T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 05-07-2011, n. 5894 Esclusioni dal concorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Sussistono i presupposti di fatto e di diritto per la definizione immediata della causa e di ciò è stato dato avviso alle parti.

Con il ricorso in esame, il ricorrente impugna il provvedimento datato 17 novembre 2010 con il quale il Ministero della Difesa lo ha escluso dal concorso per l’immissione di 3392 unità nel ruolo dei volontari di truppa in servizio permanente nell’Esercito riservato ai volontari in ferma breve. Il provvedimento è stato adottato a seguito di una sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., divenuta irrevocabile il 29 marzo 2003.

Il ricorrente denuncia eccesso di potere nonché violazione dell’art. 2, c. 1, lett. d) del bando di concorso con riferimento all’art. 445, c. 2°.

Si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa.

Con ordinanza collegiale n. 1972/2011 sono stati chiesti documentati chiarimenti all’intimata amministrazione.

L’incombente istruttorio è stato assolto mediante deposito della documentazione in data 11 aprile 2011.

Il ricorso è infondato.

In punto di fatto, consta che:

il ricorrente è stato condannato per il reato di lesioni personali ( art. 582 c.p.) con sentenza divenuta irrevocabile il 29 marzo 2003 (pena patteggiata);

per questa ragione (aver commesso un delitto non colposo), egli è stato escluso dal concorso per l’immissione di 3392 unità nel ruolo dei volontari di truppa in s.p. nell’Esercito.

Il presupposto su cui si fonda, in punto di fatto e di diritto, il provvedimento impugnato è costituito dall’esistenza storica e giuridica della sentenza di condanna n. 417 del 30/12/2002, con applicazione della pena su richiesta delle parti (cd. pena patteggiata).

L’art. 2, c. 1, lett. d) del bando di concorso prevedeva, quale motivo ostativo alla ammissione alla procedura concorsuale, la condanna ad una pena anche a seguito dell’ammissione dell’imputato al cd. Patteggiamento.

Il provvedimento impugnato è stato emanato in pedissequa applicazione della clausola di bando vincolante, che non lasciava all’Amministrazione alcun margine di valutazione.

Il ricorrente ha subito una condanna per delitto non colposo con applicazione della pena su richiesta delle parti (ammissione a rito alternativo).

Il ricorrente sostiene che la motivazione non sarebbe idonea a sorreggere il provvedimento di decadenza poiché la sentenza in parola è stata pronunciata a seguito di patteggiamento.

La censura non ha pregio.

E’ costante in giurisprudenza l’orientamento secondo cui – rispetto agli effetti extra penali che l’ordinamento ricollega al fatto giuridico della condanna – la sentenza emessa in sede di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p., è del tutto equivalente, ex art. 445 comma 1, c.p.p., alla sentenza ordinaria (Cass. Sez. Un., 21 luglio 1998, n. 8488; Cons. St., IV, 28 maggio 2002, n. 2941); sicché a nulla rileva, per quanto d’interesse ai fini di causa, la circostanza che la pena (e non il reato) sia stata patteggiata.

Deve osservarsi, peraltro, che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui agli art. 444 e 445 c.p.p., non prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato in quanto il giudice, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di patteggiamento se ricorrono le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, ovvero perché il fatto non costituisce reato.

Ebbene, nel caso in esame il Tribunale penale di Sala Consilina, a quanto costa dalla documentazione esibita in giudizio, non ha ravvisato nei confronti (rectius, a favore) del ricorrente la sussistenza delle condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

L’interessato sostiene che la sentenza in parola ha perso efficacia a decorrere dallo spirare del termine quinquennale; per cui, a decorrere dal 29 marzo 2008 il provvedimento giurisdizionale avrebbe perso efficacia essendosi estinto sia il reato che gli effetti penali della condanna.

La censura non ha pregio.

L’estinzione del reato e degli effetti penali della condanna non travolge l’esistenza storica della sentenza a pena patteggiata e gli effetti che la medesima è in grado di svolgere sul piano amministrativo nei rapporti con l’amministrazione pubblica, ovvero a fini extrapenali.

