Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 09-06-2011) 30-06-2011, n. 25800

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Palermo, con sentenza in data 22.6.2009, confermava la sentenza del Tribunale di Agrigento, in data 5/5/2004, appellata da C.A., A.G., G. A., O.G., dichiarati colpevoli di usura, violenze e minacce aggravate, il C. anche di estorsione per aver minacciato di morte T.C., costringendolo a vendere un immobile di proprietà della sua famiglia del valore di oltre L. 100 milioni, per L. 48 milioni di lire a tale N. F., facendosi quindi consegnare 44 milioni di lire a saldo del capitale e di interessi usurari, e condannati alle seguenti pene:

C.A., anni due, mesi quattro di reclusione e Euro 7000 di multa; A.G., anni uno, mesi otto di reclusione e Euro 5000 di multa; G.A., anni uno, mesi otto di reclusione e Euro 5000 di multa; O.G., mesi otto di reclusione.

Proponevano ricorso per cassazione G.A. e i difensori degli altri imputati.

G.A. deduceva i seguenti motivi:

a) erronea applicazione di leggi e vizio di motivazione con riferimento alla affermazione di responsabilità fondata sugli esiti di una sporadica frequentazione del ricorrente nell’officina del V., presunta vittima del reato o usura, stante anche la mancanza di prova del reato di usura, dovendo tenersi inattendibili le dichiarazioni della parte offesa;

b) violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento al reato di violenza o minaccia mancando l’idoneità delle frasi pronunciate ("non fare carognate…, altrimenti faccio scoppiare la terza guerra mondiale") a turbare la libertà della parte offesa;

c) prescrizione del reato in quanto il presunto "accordo" usurario risale al 1997, mentre non si è raggiunta alcuna prova dei vari pagamenti e in particolare, nell’ultima dazione di denaro che il V. avrebbe corrisposto al G..

Il difensore di A.G. e O.G. deducevano i seguenti motivi comuni:

a) insufficienza e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui afferma la responsabilità penale dei prevenuti; b) insufficiente motivazione circa il diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Nell’interesse del solo A.G. veniva denunciata anche l’inosservanza e mancata applicazione la legge penale in relazione all’art. 611 c.p. in mancanza, nella motivazione della sentenza impugnata, di alcuna condotta violenta o minacciosa imputabile al ricorrente. Il difensore di C.A. deduceva i seguenti motivi:

a) insussistenza del reato di minacce aggravate (lettera a1) avendo la parte offesa escluso, all’udienza del 19/6/2002, di aver ricevuto minacce da alcuno e, comunque, intervenuta prescrizione del reato;

b) violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità del ricorrente per il reato di usura (lettera c), avendo omesso la Corte territoriale l’esame delle dichiarazioni rese da T.C., nel corso del giudizio di primo grado, all’udienza del 15/1/2001, in contrasto con le dichiarazioni rese davanti alla Corte di appello di Palermo, all’udienza del 7/5/2007, trattandosi, peraltro, di soggetto in condizioni psico-fisiche precarie;

c) violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento al diniego delle attenuanti generiche e alla richiesta riduzione della pena nel minimo edittale, stante l’incensuratezza del ricorrente.

Motivi della decisione

Tutti i ricorsi sono manifestamente infondati e vanno dichiarati inammissibili. 1) Con riferimento al primo motivo ricorso di G. A. è indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che a base del libero convincimento del giudice possono essere poste le dichiarazioni della parte offesa (Cass., sez. 3, 5 marzo 1993, Russo, m. 193862; Cass., sez. 4, 26 giugno 1990, Falduto, m. 185349) che, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere anche da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva (Cass., sez. 1, 28 febbraio 1992, Simbula, m. 189916;

Cass., sez. 6, 20 gennaio 1994, Mazzaglia, m. 198250; Cass., sez. 2, 26 aprile 1994, Gesualdo, m. 198323; Cass., sez. 6, 30 novembre 1994, Numelter, m. 201251; Cass., sez. 3, 20 settembre 1995, Azingoli, m.

203155), non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità (Cass., sez. 6, 13 gennaio 1994, Patan, m. 197386, Cass., sez. 4, 29 gennaio 1997, Benatti, m. 206985, Cass., sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini, m. 208912, Cass., sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini, m. 208913, Cass., sez. 2, 13 maggio 1997, Di Candia, m.

