T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 05-07-2011, n. 5893 Collocamento a riposo o in congedo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Sussistono i presupposti di fatto e di diritto per la definizione immediata della causa e di ciò è stato dato avviso alle parti.

Con il ricorso in esame, il ricorrente impugna il provvedimento datato 22 dicembre 2010 con il quale il Ministero della Difesa non lo ha ammesso alla rafferma biennale per mancanza dei requisiti di cui al D.M. 8 luglio 2005, collocandolo in congedo illimitato alla scadenza della ferma. Il provvedimento è stato adottato a seguito di una sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., divenuta irrevocabile il 29 marzo 2003.

Il ricorrente denuncia eccesso di potere nonché violazione dell’art. 3, D.M. 8 luglio 2005 con riferimento all’art. 445 c.p.p..

Si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa.

Con ordinanza collegiale n. 1973/2011 sono stati chiesti documentati chiarimenti all’intimata amministrazione.

In data 16 marzo 2011 l’Avvocatura di Stato ha depositato documentazione.

Il successivo 31 marzo, il Ministero della Difesa ha depositato la relazione.

Il ricorso è infondato.

Dall’esame della documentazione si evince che:

il ricorrente è stato condannato con sentenza divenuta irrevocabile il 29 marzo 2003;

per questa ragione, egli è stato escluso sia dal concorso per l’immissione di 3392 unità nel ruolo dei volontari di truppa in s.p. nell’Esercito che dalla rafferma biennale e, dunque, collocato in congedo illimitato.

Il presupposto su cui si fonda, in punto di fatto e di diritto, il provvedimento impugnato è costituito dall’esistenza storica e giuridica della sentenza di condanna n. 417 del 30/12/2002, con applicazione della pena su richiesta delle parti (cd pena patteggiata).

Il D.M. 8 luglio 2005 prevede, quale condizione di ammissione alla rafferma per i volontari in ferma prefissata cui sono assimilati i volontari in ferma breve (art. 3, c. 1, lett. d), non avere riportato condanne penali per delitti non colposi né risultare essere rinviati a giudizio o ammessi a riti alternativi per delitti non colposi.

Il provvedimento impugnato è stato emanato nell’esercizio di un presupposto – quello previsto dalla citata fonte normativa – che non lasciava all’Amministrazione alcun margine di valutazione discrezionale; questa disposizione stabilisce, infatti, tra i requisiti di partecipazione, che i candidati non devono essere incorsi in condanne per delitti colposi ovvero essere stati ammessi a riti alternativi.

Il ricorrente ha subito una condanna per delitto non colposo con applicazione della pena su richiesta delle pareti (ammissione a rito alternativo).

Tanto basta per giudicare infondata la pretesa del ricorrente, siccome basata su un invocato presupposto di diritto che non ha trovato corrispondenza nella fonte normativa di riferimento.

Il ricorrente sostiene che la motivazione non sarebbe idonea a sorreggere il provvedimento di decadenza poiché la sentenza in parola è stata pronunciata a seguito di patteggiamento.

La censura non ha pregio.

E’ in giurisprudenza l’orientamento secondo cui – rispetto agli effetti extra penali che l’ordinamento ricollega al fatto giuridico della condanna – la sentenza emessa in sede di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p., è del tutto equivalente, ex art. 445 comma 1, c.p.p., alla sentenza ordinaria (Cass. Sez. Un., 21 luglio 1998, n. 8488; Cons. St., IV, 28 maggio 2002, n. 2941); sicché a nulla rileva, per quanto d’interesse ai fini di causa, la circostanza che la pena (e non il reato) sia stata patteggiata.

Deve osservarsi, peraltro, che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui agli art. 444 e 445 c.p.p., non prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato in quanto il giudice, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di patteggiamento se ricorrono le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, ovvero perché il fatto non costituisce reato. Ebbene, nel caso in esame il Tribunale penale di Sala Consilina, a quanto costa dalla documentazione esibita in giudizio, non ha ravvisato nei confronti (rectius, a favore) del ricorrente la sussistenza delle condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

L’interessato sostiene che la sentenza in parola ha perso efficacia a decorrere dallo spirare del termine quinquennale; per cui, a decorrere dal 29 marzo 2008 il provvedimento giurisdizionale avrebbe perso efficacia essendosi estinto sia il reato che gli effetti penali della condanna.

La censura non ha pregio.

L’estinzione del reato e degli effetti penali della condanna non travolge l’esistenza storica della sentenza a pena patteggiata e gli effetti che la medesima è in grado di svolgere sul piano amministrativo nei rapporti con l’amministrazione pubblica, ovvero a fini extrapenali.

Ne consegue che, una volta definitiva la sentenza con applicazione di pena patteggiata, essa esiste nell’ordinamento giuridico e costituisce idoneo presupposto per ogni determinazione amministrativa restando impediti, dopo il compimento del quinquennio, soltanto gli effetti penali (id est, sospensione condizionale della pena, recidiva, menzione nel casellario giudiziale, affidamento in prova la servizio sociale) dipendenti dalla sua esecutività, non anche gli effetti rispondenti ad esigenze amministrative.

D’altronde, è la stessa equiparazione del rito alternativo alla sentenza di condanna a legittimare l’equiparazione degli effetti che ne derivano sul piano amministrativo.

