso strutture residenziali, essendo indifferenti i successivi cambiamenti di residenza.
Non è condivisibile la tesi del Comune secondo la quale, siccome la Abbondi è stata dimessa dalla struttura, un eventuale ulteriore ricovero andrebbe considerato come un fatto del tutto nuovo, con conseguente sopportazione del peso economico della prestazione da parte del Comune di residenza al tempo del nuovo ricovero.
In proposito è sufficiente considerare che una eventuale sentenza di annullamento degli atti impugnati produrrebbe effetti retroattivi, con conseguente obbligo per l’amministrazione di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto, senza soluzione di continuità, in ragione dell’effetto ripristinatorio della sentenza costitutiva, sicché l’avvenuta dimissione dalla struttura integra un accadimento meramente materiale che non incide sull’individuazione del Comune obbligato, che, in ragione dell’indicato effetto retroattivo della pronuncia giurisdizionale, continua ad essere quello di Desio, in quanto Comune di residenza della Abbondi al momento dell’inserimento nella struttura.
Ne deriva che il ricorso è stato ritualmente proposto nei confronti del Comune di Desio, con conseguente infondatezza dell’eccezione in esame.
3) Sono fondate e presentano carattere assorbente, in quanto dotate di portata sostanziale, le censure articolate con il secondo e il terzo dei motivi proposti, che, essendo strettamente connessi sul piano logico e giuridico, possono essere trattati congiuntamente.
La ricorrente lamenta l’illegittimità della scelta dell’amministrazione siccome basata sulla previsione regolamentare che consente l’intervento dell’ente locale solo dopo l’assunzione dell’impegno al pagamento della retta da parte degli obbligati alimentari.
Sul piano fattuale non è dubitabile che quella ora indicata sia la ragione della interruzione del pagamento disposto dall’amministrazione, giacché – come già evidenziato – l’atto impugnato richiama espressamente la disciplina regolamentare locale e, inoltre, l’amministrazione con nota del 20.04.2009 (doc. 3 di parte resistente) aveva prospettato, con un atto istruttorio teso a provocare il contraddittorio con gli interessati, che l’assunzione della retta da parte dell’ente locale, ovvero la sua integrazione, era condizionata dalla mancanza di parenti tenuti agli alimenti o dall’insufficienza della partecipazione economica effettuata da costoro, evidenziando che la condizione economica degli obbligati alimentari della Abbondi era mutata, in quanto risultavano proprietari di due alloggi.
Del resto, anche il più recente regolamento comunale di disciplina per la concessione di contributi economici a persone fisiche (doc. 2 di parte ricorrente) dispone, all’art. 17, che il richiedente per accedere alla prestazione deve dimostrare di avere preventivamente richiesto gli alimenti agli obbligati e deve presentare "idonea dichiarazione dei tenuti per legge attestante l’impegno a partecipare al progetto di aiuto, secondo le rispettive possibilità economiche, da definire successivamente sulla base del minimo vitale".
Insomma, la determinazione amministrativa impugnata, applicativa delle richiamate norme regolamentari, si basa sulla previsione dell’obbligo dei soggetti tenuti agli alimenti di partecipare alle spese di ricovero del familiare, ma tale previsione contrasta con l’indisponibilità dell’obbligazione alimentare medesima, nonché con la considerazione che la presenza degli obbligati alimentari non può costituire motivo di rifiuto della prestazione sociale in favore del soggetto bisognoso di assistenza, né può assumere rilievo quale criterio di selezione dei beneficiari.
In proposto il Collegio non condivide le conclusioni raggiunte da CdS n. 1067/11 e ritiene di dover ribadire il proprio diverso convincimento.
Al riguardo si rende necessaria una preventiva ricostruzione del quadro normativo di riferimento, tenendo presente il riparto della funzione legislativa nelle materie de qua emergente dall’art. 117 Cost., nel testo introdotto dalla legge cost. 2001 n. 3.
La materia dei servizi sociali non è elencata né nell’art. 117, comma 2, Cost., relativo agli ambiti di legislazione statale esclusiva, né nel comma 3 del medesimo art. 117, relativo agli ambiti di legislazione regionale concorrente – tra i quali va invece compresa la "tutela della salute" – sicché l’ambito dei servizi sociali va ricondotto alle materie di legislazione esclusiva regionale, ai sensi del comma 4 dell’art. 117 Cost., ove si prevede che spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (cfr. Corte Cost., 30 aprile 2009, n. 124).
Il giudice costituzionale ha precisato che, anche a seguito della riforma del titolo V, resta fermo che per la delimitazione della nozione di "servizi sociali" è necessario fare riferimento, in primo luogo, alla legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), la quale, all’art. 1, comma 1, nel fissare i principi generali e la finalità perseguite, afferma che "la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione".
Il comma 2 del medesimo articolo precisa che per "interventi e servizi sociali si intendono tutte le attività previste dall’articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112" (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Il richiamato decreto legislativo n. 112 del 1998, agli artt. da 128 a 134, disciplina le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla materia dei servizi sociali e, al comma 2 dell’art. 128, specifica che con tale nozione si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno o di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
La Corte Costituzionale ha messo in luce l’esistenza di un "nesso funzionale tra i servizi sociali, quali che siano i settori di intervento (ad esempio famiglia, minori, anziani, disabili) e la rimozione o il superamento di situazioni di svantaggio o di bisogno, per la promozione del benessere fisico e psichico della persona" (cfr. Corte costituzionale, 28 luglio 2004, n. 287).
La materia dei servizi sociali si presta ad interferenze da parte del legislatore statale, in esercizio della competenza che gli spetta in via esclusiva in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2 lett. m), Cost.; in particolare, la competenza esclusiva in quest’ultima materia attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di un’adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto.
La Corte Costituzionale ha posto in luce che la conseguente forte incidenza sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regione e delle Province autonome impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori (cfr. Corte costituzionale, 27 marzo 2003, n. 88).
Ne deriva che nella materia in esame la competenza legislativa esclusiva delle Regioni incontra comunque il limite della disciplina dettata dal legislatore statale nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che anche in tale ambito devono essere assicurati.
Occorre allora portare l’attenzione sul quadro normativo delineato dal legislatore statale, anche se anteriore alla riforma del Titolo V della Costituzione.
Il quadro normativo si compone, a livello statale, oltre che della legge 2000 n. 328, anche del d.l.vo 1998 n. 109; in tal senso, proprio l’art. 25 della n. 328/2000 specifica che "ai fini dell’accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la verifica della condizione economica del richiedente è effettuata secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio 2000, n. 130."
Gli artt. 1, 2 e 3 del d.l.vo 31 marzo 1998, n. 109 individuano criteri unificati di valutazione della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni o servizi sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o comunque collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche.
Il comma 1 dell’art. 1 del decreto n. 109 specifica che le disposizioni si applicano "alle prestazioni o servizi sociali e assistenziali, con esclusione della integrazione al minimo, della maggiorazione sociale delle pensioni, dell’assegno e della pensione sociale e di ogni altra prestazione previdenziale, nonché della pensione e assegno di invalidità civile e delle indennità di accompagnamento e assimilate".
Il successivo art. 2, comma 1, individua nell’I.S.E.E. – indicatore della situazione economica equivalente – il criterio di valutazione della situazione economica del richiedente, che va determinata con riferimento alle informazioni relative al nucleo familiare cui egli appartiene.
Insomma, il legislatore valorizza la capacità economica del richiedente, ma solo nel quadro dell’I.S.E.E. rapportato al suo nucleo familiare, mentre il successivo comma 2 dell’art. 2 specifica che ai fini della disciplina in esame "ciascun soggetto può appartenere ad un solo nucleo familiare. Fanno parte del nucleo familiare i soggetti componenti la famiglia anagrafica. I soggetti a carico ai fini I.R.P.E.F. fanno parte del nucleo familiare della persona di cui sono a carico. I coniugi che hanno la stessa residenza anagrafica, anche se risultano a carico ai fini I.R.P.E.F. di altre persone, fanno parte dello stesso nucleo familiare. Il figlio minore di 18 anni, anche se risulta a carico ai fini I.R.P.E.F. di altre persone, fa parte del nucleo familiare del genitore con il quale convive".
Il comma 4 definisce l’indicatore della situazione economica equivalente come la somma di valori reddituali e patrimoniali, da combinare tra loro in base a predeterminate percentuali e secondo le previsioni della tabella 1 allegata al decreto.
Inoltre, il comma 6 dell’art. 2 stabilisce che "Le disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti ai sensi dell’art. 433 del codice civile e non possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione agli enti erogatori della facoltà di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata".
L’art. 3 riserva uno spazio di disciplina agli enti locali in sede di definizione dei parametri per l’accesso ai servizi, stabilendo che gli enti erogatori possono prevedere, ai sensi dell’articolo 59, comma 52, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, accanto all’indicatore della situazione economica equivalente "criteri ulteriori di selezione dei beneficiari".
Con riferimento alle prestazioni che devono essere garantite sull’intero territorio nazionale, nel contesto del sistema integrato di interventi e servizi sociali, l’art. 2 della legge 2000 n. 328 prescrive che tale sistema ha carattere di universalità, con la precisazione, da un lato, che il sistema "garantisce i livelli essenziali di prestazioni", dall’altro, che gli enti locali, le Regioni e lo Stato devono attuarlo nel rispetto dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali.
Il successivo art. 22 della legge n. 328 individua in che cosa consistono i livelli essenziali delle prestazioni nella materia de qua, erogabili sotto forma di beni e servizi, comprendendovi tra l’altro – comma 2 lett. g) – gli " interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio".
Il comma 4 dell’art. 22 elenca poi alcune prestazioni la cui erogazione deve essere prevista dalle leggi regionali, tra le quali – lettere c), d), e) – l’assistenza domiciliare; l’istituzione di strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali, nonché l’attivazione di centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.
Il quadro normativo ora descritto, derivante dal coordinamento tra il d.l.vo 1998 n. 109 e la legge 2000 n. 228, pur essendo anteriore alla riforma del titolo V è coerente con il già ricordato riparto della funzione legislativa tra lo Stato e le Regioni risultante dal vigente art. 117 Cost..
Difatti, nel settore in esame il legislatore statale ha limitato il proprio intervento alla sola definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, lasciando gli ulteriori profili di disciplina alla legislazione regionale.
Pertanto, la normativa richiamata, anche se anteriore alla modificazione costituzionale, rimette in concreto alle Regioni la disciplina legislativa della materia dei servizi sociali, consentendo allo Stato di incidervi solo in sede di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Occorre però precisare che la determinazione di siffatti livelli non comprende solo la specificazione delle attività e dei servizi da erogare, in quanto è del tutto coerente ritenere che anche la definizione dei criteri di accesso a questi benefici integri un livello essenziale di prestazioni da garantire in modo uniforme sull’intero territorio nazionale.
In particolare, se la legge considera una certa attività o un determinato servizio di natura essenziale, imponendone l’erogazione in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, la realizzazione di questo obiettivo postula che tutti gli interessati possano accedere in condizioni di parità a simili prestazioni.
Pertanto, è necessario che il criterio in forza del quale vengono selezionati i soggetti destinatari di prestazione ritenute essenziali dal legislatore statale sia definito una volta per tutte proprio dal legislatore statale, in quanto esprime, a sua volta, un livello essenziale di prestazione da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale.
In altre parole il criterio di individuazione dei soggetti aventi diritto a prestazioni ritenute essenziali dalla legge statale non può essere diverso da un territorio regionale all’altro, in quanto ciò provocherebbe un diverso trattamento tra persone oggettivamente nelle stesse condizioni, sicché, pur a parità di condizioni, la stessa prestazione, essenziale in base alla legge, sarebbe accessibile per alcuni e non per altri.
Diversamente opinando si renderebbe inutile l’individuazione stessa di determinati servizi ed attività come prestazioni essenziali, da garantire in quanto tali in modo omogeneo ed uniforme su tutto il territorio nazionale, atteso che tale esigenza di uniformità sarebbe vanificata dalla possibilità di introdurre diversi criteri di accesso alle prestazioni.
Va, pertanto, ribadito che i criteri stabiliti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, essendo funzionali all’accesso alle attività e ai servizi essenziali delineati dalla legge 2000 n. 328 (sul punto si richiama ancora l’art. 25 della legge n. 328), sono preordinati al mantenimento di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 117, comma 2 lettera m), Cost., sicché integrano essi stessi un livello essenziale di prestazione, la cui definizione spetta al legislatore statale (cfr. simili conclusioni sono coerenti con le considerazioni svolte da C.d.S., sez. cons. atti norm., 29 agosto 2005, n. 4699/03, nonché C.d.S., sez. V, ord. 14 settembre 2009, n. 4582).
Naturalmente spetta al legislatore statale stabilire anche il limite entro il quale l’individuazione di un criterio selettivo integra un livello essenziale delle prestazioni, nel senso che non è da escludere che il legislatore nazionale, una volta fissato il criterio fondamentale, riconosca alle Regioni uno spazio di intervento destinato a rendere coerente l’uniformità del criterio con le specificità delle singole realtà territoriali.
E’ evidente che eventuali regole di accesso ai servizi lasciate al legislatore regionale, o alla potestà amministrativa degli enti locali, nei termini ora precisati, non integrano livelli essenziali delle prestazioni, ma sono solo strumenti di adeguamento locale del criterio fissato in modo omogeneo ed uniforme dal legislatore statale.
Il criterio generale di selezione esplicitato dal d.l.vo 1998 n. 109 – da ricondurre perciò al novero dei livelli essenziali di prestazioni – è, come già ricordato, l’indicatore della situazione economica equivalente, ossia un parametro basato su fattori reddituali e patrimoniali riferibili all’interessato e al suo nucleo familiare, come definito dall’art. 2, commi 2 e 3, del d.l.vo n. 109.
Da quanto sinora esposto discendono due conseguenze.
In primo luogo va osservato che l’art. 3, comma 1, del decreto 109, nella parte in cui attribuisce agli enti locali la facoltà di prevedere, accanto all’indicatore della situazione economica equivalente, "criteri ulteriori di selezione dei beneficiari", va inteso nel senso che consente di attribuire rilevanza a fattori diversi da quelli reddituali o patrimoniali, per i quali il limite della rilevanza è stato definito dal legislatore statale in sede di determinazione del parametro I.S.E.E., la cui applicazione per l’accesso ai servizi esprime di per sé un livello essenziale di prestazioni da applicare in modo uniforme.
Gli enti locali potranno valorizzare elementi di vario tipo, collegati alle peculiarità sociali di una determinata zona, ma non potranno introdurre ulteriori criteri fondati su elementi reddituali o patrimoniali, in quanto ciò determinerebbe un’alterazione irragionevole dell’assetto voluto dal legislatore statale che ha scelto di valorizzare questi elementi solo nel quadro dell’indicatore della situazione economica equivalente (cfr. in argomento Tar Lombardia Milano, sez. I, 07 febbraio 2008 n. 303; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 02 aprile 2008, n. 350; Tar Umbria, 06 febbraio 2002, n. 271).
Inoltre, la circostanza che il legislatore abbia valorizzato la capacità economica e patrimoniale solo nel quadro degli elementi costitutivi dell’I.S.E.E. e solo in relazione al nucleo familiare definito dall’art. 2, commi 2 e 3, del d.l.vo 1998 n. 109, esclude che gli enti locali possano tenere in considerazione la capacità economica di soggetti non appartenenti a tale nucleo, sempre ai fini dell’accesso alle prestazioni essenziali e della determinazione dei costi gravanti sull’utente.
In particolare, non può essere valorizzata la presenza di eventuali obbligati alimentari che non siano riconducibili ai soggetti da considerare necessariamente ai fini dell’I.S.E.E., altrimenti si introdurrebbero criteri ulteriori di apprezzamento della capacità economica dell’interessato, al di fuori del nucleo familiare I.S.E.E., diversi da Comune a Comune e perciò tali da creare una irragionevole disparità di trattamento tra persone che versano nelle stesse condizioni.
Ecco allora che la presenza di soggetti riconducibili al novero degli obbligati alimentari non può integrare, direttamente o indirettamente, un parametro per l’accesso ai servizi, in quanto si traduce nella valorizzazione della capacità economica di soggetti estranei al meccanismo di funzionamento dell’I.S.E.E., individuato dal legislatore statale come criterio uniforme in ambito nazionale per l’accesso ai servizi.
Simili valutazioni trovano conforto nel trattamento che il d.l.vo 1998 n. 109 riserva agli obbligati alimentari nel contesto della complessiva disciplina dettata in materia.