208229, Cass., sez. 1, 11 luglio 1997, Bello, m. 208581, Cass., sez. 3, 26 novembre 1997, Caggiula, m. 209404). A tali dichiarazioni, invero, non si applicano le regole di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che riguardano le propalazioni dei coimputati del medesimo reato o di imputati in procedimenti connessi o di persone imputate di un reato collegato e che presuppongono l’esistenza di altri elementi di prova unitamente ai quali le dichiarazioni devono essere valutate per verificarne l’attendibilità.

Nel caso di specie i Giudici di merito hanno sottoposto ad attento controllo le dichiarazioni della vittima, valutate nel contesto delle emergenze processuali, ed estendendo il vaglio anche ad altri elementi (quali il riscontro del prestito di L. 2 milioni al V. da parte di G.A., risultante dall’agenda rinvenuta nell’officina del V. e l’impegno a pagare a ciascuno dei tre correi la somma di Euro 400 mensili, per più di un anno) che, pur se giuridicamente non necessari, è stato ritenuto corroborassero ab extemo il contenuto delle propalazioni accusatorie, avendo la stessa vittima chiarito, con riferimento a fatti specifici concreti, senza alcuna enfasi persecutoria, come i correi mantenessero nei suoi confronti un costante atteggiamento personale di controllo e condizionamento.

Anche le censure formulate con riferimento al reato di minaccia aggravata appaiono manifestamente infondate, essendo stata ritenuta dei primi giudici l’idoneità delle frasi pronunciate dal ricorrente ("non fare carognate…, altrimenti faccio scoppiare la terza guerra mondiale") a turbare la libertà della parte offesa, stante le particolari condizioni ambientali e personali evidenziati dalla Corte idonei a ritenere la volontà della parte offesa pesantemente condizionata dalle pressioni e minacce del ricorrente.

2) Le medesime considerazioni con riferimento all’attendibilità della parte offesa valgono con riferimento alle censure mosse dai ricorrenti A.G., O.G. e C. A. relative alla ritenuta erronea sussistenza dei delitti di usura e minacce aggravata, considerato che, con riferimento alla reato di minacce aggravato non solo assumono rilevanza le dichiarazioni rese dalla parte offesa ma anche le deposizioni degli operanti che hanno proceduto agli appostamenti e hanno avuto modo di verificare sia il comportamento degli imputati che quello delle vittime. Del resto la minaccia idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 611 c.p. può estrinsecarsi nelle forme più diverse ed anche in maniera del tutto larvata, specialmente in certi ambienti dove anche la "presenza silenziosa" può svolgere uno effetto intimidatorio, purchè il comportamento o l’atteggiamento dell’agente sia idoneo ad esercitare una pressione psicologica e a incidere nella sfera della libertà del soggetto passivo onde costringerlo a fare od omettere qualcosa.

In particolare, legittimamente è stata ritenuta la minaccia idonea alla configurazione del reato, in concorso con altro soggetto desunta dall’atteggiamento personale dell’agente, in considerazione delle speciali condizioni ambientali e personali delle parti, rimanendo condizionata la libertà morale della vittima dall’aver agito i correi in concorso materiale, raggiungendo la vittima sul posto di lavoro, invitandola a seguirli in un posto "appartato", condotta idonea a coartare la volontà della parte offesa. Con riferimento al delitto di usura ascritto a O.G., deve premettersi che, nella verifica della consistenza dei rilievi critici mossi dal ricorrente, la sentenza della Corte territoriale non può essere valutata isolatamente ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, sviluppandosi entrambe secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, di talchè – sulla base di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – deve ritenersi che la motivazione della prima si saldi con quella della seconda fino a formare un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile (cfr.

Cass., Sez. Un., 4 febbraio 1992, Ballan ed altri e, da ultimo, Sez. 1A, 21 marzo 1997, Greco ed altri; Sez. 1A, 4 aprile 1997, Proietti ed altri). Ciò posto, deve rilevarsi come nella sentenza di primo grado (pag. 14-16 sent. Trib.) evidenziati tutti gli elementi idonei a fondare la declaratoria di responsabilità con riferimento anche alla delitto di usura in danno di R.D.. Con riferimento alla posizione di C.A. la Corte territoriale, a seguito della nuova escussione di T.C. ha ritenuto accertato che l’appartamento di proprietà dei genitori del T. è stato venduto sottocosto a circa la metà del reale valore (L. 48 milioni a fronte di un valore di circa L. 100 milioni, in base a una stima di mercato da parte dei Carabinieri) al fine di poter disporre in tempi celeri della somma necessaria a pagare e il "prestito" fatto dal C. al T., che veniva sollecitato quotidianamente al pagamento.

Anche il teste N.F. ha confermato, all’udienza del 18/6/2003, che la cessione dell’appartamento è stata conclusa in brevissimo tempo essendo stata sollecitata con urgenza.

L’utilizzazione della fonte di prova, tutti gli imputati, è stata, quindi, condotta dai Giudici del merito nella corretta osservanza delle regole di giudizio che disciplinano la valutazione della testimonianza delle persone offese dal reato e con adeguata motivazione, che si sottrae a censura in questa sede. è appena il caso di aggiungere che l’esattezza delle suddette valutazioni, non può formare oggetto di contestazione in questa sede, essendo notoriamente preclusi alla Corte di legittimità l’esame degli elementi fattuali e l’apprezzamento fattone dal giudice del merito al fine di pervenire al proprio convincimento. In conclusione si tratta di reiterazione delle difese di merito ampiamente e compiutamente disattese dai giudici di secondo grado, oltre che censura in punto di fatto della sentenza impugnata, inerendo esclusivamente alla valutazione degli elementi di prova ed alla scelta delle ragioni ritenute idonee a giustificare la decisione, cioè ad attività che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto, come nel caso in esame, da adeguata e congrua motivazione esente da vizi logico-giuridici. Dalla ritenuta attendibilità dell’accusa e dal riscontro con gli ulteriori elementi probatori evidenziati, discende, quindi, l’esatta affermazione della sussistenza dei contestati delitti, i cui elementi costitutivi sono stati tratti dalle dichiarazioni delle parti offese.

Gli argomenti proposti dal ricorrente costituiscono, in realtà, solo un diverso modo di valutazione dei fatti, ma il controllo demandato alla Corte di cassazione, è solo di legittimità e non può certo estendersi ad una valutazione di merito.

3) Manifestamente infondata è l’eccezione di prescrizione relativa al reato di usura ascritto al G..

Essendo stata la sentenza di primo grado emessa in data 5/5/2004, sono applicabili le previgenti disposizioni sulla durata della prescrizione del reato. Sul punto questo Supremo Collegio ha costantemente affermato il principio, condiviso dal Collegio, che in tema di prescrizione del reato, la disciplina transitoria prevista dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, nella parte in cui esclude per i processi già pendenti l’applicabilità dei termini che risultino più brevi per effetto delle nuove disposizioni, va interpretata nel senso che l’esclusione investe tutte le disposizioni che comunque comportino una abbreviazione dei termini. (Sez. 3, Sentenza n. 15177 del 14/02/2007 Ud. – dep. 16/04/2007 – Rv. 236813).

Con la vecchia normativa, considerato l’aumento per l’aggravante, il reato, si prescrive in 15 anni (anni 10 + anni 5 per le cause interattive) a cui vanno aggiunti mesi 8, gg. 26, per rinvii dovuti alla astensione avvocati. Essendo stato il reato commesso dall’inizio del (OMISSIS), non risulta ancora decorso il termine prescrizionale.

Parimenti, infondata è l’eccezione di prescrizione del reato di minaccia aggravata ai fini di commettere un reato ( art. 611 c.p.), contestato a C.A. al capo a1).

Infatti in base alla vecchia normativa, anche tale reato si prescrive in anni 15, termine non ancora decorso dall’epoca del commesso reato ((OMISSIS)). Peraltro, essendo il ricorso inammissibile, la data da prendere in considerazione per verificare se tale causa di estinzione del reato si sia verificata, è quella della decisione della sentenza di secondo grado e cioè il 22.06 2009.

Manifestamente infondate, infine, appaiono le censure sul diniego delle attenuanti generiche e sull’entità della pena inflitta, formulate da tutti gli imputati, avendo i giudici di merito correttamente valutato i criteri di cui all’art. 133 c.p. (modalità della condotta criminosa, intensità del dolo, personalità dell’imputato, precedenti penali). Questa suprema Corte ha, d’altronde, più volte affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento. (Si veda ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691). Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte – condivisi dal Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo.

Lo stesso discorso vale, naturalmente, per l’individuazione, da parte del Giudice, della pena da irrogare. La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p.. (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 -Rv. 230278).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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