Ne consegue che, una volta definitiva la sentenza con applicazione di pena patteggiata, essa esiste nell’ordinamento giuridico e costituisce idoneo presupposto per ogni determinazione amministrativa restando impediti, dopo il compimento del quinquennio, soltanto gli effetti penali (id est, sospensione condizionale della pena, recidiva, menzione nel casellario giudiziale, affidamento in prova la servizio sociale) dipendenti dalla sua esecutività, non anche gli effetti rispondenti ad esigenze amministrative.

D’altronde, è la stessa equiparazione del rito alternativo alla sentenza di condanna a legittimare l’equiparazione degli effetti che ne derivano sul piano amministrativo.

Va soggiunto, che la Corte di Cassazione, intervenuta sul tema, stima che l’effetto penale abbia le seguenti connotazioni: a) derivazione diretta da una sentenza irrevocabile di condanna e non pure da altri provvedimenti discrezionali della P.A.. ancorché aventi come necessario presupposto oggettivo la pronunzia suddetta: invero, l’art. 20 c.p., elevando a criterio di distinzione tra pene principali ed accessorie il fatto che queste ultime discendono di diritto dalla condanna come effetti penali, consente di ritenere che il Legislatore abbia caratterizzato tali effetti "in base alla loro peculiarità di essere conseguenza automatiche, ope legis, della sentenza di condanna; b) natura sanzionatoria. Il profilo integra la sostanza tipizzante dell’effetto penale, con riferimento allo scopo intrinseco della norma "che, prevedendo una determinata conseguenza in senso lato pregiudizievole, può essere stata posta con finalità di punizione oppure per la tutela di specifici interessi pubblici nei vari settori dell’ordinamento".

Ad ogni modo, si osserva in via tranciante, non consta in atti una pronuncia dell’autorità giudiziaria che abbia accertato l’estinzione del reato ex art. 445, c. 2 c.p.p.. Come chiarito dalla giurisprudenza penale (cfr Cass. Pen. 9/12/2009, n. 44567) spetta al giudice dell’esecuzione (id est. Tribunale di sorveglianza) l’accertamento e la declaratoria della estinzione del reato in presenza dei presupposti di cui all’art. 445 c.p.p., comma 2, dovendo il giudice accertare la presenza dei presupposti di fatto richiesti dalla norma per l’applicazione del beneficio; tant’è, che a tal fine il giudice dovrà attivare anche d’ufficio tutti gli accertamenti occorrenti e diretti a verificare se siano state o meno pronunciate nei confronti del ricorrente sentenze irrevocabili di condanna per delitti commessi entro cinque anni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di applicazione della pena, non rilevando la sola commissione di reati da cui non sia conseguita una condanna definitiva.

In conclusione, si può affermare che l’impugnato provvedimento è stato legittimamente adottato sul presupposto della impossidenza in capo al ricorrente di un preciso requisito soggettivo richiesto tassativamente dal bando (in parte qua rimasto in oppugnato). Ebbene, accertato, in via ricognitiva, la carenza di siffatto requisito, niente altro doveva fare l’amministrazione se non procedere alla esclusione del ricorrente, senza alcuna valutazione di interessi (pubblici) in gioco essendosi esaurita, siffatta discrezionalità, ad un livello più alto e generale di esercizio (norma regolamentare).

L’attività in parola, in altri termini, era del tutto vincolata nell’an e nel quid, non residuando in capo all’amministrazione margini di discrezionalità. Ed è noto che in ambito di attività vincolata l’unico vizio che rileva è l’errore nella decisione, ovvero la non corrispondenza dell’atto alla fonte paradigmatica di riferimento: verifica di conformità che ben può fare anche il giudice recando ad oggetto, questo tipo di giudizio, non più l’atto bensì il fatto a fronte di una attività non valutativa né opinabile.

Nel caso di specie, il ricorrente, come sopra detto, è stato escluso per impossidenza di un requisito soggettivo. Il giudizio portato all’attenzione del Collegio ha confermato la corrispondenza dell’atto al suo paradigmafonte di riferimento, sicché, le ragioni addotte dal ricorrente a sostegno dell’errore assertivamente commesso dall’amministrazione non hanno trovato fondamento.

Per quanto sopra argomentato, il ricorso in esame non è meritevole di accoglimento e va, perciò, respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza e sono poste in favore del Ministero della Difesa.

Nulla si dispone nei confronti del controinteressato siccome non costituitosi in giudizio.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero della Difesa, delle spese di giustizia che si liquidano in Euro 1.500,00.

Nulla spese nei confronti del contro interessato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *