Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 18-11-2011, n. 24348

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso del 23 ottobre 2008, M.C. riassumeva il giudizio di revocazione, proposto ai sensi dell’art. 395 c.p.c., nn. 2, 3 e 4 dinnanzi alla sezione lavoro della Corte d’appello di Napoli, avverso la sentenza di appello n. 2429 del 1999 resa dal locale Tribunale, all’epoca giudice di secondo grado.

Nel ricorso per revocazione il M. esponeva: che con sentenza del 15 maggio 1996 il pretore di Napoli aveva accolto la sua domanda proposta nei confronti di F.I.T. e F.I.T. Assistenza, quali datori di lavoro, volta ad ottenere "la liquidazione di spettanze non percepite", dichiarando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il ricorrente e la F.I.T. sulla base delle deposizioni dei testi escussi, i quali, ad eccezione della teste R.M., avevano riferito circostanze attraverso le quali si perveniva a tale conclusione, e riconoscendo in favore del lavoratore un credito di lire 66.357.853, oltre accessori; che il Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro di appello aveva riformato completamente la sentenza di primo grado, negando che tra le parti fosse mai intercorso un rapporto di lavoro subordinato, fondando la decisione, esclusivamente, sulla deposizione della suddetta R. M.; che veniva intrapreso dall’istante un successivo giudizio per l’accertamento del diritto a percepire l’importo di lire 200.000.000 originariamente offerto in suo favore dalle società; che in tale giudizio veniva nuovamente escussa quale teste R.M., la quale, oltre dieci anni dopo la prima deposizione, aveva affermato dinnanzi al Tribunale di Napoli che il M. "… si recava nelle tabaccherie, raccogliendo fatture per conto della F.I.T…";

che tale deposizione contraddiceva completamente quella precedentemente resa, sicchè egli aveva denunziato la R. alla procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli per falsa testimonianza;

che nel conseguente procedimento penale il P.M. aveva chiesto l’archiviazione in quanto la R. aveva detto la verità, non avendo escluso in alcun modo la dedotta sussistenza del rapporto di lavoro;

che il G.I.P., successivamente adito, aveva confermato l’esattezza del rilievo del P.M. disponendo l’archiviazione del procedimento;

che quindi era stata raggiunta la certezza che l’attuale deposizione della R. era veridica, avendo la teste ammesso l’esistenza del rapporto di lavoro in questione, mentre risultava inveridica la contraria versione resa dinnanzi al pretore in funzione di giudice del lavoro, sulla quale il tribunale aveva fondato la propria pronuncia di riforma, sfavorevole al lavoratore.

Tanto premesso, chiedeva revocarsi l’impugnata sentenza di appello del tribunale di Napoli n. 2429/99, con ogni conseguenza di legge;

confermarsi la sentenza resa in primo grado dal pretore, rigettando l’appello proposto dalle società.

Con sentenza del 4 febbraio 2009, il Tribunale di Napoli, giudice d’appello, respingeva il ricorso.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il M., affidato a due motivi.

Si costituivano la F.I.T. e la ARIANNA 2001 s.p.a. (succeduta alla F.I.T. Assistenza s.r.l.) con controricorso, poi illustrato con memoria.

Motivi della decisione

1. -Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 3.

Lamentava il ricorrente che deducendo e producendo il provvedimento di archiviazione in sede penale, aveva provato – a differenza di quanto sostenuto dal giudice d’appello – l’esistenza di documenti decisivi, idonei a ribaltare la sentenza impugnata che si era basata sulla deposizione della R..

2. – Con il secondo motivo il M. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 2, avendo il giudice di appello escluso che il prodotto provvedimento del g.i.p. presso il Tribunale di Napoli avesse valore di documento, comprovante la falsità delle prove precedentemente raccolte.

3. – I motivi, che stante la loro connessione possono essere congiuntamente trattati, risultano inammissibili per difettare del tutto dei quesiti di diritto inderogabilmente richiesti dall’art. 366 bis c.p.c.. Giova infatti rammentare che "la decisione della Corte di cassazione deve essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione", Cass. sez. un. 9 marzo 2009 n. 5624.

Il quesito di diritto imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce infatti il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una "regula juris" che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, Cass. 9 maggio 2008 n. 11535.

La funzione propria del quesito di diritto, da formularsi a pena di inammissibilità del motivo proposto, è infatti quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito (e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare), Cass. 7 aprile 2009 n. 8463.

Ciò vale anche per la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, posto che anche in tal caso l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, sicchè la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso, consentendo alla Corte di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso, senza necessità di un’attività interpretativa dell’intero motivo da parte della Corte (Cass. 30 dicembre 2009 n. 27680, Cass. 7 aprile 2008 n. 8897, Cass. 18 luglio 2007 n. 16002, Cass. sez. un. 1ottobre 2007 n. 20603).

4.- L’inammissibilità, peraltro, deriva anche dalla palese violazione del principio dell’autosufficienza del ricorso, non risultando allegate, nè riportate nell’atto, le deposizioni testimoniali di cui si discute, e segnatamente quella della teste R..

5. – Il ricorso deve essere dunque dichiarato inammissibile. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30,00, Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a., in favore di ciascuna delle controricorrenti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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