T.A.R. Veneto Venezia Sez. I, Sent., 04-07-2011, n. 1135 Destituzione e dispensa dall’impiego Procedimento e punizioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente, già ispettore capo della Polizia di Stato, si duole di un provvedimento di destituzione dal servizio disposto nei suoi confronti a seguito di una sentenza ex art. 444 c.p.p. di applicazione della pena di anni uno e mesi otto di reclusione per i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione della propria consorte convivente nonché per abuso d’ufficio e rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio.

Occorre in primo luogo ricordare che in base al combinato disposto delle disposizioni contenute negli artt. 653, nel testo introdotto dalla L. 97/01, e 445 c.p.p., le sentenze di patteggiamento hanno efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e alla affermazione che l’imputato lo ha commesso, dal che deriva che con riguardo all’accertamento dei fatti è assorbente il riferimento al vincolo di giudicato derivante dalla sentenza cosiddetta di patteggiamento (cfr. SS.UU., 9166/08).

Di ciò appare consapevole lo stesso ricorrente, il quale mentre da un lato è costretto ad ammettere (cfr. settimo motivo di gravame) che le sentenze di patteggiamento sono equiparate alle sentenze di condanna, come tali idonee a porre in essere un vincolo particolarmente forte per le amministrazioni (sia pur correttamente osservando che ciò non basta ad esimere le suddette amministrazioni dall’onere di fornire una propria autonoma valutazione dei fatti, del che più oltre) non a caso concentra la propria attenzione al fine di ottenere l’auspicato annullamento della dura sanzione inflittagli essenzialmente su profili formali, dedicando ben sette dei nove motivi di ricorso a censure attinenti a vizi procedurali.

Ciò premesso, ritiene il Collegio di doversi in primo luogo occupare di quella che in sostanza è l’unica doglianza di natura sostanziale mossa dal ricorrente, così come questa risulta articolata in parte del settimo motivo e successivamente nel nono.

Si è accennato al fatto che la novella codicistica introdotta dalla L. 97/01 non esime, si ritiene (anche se a più severe conclusioni sembra arrivare la ricordata sentenza delle SS.UU n. 9166/08) l’Amministrazione dall’onere di fornire una propria autonoma valutazione dei fatti accertati in sede penale in termini di rilevanza disciplinare

Assume in sostanza il ricorrente da un lato che illegittimamente la P.A. in sede di procedimento disciplinare non avrebbe ritenuto necessario verificare documenti e sentire testimoni a lui favorevoli (settimo motivo: anche qui, a ben vedere, muovendosi una doglianza di natura formaleprocedimentale), e dall’altro, nel denunciare un’asserita disparità di trattamento con riguardo ad un collega mantenuto in servizio pur se aveva riportato una condanna di maggiore gravità (tre anni) insistendo nel negare di aver mai intenzionalmente favorito e sfruttato la prostituzione della consorte.

Il ricorrente non può essere seguito.

Nella sua sentenza di applicazione della pena nei confronti del ricorrente per i suddetti reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione nonché di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio (reato quest’ultimo strettamente connesso al primo), il G.I.P. di Verona a tale conclusione era pervenuto dopo aver affermato "che non sussistono le condizioni che consentono il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. ostandovi le in equivoche risultanze istruttorie (in particolare gli esiti delle intercettazioni telefoniche, i servizi di osservazione diretta e ogni altra circostanza indicata nell’ordinanza di custodia cautelare…)".

Ne segue che legittimamente l’Amministrazione (e per essa il funzionario istruttore, come si legge a pag. 6 della relazione conclusiva in data 7 ottobre 2009 inviata al Questore di Verona), per evidenti ragioni di economia giuridica, ha ritenuto, come già era accaduto in sede penale a causa delle suddette "inequivoche risultanze istruttorie" che fosse del tutto inutile acquisire ulteriori documenti e sentire testimoni, ferma restando peraltro, come pure nella ricordata relazione si ha cura di seguito di precisare, la necessità di valutare i fatti, così come questi emergono in modo inequivoco dalle ricordate risultanze istruttorie, a nulla potendo quindi rilevare ora quindi i tardivi tentativi di contestazione del ricorrente, "per la loro autonoma valenza in ottica amministrativa".

Autonoma valenza in ottica amministrativa la quale, dopo una lunga e particolareggiata ricostruzione delle circostanze a carico del ricorrente, si può apprezzare nella parte in cui, rispondendo a due distinti rilievi mossi dal ricorrente medesimo in sede di procedimento disciplinare, da un lato si rileva che dell’asserito ostracismo nei suoi confronti da parte del dirigente l’ufficio (consistente nell’aver impedito, si dice, alla consorte di svolgere una normale attività di lavoro costringendola così a tornare sulla strada) non era stato fatto cenno alcuno a suo tempo in sede di interrogatorio innanzi al P.M., e dall’altro si osserva che in ogni caso le pur ammissibili difficoltà economiche in cui si poteva trovare una famiglia monoreddito non potevano in ogni caso "arrivare ad attenuare e nemmeno a scalfire le gravi responsabilità etiche di chi tollera (e a fortiori di chi sfrutta) il meretricio esercitato dalla propria moglie".Il tutto in contrasto con il senso del decoro e dell’onore che non può non caratterizzare in modo particolare i soggetti appartenenti alla Polizia di Stato (ivi, pag. 13).

Si comprende quindi come a base del disposto provvedimento di destituzione.si imputi al ricorrente di aver tenuto un comportamento particolarmente grave, tale cioè da rivelare mancanza del senso dell’onore, grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento, grave abuso di autorità e fiducia e dolosa violazione dei doveri, con grave pregiudizio per l’Amministrazione di appartenenza: il tutto secondo quanto prevede l’art. 7 DPR n. 737/81 nn. 1), 2), 3), 4).

Quanto poi all’asserita disparità di trattamento per il fatto che altro collega, pur condannato a pena anche più severa (tre anni) in sede penale, ciononostante non è stato ritenuto meritevole della destituzione, è sufficiente osservare che in quel caso la condanna per patteggiamento era stata inflitta per il ben diverso reato di corruzione, evidentemente (e in questa sede insindacabilmente) ritenuto, dal punto di vista disciplinare, meno grave dei reati addebitati al ricorrente, alla luce di quanto dispone l’appena ricordato art. 7 DPR n. 737/81 in ordine ai comportamenti che determinano la sanzione della destituzione (mancanza del senso dell’onore, grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento, grave abuso di fiducia, ecc.)..

Può ora passarsi all’esame delle doglianze relative ai vizi di natura procedimentale dei quali si è detto in precedenza.

Con la prima di queste lamenta il ricorrente la violazione dell’art. 20 c. 2 del DPR n. n. 737/81, per il fatto che non sarebbe stato rispettato il termine di 10 giorni liberi tra la convocazione davanti al Consiglio di disciplina (19 ottobre 2009) e la data della seduta del Consiglio stesso (30 ottobre 2009); e ciò in ragione del fatto che non sarebbe dovuto tener conto della giornata del 27 ottobre, inutilmente trascorsa presso la Questura senza poterla dedicare all’approntamento delle proprie difese per poi sentirsi dire che la seduta era rinviata al 30 (Primo motivo)

La doglianza appare priva di pregio sotto molteplici profili.

Innanzi tutto la norma non impone che i dieci giorni in questione (entro i quali, più esattamente, l’inquisito ha facoltà di chiedere copia degli atti) siano liberi, nel senso (tecnicoprocessuale) che vorrebbe il ricorrente.

In secondo luogo, è certo che il giorno 27 (data originariamente fissata sin dal 13 stesso mese) il presidente del Consiglio di disciplina, a richiesta dell’interessato, il quale aveva chiesto un rinvio asserendo di non aver avuto tempo sufficiente, ha rinviato la seduta al 30 successivo, il che pare contraddire l’affermazione secondo la quale il presidente stesso possa aver detto, contrariamente a quanto si afferma, che non si sarebbe dovuto tener conto del tempo perduto per incombenti il giorno 27.

Infine, non pare neppure vero che di fatto l’interessato nella seduta del giorno 30 ottobre, contrariamente a quanto in tale sede affermato, non avesse comunque avuto il tempo sufficiente per preparare la propria difesa, come dimostra il fatto che non ha ritenuto di dover chiedere un ulteriore rinvio, giacchè, come risulta a verbale, sia personalmente che per voce del suo difensore, ha potuto viceversa esporre con dovizia di particolari le proprie ragioni in fatto e in diritto.

Neppure può essere seguito il ricorrente ove afferma (secondo motivo) che il suo diritto a difesa sarebbe stato compromesso anche dal breve termine concessogli, in data 19 ottobre, per la nomina di un difensore (da scegliere tra gli appartenenti alla stessa Amministrazione) in un momento in cui ancora non conosceva la data della riunione del Consiglio di disciplina.. A prescindere dal fatto che è l’art. 20 DPR n. 737/81 a prevedere per tale adempimento il termine di tre giorni, e che in quello stesso giorno 19 ottobre, contrariamente a quanto sembra sostenersi, al ricorrente risulta notificato l’invito a presentarsi innanzi al Consiglio di disciplina il successivo 27 ottobre, non si comprende come la circostanza possa aver reso difficoltosa ed affrettata la scelta del difensore, tenuto conto che la contestazione di addebito era stata notificata sin dal 19 agosto precedente, allorchè l’interessato era ben in grado di prevedere, data la gravità dell’addebito stesso, la necessità di munirsi di un difensore innanzi al Consiglio di disciplina, e quindi di sceglierlo con la necessaria ponderazione e tempestività.

Con il terzo motivo sostiene poi il ricorrente che sarebbe stato violato l’art. 19 del ricordato DPR n. 737/81 nella parte in viene fissato il termine di 45 giorni dalla nomina del funzionario istruttore per la conclusione dell’inchiesta a questi affidata.

La circostanza è vera in fatto; avuta la nomina l’11 agosto, il funzionario istruttore avrebbe dovuto concludere l’inchiesta il 25 settembre (non il 21, come erroneamente si afferma), mentre invece il deposito degli atti è avvenuto soltanto il 7 ottobre; ed è vero anche la richiesta di proroga, presentata tempestivamente, e cioè il 15 settembre, al questore, non ha avuto formale risposta.

La suddetta circostanza, anche a prescindere dal fatto che la mancata risposta da parte del questore può ragionevolmente essere intesa come consenso tacito, tuttavia, non può assumere carattere determinante, essendo pacifica la giurisprudenza, come rileva la P.A, resistente, nell’affermare il carattere meramente ordinatorio dei termini fissati per la nomina del funzionario istruttore, per il compimento degli incombenti preliminari e per la trasmissione della delibera della Commissione di Disciplina. In particolare ha carattere ordinatorio, e non perentorio contrariamente a quanto si vorrebbe, il termine di 45 giorni per la conclusione dell’inchiesta disciplinare (cfr. per tutte, A.P. n. 10/06;si veda anche VI Sez., n. 2049/10).

Sempre in materia di termini fissati ex lege, questa volta con riguardo al termine finale del procedimento, sostiene ancora il ricorrente (ottavo mezzo) che nella specie il provvedimento di destituzione del 26 novembre sarebbe tardivo (e quindi illegittimo) rispetto ai 90 giorni previsti, a decorrere dalla contestazione di addebito (18 agosto), dall’art. 9 della L. n. 19/90.

La doglianza è infondata per una duplice ragione.

In primo luogo si osserva che nella specie il procedimento disciplinare fa seguito, come ricordato, ad una sentenza dei patteggiamento, il che significa, come la giurisprudenza è costante nell’affermare, a partire da Corte Cost., n. 97/99, che il suddetto termine in tal caso, in forza dei maggiori adempimenti istruttori richiesti alla P.A. rispetto al caso di sentenza di condanna in rito ordinario, non può avere natura perentoria (cfr. anche A.P. n. 10/06, in precedenza ricordata).

In secondo luogo, poi, anche da quanto sopra prescindendo, poiché il suddetto art. 9 L. n. 19/90 prevede la promozione del procedimento entro 180 giorni dalla comunicazione della sentenza irrevocabile, e di seguito, come visto, l’adozione del provvedimento finale entro i successivi 90 giorni, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che i due termini possano cumularsi (cfr. VI Sez. n. 1350/07), con la conseguenza che nella specie in ogni caso il provvedimento impugnato non può ritenersi tardivo (la pronuncia della Cassazione di conferma definitiva della condanna del ricorrente è stata emessa nella camera di consiglio del 29 maggio ed è stata comunicata formalmente nell’agosto successivo, e cioè pochi giorni prima della contestazione di addebito, avvenuta il 18 agosto)

Della natura non perentoria dei termini di cui al DPR n. 737/81, qui nuovamente invocati in alternativa, si è detto in precedenza.

Infine irrilevante appare il richiamo alle disposizioni di cui all’art. 69 del D.L.vo n. 150/09, dato che la normativa in questione riguarda l’organizzazione ed efficienza del normale lavoro pubblico di diritto privato (l’art. 2 rimanda all’art. 2, comma 2, del D:L.vo n. 165/01) con salvezza quindi dei diversi ordinamenti tra i quali quello che riguarda la polizia di stato. E ciò dicesi a prescindere dal fatto che l’invocato termine complessivo di 120 giorni per la durata del procedimento disciplinare di fatto nella specie, come si è visto, risulta rispettato. Priva di pregio in fatto prima ancora che in diritto è poi la censura contenuta nel quarto motivo, ove si sostiene l’erronea composizione della commissione di disciplina per il fatto che, come risulta nell’atto di convocazione da parte del presidente del 9 ottobre, sarebbe composta di cinque membri in luogo dei quattro previsti (oltre al presidente stesso).

Il ricorrente ammette in fatto che uno dei funzionari indicati nel suddetto atto di convocazione (il dott. Tamburrino) è destinato a svolgere le funzioni di segretario (come del resto testualmente risulta dal verbale del 30 ottobre), come tale ovviamente escluso dalle operazioni di voto, né in diritto può attribuirsi ad un mero atto di convocazione della commissione, ivi compreso il segretario, un vizio (mancata espressa indicazione del funzionario tra gli altri destinato a svolgere le funzioni di segretario) semmai, in ipotesi, da attribuirsi soltanto al precedente decreto di costituzione della commissione stessa a firma del questore ai sensi dell’art. 16 citato, decreto peraltro non impugnato, e neppure prodotto in giudizio, ma che comunque, stando a quanto risulta dal suddetto verbale 30 ottobre, nel quale sono elencati in primo luogo i cinque componenti e, di seguito, separatamente, il segretario, deve presumersi immune dal vizio che indimostratamente si vorrebbe. Senza dire anzi che nello stesso giorno 9 ottobre di convocazione della commissione il presidente di questa invitava l’inquisito a presentarsi al segretario dott. Tamburrino, il che di fatto dimostra che questi risultava già individuato come tale molto prima che la commissione si riunisse.

Sulla composizione della commissione si soffermano altre due distinte doglianze azionate nei motivi quinto e sesto

Si sostiene in primo luogo (quinto mezzo)che uno dei commissari sarebbe stato illegittimamente nominato dal questore prima della prevista designazione da parte del sindacato d’appartenenza.

Può ammettersi che uno dei due commissari per i quali l’art. 16 cit. prevede la designazione da parte dai sindacati di polizia sia stato nominato (con atto 9 ottobre) prima della formale comunicazione di designazione, ma è altrettanto certo che l’invito da parte del questore alle segreterie delle organizzazioni sindacali reca la data del giorno prima, 8 ottobre, ed è quindi pienamente credibile quanto asserito dalla difesa dell’Amministrazione resistente, e cioè che la designazione sia stata comunicata tempestivamente per le vie brevi, in considerazione dell’urgenza, salva la formalizzazione successiva: pare infatti evidente che qualora il questore avesse veramente provveduto senza l’indicazione del nominativo designato sarebbe stata la stessa organizzazione sindacale, in luogo di formalizzare la propria designazione, a far valere le proprie rimostranze. Ciò che invece in nessun modo risulta.

In secondo luogo (sesto mezzo) si fa valere un asserito dovere di astensione di due distinti componenti della commissione, in forza del combinato disposto dell’art. 149 del T.U. n. 3/57 e dell’art. 16, comma 13 del DPR n. 737/81, che al detto art. 149 rimanda per il fatto da un lato che un o dei due negli anni "90 era stato oggetto di indagini penali proprio da parte del ricorrente, e, da un altro lato, che un secondo componente aveva pochi mesi prima fatto parte di altra commissione che si era pronunciata nei confronti di altro inquisito, amico e collega del ricorrente condannato insieme a questo per i medesimi reati in unica sentenza di patteggiamento.

Neppure a tale doglianza può attribuirsi determinante consistenza.

In primo luogo, quanto al primo dei due componenti contestati, si osserva che si tratta di una vicende in ordine alla quale non viene fornita prova specifica, per di più risalente ad epoca remota (e conclusasi, si afferma, senza strascichi e cioè con accertamento di innocenza) circostanza dalla quale può ragionevolmente arguirsi che l’eventuale inimicizia allora in ipotesi ingenerata fra i due si sia andata nel tempo vanificando, in assenza di un minimo accenno a fatti successivi..

A prova di quanto sopra, a prova cioè della scarsa convinzione che nutre lo stesso ricorrente sulla fondatezza del rilievo, appare infatti determinante osservare che solo ora, in sede di ricorso, il problema viene sollevato, dato che al contrario nulla risulta al riguardo dalla documentazione relativa al procedimento disciplinare, dato che essenzialmente in quella sede il ricorrente avrebbe semmai dovuto avvalersi del diritto di presentare istanza di ricusazione ai sensi della ricordata disposizione di cui all’art. 16, comma 13, del DPR n. 737/81.

Quanto poi al secondo dei due membri della commissione di cui si adombra la non imparzialità (per il fatto, si ripete, di aver fatto parte della commissione di disciplina che in precedenza si era pronunciata nei confronti di un collega imputato degli stessi fatti e condannato con la stessa sentenza), appare agevole osservare (anche a prescindere dal fatto, anche qui determinante nel senso sopra visto, che nel corso del procedimento disciplinare non è stata chiesta la ricusazione), non si vede come la circostanza addotta possa in qualche modo far sorgere dubbi sulla imparzialità del soggetto, tanto è vero che non rientra neppur vagamente in nessuna delle varie fattispecie previste dall’art. 149 del T.U. n. 3/57. Senza dire che, contrariamente a quanto si afferma, non appare esatto dire che i fatti che hanno portato alla condanna siano gli stessi, dato che dalla documentazione in atti, ed in particolar modo dalle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche fra i due, risultano in molti casi delle sensibili differenze di comportamento, seppur complessivamente ugualmente valutate come meritevoli della sanzione della destituzione..

Esaurito così l’esame delle dedotte censure, il ricorso deve in definitiva essere respinto.

Sussistono valide ragioni per la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

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P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima),

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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