Va soggiunto, che la Corte di Cassazione, intervenuta sul tema, stima che l’effetto penale abbia le seguenti connotazioni: a) derivazione diretta da una sentenza irrevocabile di condanna e non pure da altri provvedimenti discrezionali della P.A.. ancorché aventi come necessario presupposto oggettivo la pronunzia suddetta: invero, l’art. 20 c.p., elevando a criterio di distinzione tra pene principali ed accessorie il fatto che queste ultime discendono di diritto dalla condanna come effetti penali, consente di ritenere che il Legislatore abbia caratterizzato tali effetti "in base alla loro peculiarità di essere conseguenza automatiche, ope legis, della sentenza di condanna; b) natura sanzionatoria. Il profilo integra la sostanza tipizzante dell’effetto penale, con riferimento allo scopo intrinseco della norma "che, prevedendo una determinata conseguenza in senso lato pregiudizievole, può essere stata posta con finalità di punizione oppure per la tutela di specifici interessi pubblici nei vari settori dell’ordinamento".

Ad ogni modo, va considerato, in via tranciante, che non consta in atti una pronuncia dell’autorità giudiziaria che abbia accertato l’estinzione del reato ex art. 445, c. 2 c.p.p.. Come chiarito dalla giurisprudenza penale (cfr Cass. Pen. 9/12/2009, n. 44567) spetta al giudice dell’esecuzione (id est. Tribunale di sorveglianza) l’accertamento e la declaratoria della estinzione del reato in presenza dei presupposti di cui all’art. 445 c.p.p., comma 2, dovendo il giudice accertare la presenza dei presupposti di fatto richiesti dalla norma per l’applicazione del beneficio; tant’è, che a tal fine il giudice dovrà attivare anche d’ufficio tutti gli accertamenti occorrenti e diretti a verificare se siano state o meno pronunciate nei confronti del ricorrente sentenze irrevocabili di condanna per delitti commessi entro cinque anni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di applicazione della pena, non rilevando la sola commissione di reati da cui non sia conseguita una condanna definitiva.

Il ricorrente sostiene che la commissione del reato e la conseguente sentenza di patteggiamento è intervenuta in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.M. 8 luglio 2005.

La censura non ha pregio.

Il provvedimento amministrativo sconta, ai fini dello scrutinio di legittimità, la regola tempus regit actum nel senso che il parametro di riferimento per l’esame di conformità al paradigma normativo di riferimento è quello storicamente esistente al momento di adozione dell’atto.

Nella circostanza, il decreto ministeriale è datato 8 luglio 2005 mentre la domanda di rafferma è stata presentata dal ricorrente nel 2010.

La commissione, peraltro, non avrebbe mai potuto disapplicare la norma regolamentare (art. 3, c. 1, D.M. 8/7/2005) quest’ultima rimasta, peraltro, inoppugnata.

Più in generale, va osservato che – alla stregua dei noti principi costituzionali, informatori dell’azione amministrativa ( art. 97 Cost.) – nessun vulnus appare arrecato alle aspettative del ricorrente a cagione della norma sopraggiunta atteso che è solo la fonte regolatrice che può rimuovere l’assetto normativo nel rispetto degli enunciati costituzionali.

Correttamente, pertanto, l’amministrazione non ha ammesso il ricorrente alla rafferma in applicazione del D.M. 8/7/2005. E’ vero che tale decreto è stato emanato dopo la commissione del reato e la sentenza del giudice penale; sennonché, ciò che rileva è la sua emanazione in epoca anteriore alla adozione del provvedimento autoritativo che si è pronunciato sulla (non) ammissione alla rafferma. La procedura di accertamento dei requisiti si è svolta, temporalmente, sotto la vigenza di tale direttiva che costituiva, dunque, l’unico parametro normativo di riferimento per l’amministrazione, innovativa fonte regolatrice dei requisiti di idoneità.

D’altro canto, e diversamente opinando, si perverrebbe all’assunto illogico di reclutare personale che, al momento degli accertamenti sanitari già non risulta in possesso dei requisiti minimi richiesti per l’assolvimento dei compiti previsti per il ruolo da ricoprire.

In conclusione, si può affermare che l’impugnato provvedimento è stato legittimamente adottato sul presupposto della impossidenza in capo al ricorrente di un preciso requisito soggettivo.

Ebbene, accertata, in via ricognitiva, la carenza di siffatto requisito, niente altro doveva fare l’amministrazione se non procedere alla esclusione del ricorrente, senza alcuna valutazione di interessi (pubblici) in gioco essendosi esaurita, siffatta discrezionalità, ad un livello più alto e generale di esercizio (norma regolamentare).

L’attività in parola, in altri termini, era del tutto vincolata nell’an e nel quid, non residuando in capo all’amministrazione margini di discrezionalità. Ed è noto che in ambito di attività vincolata l’unico vizio che rileva è l’errore nella decisione, ovvero la non corrispondenza dell’atto alla fonte paradigmatica di riferimento: verifica di conformità che ben può fare anche il giudice recando ad oggetto, questo tipo di giudizio, non più l’atto bensì il fatto a fronte di una attività non valutativa né opinabile.

Nel caso di specie, il ricorrente, come sopra detto, è stato escluso per impossidenza di un requisito soggettivo. Il giudizio portato all’attenzione del Collegio ha confermato la corrispondenza dell’atto al suo paradigmafonte di riferimento, sicché, le ragioni addotte dal ricorrente a sostegno dell’errore assertivamente commesso dall’amministrazione non hanno trovato fondamento.

Per quanto sopra argomentato, il ricorso in esame non è meritevole di accoglimento e va, perciò, respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giustizia che si liquidano in Euro 1.500,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *