T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 05-07-2011, n. 5923 Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in esame, i ricorrenti O.B., CA.R. e R.R. (a quest’ultimo subentrati, in corso di causa, i suoi eredi L.A. e Rasi Agnese) hanno chiesto l’accertamento del proprio diritto (rispettivamente, iure proprio e iure ereditario) al trattamento economico corrispondente alla qualifica di Assistente Tecnico, VI livello, ex DPR n. 270/1987 con la condanna dell’intimata amministrazione al pagamento delle differenze retributive rivalutate corrispondenti alle superiori mansioni svolte.

In punto di fatto, essi espongono che:

lo svolgimento delle mansioni superiori, consistenti in compiti di smistamento della corrispondenza in arrivo, risulta, per Roberto Rasi, dall’ordine di servizio del 15 settembre 1983, dalla dichiarazione del coordinatore amministrativo in data 8 luglio 1985 e dalla dichiarazione del responsabile del settore AA.GG. in data 8 ottobre 1987;

lo svolgimento delle mansioni superiori presso il CED della USL risulta, per B.O., dalla dichiarazione del responsabile del servizio in data 6 dicembre 1985;

– lo svolgimento delle mansioni superiori, consistenti in attività di collaborazione con il responsabile del settore per la raccolta giornaliera delle richieste di autovetture avanzate dai vari uffici, risulta, per Remo Capizzano dalla dichiarazione del responsabile del settore tecnico in data 4 luglio 1988.

I ricorrenti chiedono il riconoscimento delle superiori mansioni dalle seguenti date:

R.R., dal15/9/1983;

O.B., dal 4/6/1984;

CA.R. dal 6/7/1983.

Gli interessati deducono un unico, articolato motivo di gravame per violazione del DPR n. 761/1979, del DPR n. 348/1983, del DPR n. 821/1984, del DPR n. 270/1987, dei principi generali in relazione all’art. 36 Cost. e dell’art. 2126 c.c. nonché eccesso di potere.

In data 31 gennaio 2011 si è costituita la Regione Lazio che ha depositato, il successivo 1 aprile, memoria difensiva con cui chiede il rigetto del ricorso.

Il 30 marzo 2011 i ricorrenti hanno depositato conclusioni insistendo per l’accoglimento del ricorso.

Il 15 aprile 2011 si sono costituiti in giudizio L.A. e Rasi Agnese in qualità di eredi di R.R..

Si è costituita in giudizio anche la USL RM12 contro la quale è stato instaurato il giudizio.

Alla udienza del 4 maggio la causa è stata trattenuta per la decisione.

Il ricorso è infondato.

I ricorrenti postulano il riconoscimento di mansioni superiori ed allegano, a supporto della domanda, dichiarazioni postume provenienti da organi amministrativi, ricognitivi dell’attività svolta. Il ricorrente Rasi aggiunge alla dichiarazione un ordine di servizio del 1983.

Come seguono le considerazioni del Collegio.

E’ noto che lo svolgimento delle mansioni superiori non dà diritto, in linea di principio, ad alcun riconoscimento giuridico – economico (almeno nel periodo previgente l’entrata in vigore del D.P.R. 387/98).

In particolare, per quanto rileva nel settore della sanità, i presupposti che la giurisprudenza amministrativa ha enucleato per fondare la legittimità del riconoscimento delle differenze retributive in ragione dello svolgimento di funzioni superiori sono i seguenti:

1) la sostituzione del titolare dell’ufficio da parte dell’inferiore gerarchico deve avvenire in occasione di assenze non temporanee;

2) il posto cui le mansioni si riferiscono deve essere necessariamente vacante o disponibile in pianta organica;

3) l’adibizione a mansioni superiori deve avvenire con incarico promanante dagli organi competenti dell’Amministrazione.

Merita soggiungere che il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza 14 aprile 2006 n. 2099 ha generalizzato i prefati presupposti affermando (con un mutamento di indirizzo giurisprudenziale che rappresenta un vero revirement in tema di mansionismo nella pubblica amministrazione) che anche riguardo al regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 15, d. lgs. n. 387/1998 va riconosciuta al dipendente pubblico la retribuzione per le mansioni superiori (solo però) se esercitate in virtù di un formale provvedimento di incarico legittimamente assunto dall’amministrazione e proveniente dall’organo competente ad adottarlo, per coprire la temporanea vacanza di posti in organico.

In particolare, per quanto concerne il settore della sanità, l’art. 29, D.P.R. n. 761/79 – ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame – consente (in coerenza coi principi sopra delineati) una variazione stipendiale conseguente allo svolgimento di mansioni superiori, laddove svolte oltre i sessanta giorni, (esclusivamente) in presenza di posto vacante e sulla base di atto formale d’incarico, valido ed efficace, proveniente ex ante dall’Organo competente che, all’epoca dei fatti, era senz’altro costituito prima dal Comitato di gestione e poi dal Direttore Generale.

E’ evidente, pertanto, che in presenza di meri ordini di servizio provenienti da soggetti privi della potestas di immutazione dello status del dipendente le mansioni (assertivamente) superiori svolte dalla ricorrente non danno diritto al beneficio della maggiore retribuzione (cfr. C.d.s. sez. V, 14 aprile 2006 n. 2099 cit.).

Le considerazioni che precedono sono in linea con i consolidati indirizzi giurisprudenziali dai quali la Sezione non ha motivo di discostarsi. Ne giova una breve esposizione.

Secondo i giudici della Consulta (ord. n. 908/1988; sent. n. 57/1989; sent. n. 296/1990; sent. n. 101/1995) spetta al lavoratore dipendente dal S.S.N. il trattamento economico corrispondente alle funzioni di fatto espletate ai sensi dell’art. 36 Cost. e ciò, indipendentemente dal provvedimento di assegnazioni a mansioni superiori. Tale regola, per vero, è stata confermata nella sua impostazione di fondo dal giudice amministrativo con alcuni correttivi interpretativi a far data dalla Adunanza Plenaria 16.5.1991 n. 2; in particolare il giudice amministrativo ha tenuto distinti, nell’ambito del personale della U.S.L., i dipendenti sanitari dai dipendenti amministrativi, applicando per i primi il principio come statuito dal giudice delle leggi e ritenendo, invece, per i secondi, in aggiunta al posto vacante, quale requisito indefettibile, l’esistenza di un puntuale provvedimento d’incarico conferito dall’Organo competente.

Tale requisito, dopo una serie di statuizioni oscillanti, è stato ritenuto indispensabile dalla giurisprudenza amministrativa (A.P. 23.2.2000 n. 11; A.P. 28.1.2000 n. 10; Sez. V, 4.11.1999 n. 1807); esso mira ad impedire che il singolo dipendente, di propria iniziativa o con il consenso compiacente di soggetti non competenti (id est, coordinatore amministrativo, responsabile del settore), possa assumere incarichi di livello superiore aggirando le prescritte procedure di selezione del personale.

Il difetto del presupposto rappresentato dal formale incarico (per le UU.SS.LL., di pertinenza del Comitato di Gestione) non può, invero, neppure essere rimediato mediante la formalità di atti ricognitivi dell’organo competente che attestasse ex post l’effettivo svolgimento di mansioni superiori; né supplito (come nella fattispecie) mediante equipollenti rappresentati da note, lettere e c/o comunicazioni provenienti da soggetti e/o organi, sì, rappresentativi in qualche modo dell’amministrazione, ma non titolari di competenza funzionale in materia.

Osserva il Collegio, che il divario interpretativo esistente tra il giudice costituzionale ed il giudice amministrativo ha un’incidenza di effetti sull’odierno giudizio nel quale l’inconfigurabilità giuridica di formali provvedimenti di conferimento dell’incarico, unita alla indimostrata esistenza del posto vacante in pianta organica, priva in radice di ogni fondatezza la pretesa attorea.

E’ evidente che in mancanza di posto vacante in pianta organica e di atti formali di incarico, validi ed efficaci, deve escludersi per ciò stesso, giusta quanto sopra argomentato e considerato, la sussistenza delle condizioni di legge per il riconoscimento delle mansioni superiori.

In definitiva, l’assenza degli indefettibili presupposti rappresentati dal posto vacante in pianta organica e dall’atto di incarico formale di assegnazione alle mansioni superiori, quest’ultimo proveniente ex ante dall’organo all’uopo normativamente e funzionalmente competente, fa ragione – per effetto del carattere formale che contrassegna l’organizzazione della p.a., in sintonia con i principi di legalità e di buon andamento – sulla infondatezza dell’intrapresa azione.

I ricorrenti invocano, altresì, gli artt. 36 Cost. e 2126 Cod. civ.

In virtù della disposizione costituzionale citata sussisterebbe evidentemente, ad avviso del ricorrente, l’obbligo d’integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità – quantità del lavoro effettivamente prestato. L’articolato, dunque, costituirebbe, nella prospettazione attorea, parametro precettivo di immediata applicazione – ovvero mediata dall’art. 2126 Cod. civ. – al rapporto di lavoro sicché sarebbe consentita, per tale via, l’attribuzione diretta del trattamento economico corrispondente alla superiore qualifica rivestita.

Ordunque, non v’è dubbio che l’art. 36 Cost. sancisca il principio di corrispondenza della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato. Senonché la norma, secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria (sentenza n. 22/99), non può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego concorrendo, in detto ambito, altri principi di pari rilevanza costituzionale ( artt. 97 e 98 Cost.).

Ed invero:

1) l’art. 98 Cost., nel disporre che i pubblici impiegati sono al servizio della Nazione vieta che la valutazione del rapporto d’impiego pubblico sia ridotta alla pura logica del rapporto di scambio (Cfr. C.d.S.- VI Sez. – n. 480 del 31/1/03);

2) l’esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita contrasta con il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione ( art. 97 Cost.) nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari. La posizione di chi svolge mansioni superiori, infatti, non può essere assimilata (sotto il profilo giuridicoeconomico) a quella di colui che il medesimo incarico ricopre sulla base di una qualificazione professionale oggettivamente accertata all’esito di procedure selettive e/o concorsuali (art. 97, comma III, Cost.).

L’affidamento di mansioni superiori a pubblici dipendenti, invece, avviene spesso con criteri che non garantiscono l’imparzialità dell’Amministrazione (C.d.s. A.p. 22/99).

Nell’esercizio dei propri poteri d’organizzazione ( art. 97, comma I Cost.) l’amministrazione potrebbe, per esigenze particolari di buon andamento dei servizi, prevedere in sede regolamentare – anche – la possibilità d’assegnazione temporanea di dipendenti a mansioni superiori alla loro qualifica senza, però, diritto a variazioni del trattamento economico (cfr. C.d.s. – A.p. – dec. 4/9/97, n. 20).

Le considerazioni che precedono inducono a ritenere, concordemente a quanto sostenuto dall’Alto Consesso, che "nell’ambito del pubblico impiego è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerato anche l’assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il profilo organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica" (A.p. n. 22/99).

Pertanto, l’Amministrazione è tenuta a corrispondere la retribuzione propria della qualifica superiore solo quando una norma speciale preveda tale assegnazione e consenta la relativa maggiorazione retributiva; circostanza questa che, alla stregua delle rappresentazioni fattuali esposte in ricorso, non ricorre affatto nel caso in esame.

Neppure può trovare applicazione alla fattispecie l’invocato art. 2126 Cod. civ. in virtù del "principio della prestazione di fatto".

Ed invero, il prefato articolato disciplina l’ipotesi, affatto diversa, del rapporto di lavoro dichiarato "nullo" (poiché costituitosi in violazione dei divieti legali) attribuendo rilevanza alle prestazioni di fatto comunque effettuate in esecuzione dello stesso: la norma opera, dunque, in funzione di conservazione dei valori giuridici ed economici del negozio colpito da un giudizio di disvalore ordinamentale.

Va considerato, infine, che neppure sussistono i presupposti per l’applicazione al caso in esame della nuova normativa sul pubblico impiego. Ed invero, i decreti succedutisi dal 1993 al 2001, in attuazione delle leggi – delega sulla riforma del settore, contemplano una disciplina generale del conferimento di mansioni superiori valida per tutte le Amministrazioni pubbliche.

Tale normativa, la cui entrata in vigore è stata più volte rinviata dallo stesso legislatore per esigenze connesse alle problematiche organizzative interne degli Enti, regolamenta all’art. 52, del D. Lvo n. 165/01 (per la prima volta in un testo normativo di portata generale per il pubblico impiego) l’istituto dell’attribuzione temporanea di funzioni superiori. La norma prevede che al lavoratore spetta, in siffatti casi, la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore anche nel caso d’assegnazione nulla per violazione delle condizioni ivi previste (art. 52 c. V, decreto citato).

La prefata disposizione, invero, è stata introdotta nel testo normativo originario del 1993 (n. 29) con l’art. 15, del D.L.vo n. 387/98: successivamente, il suo contenuto è stato riprodotto nell’attuale testo unico sul pubblico impiego – art. 52, c. V, citato – (in partequa, ricognitivo).

Ebbene, il riconoscimento legislativo del diritto di che trattasi possiede un evidente carattere innovativo per la sua apertura nei confronti del "mansionismo"; pertanto, va attribuito, con carattere di generalità, soltanto a decorrere dall’entrata in vigore del D.L. vo n. 387, del 1998 (cfr. A.p. n. 10, del 2000) mentre nella vicenda che occupa i fatti per cui è causa ricadono temporalmente in epoca antecedente.

Le considerazioni che precedono inducono, in definitiva, alla reiezione del ricorso.

Le spese di giudizio liquidate in dispositivo seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 2.000,00 di cui Euro 1.000,00 in favore della Regione Lazio ed Euro 1.000,00 in favore della USL RM 12.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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