Invero, il già ricordato art. 2, comma 6, del d.l.vo 1998 n. 109 esclude che le descritte regole di accesso ai servizi modifichino la disciplina dei soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti, ai sensi dell’art. 433 c.c., precisando che agli enti erogatori non spetta la facoltà di cui all’articolo 438, primo comma, c.c. nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata.
Tale previsione esclude che le Regioni possano intervenire sulla disciplina dell’obbligazione alimentare di cui all’art. 433 c.c., modificando i caratteri del credito alimentare, che rimane, pertanto, un diritto strettamente personale ed indisponibile, secondo un assetto coerente, anche per il profilo in esame, con il novellato Titolo V della Costituzione, che ex art. 117, comma 2 lett. l), riserva la materia "ordinamento civile" alla legislazione statale esclusiva.
Ovviamente, in tale ambito anche la potestà regolamentare spetta allo Stato, ex art. 117, comma 6, Cost., sicché neppure gli enti locali possono incidere sui caratteri del credito alimentare in esercizio dei poteri normativi di secondo grado di cui sono titolari.
Pertanto, resta fermo che il credito alimentare, di natura personale, non può essere oggetto di azione surrogatoria da parte dei creditori dell’avente diritto (come emerge dal combinato disposto degli art. 438, comma 1 e dell’art. 2900 c.c.), il quale non può disporre del proprio credito, che, difatti, non può essere ceduto, né fatto oggetto di compensazione, ex art. 447 c.c.; del resto, il credito alimentare neppure si estingue per prescrizione, atteso che l’art. 2948, n. 2, c.c. prevede la prescrizione quinquennale solo per le annualità scadute.
In coerenza con la generale preclusione dell’azione surrogatoria, l’art. 2, comma 6, del d.l.vo 1998 n. 109 esclude che gli enti erogatori possano sostituirsi al richiedente la prestazione sociale agevolata, azionando il credito alimentare verso i componenti del suo nucleo familiare.
Ne deriva che, da un lato, la preventiva attivazione del credito alimentare da parte dell’interessato non può integrare un criterio di accesso ai servizi, perché ciò contrasterebbe con la immutata natura personale del credito alimentare, dall’altro, la presenza di obbligati alimentari non giustifica la valorizzazione di parametri economici ulteriori, legati al reddito o al patrimonio di questi soggetti, perché comporterebbe l’introduzione di un parametro di accesso ai servizi di matrice economica ma estraneo al criterio fissato in modo uniforme dal legislatore statale, infine, gli enti erogatori non possono surrogarsi al richiedente e far valere il credito alimentare che quest’ultimo decide di non azionare.
Occorre ulteriormente precisare che l’impossibilità per gli enti locali di valorizzare, nei termini suindicati, la presenza di obbligati alimentari, ai fini dell’accesso ai servizi, ha portata generale, perché è connessa alla ricordata natura personale del credito alimentare – sottratta ad interventi normativi regionali o locali – sicché attiene a tutti i servizi disciplinati dalla legge 2000 n. 328 e non solo a quelli espressamente considerati dal legislatore statale come livelli essenziali di prestazioni.
In relazione alla normativa dettata in materia dalla Regione Lombardia, va rilevato che l’art. 8, comma 3, della legge reg. 2008 n. 3 è coerente con il quadro sinora delineato, in quanto stabilisce che "Le persone che accedono alla rete partecipano, in rapporto alle proprie condizioni economiche, così come definite dalle normative in materia di Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) e nel rispetto della disciplina in materia di definizione dei livelli essenziali di assistenza, alla copertura del costo delle prestazioni mediante il pagamento di rette determinate secondo modalità stabilite dalla Giunta regionale, previa consultazione dei soggetti di cui all’articolo 3 e sentita la competente commissione consiliare. Partecipano altresì i soggetti civilmente obbligati secondo le modalità stabilite dalle normative vigenti".
In particolare, con riguardo ai criteri economici di accesso ai servizi e, quindi, anche per la determinazione della quota di costo da porre a carico degli utenti, la legge regionale richiama integralmente sia la disciplina dei livelli essenziali di assistenza, sia il criterio I.S.E.E., quale parametro per la determinazione della situazione economica di ciascun soggetto che chiede di accedere ai servizi.
Pertanto, la legge regionale rispecchia il quadro costituzionale già descritto, perché rinvia alla normativa statale sia in relazione ai livelli essenziali delle prestazioni, sia in relazione al criterio economico di accesso ai servizi e di riparto dei costi, stabilito in modo uniforme dal legislatore statale.
L’ulteriore inciso con il quale si prevede che "partecipano altresì i soggetti civilmente obbligati secondo le modalità stabilite dalle normative vigenti" non è in contrasto con il quadro normativo descritto, in quanto la legge regionale non ha disposto la necessaria partecipazione ai costi del servizio da parte degli obbligati alimentari, ma ha introdotto una norma di rinvio, che consente la partecipazione degli obbligati alimentari nella misura in cui ciò sia consentito dalla normativa vigente.
Tuttavia, la normativa vigente è quella statale, ai sensi degli artt. 433 e seg. c.c. e dell’art. 2, comma 6, del d.l.vo 1998 n. 109, la quale non consente agli enti locali né di subordinare l’accesso ai servizi alla preventiva attivazione del credito alimentare, né di parametrare il costo del servizio gravante sull’utente alla capacità economica degli obbligati alimentari, né di surrogarsi al richiedente pretendendo il pagamento di una parte dei costi da parte degli obbligati alimentari.
Pertanto, per il profilo in esame la norma regionale non si presta a supportare l’introduzione di criteri che ai fini dell’accesso ai servizi o della quantificazione dei costi gravanti sull’utente valorizzino la presenza di obbligati alimentari.
Del resto, il Tribunale ha già precisato che il d.l.vo 1998 n. 109 contiene la definizione di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, fissando i parametri di determinazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (I.S.E.E.) e utilizzando a tale fine le informazioni relative al nucleo familiare di appartenenza, fermo restando però che i criteri di calcolo dell’I.S.E.E. servono per individuare "il reddito dell’avente diritto alla prestazione con riferimento al reddito familiare, ma non per considerare obbligati alle spese anche altri familiari", sicché obbligato al pagamento è il richiedente "anche se il suo reddito viene calcolato con riferimento alla situazione familiare" (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. I, 07 febbraio 2008, n. 291; sul punto si veda anche Tar Brescia, sez. I, 08 luglio 2009, n. 1457).
Le considerazioni ora svolte evidenziano la fondatezza della censura in esame, in quanto le determinazioni impugnate si fondano sulla previsione dell’obbligo dei soggetti tenuti agli alimenti di partecipare al pagamento della retta prevedendo il coinvolgimento del Comune solo per la parte residua, ma tali determinazioni, da un lato, contrastano con i limiti che il potere regolamentare comunale incontra nella materia de qua, secondo quanto già precisato, dall’altro, violano il principio normativo dell’indisponibilità dell’obbligazione alimentare.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza delle doglianze esaminate, la cui portata sostanziale consente di prescindere dall’esame delle ulteriori censure articolate nel ricorso.
4) Viceversa, deve essere respinta la domanda di accertamento proposta nel ricorso, in quanto il coinvolgimento di altri soggetti nel pagamento della retta dipende dalla posizione che assumono in relazione al nucleo familiare dell’interessato come determinato dalla richiamata normativa ai fini ISEE e tale valutazione è rimessa all’accertamento dell’amministrazione comunale, che dovrà, in ragione dell’effetto conformativo della sentenza, uniformarsi ai criteri già esplicitati in motivazione.
5) In definitiva, il ricorso è parzialmente fondato e merita accoglimento nei limiti dianzi esposti.
La particolare complessità, sul piano fattuale e giuridico, della controversia in esame consente di ravvisare giusti motivi per compensare tra le parti le spese della lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando, accoglie in parte il ricorso e per l’effetto:
1) annulla la determinazione del Comune di Desio datata 10.03.2010 con la quale l’amministrazione ha interrotto l’esecuzione delle prestazioni economiche già assicurate in relazione alla collocazione dell’interessata in ambito residenziale;
2) annulla, nei limiti di quanto esposto in motivazione, le impugnate disposizioni dell’art. 17 del regolamento del Comune di Desio approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 50 datata 06.07.2009;
3) respinge la domanda di accertamento contenuta nel ricorso;
4) compensa tra le parti le spese della lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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