Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 08-06-2011) 04-07-2011, n. 26065 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenze rispettivamente emesse in data 7/6/2004 e in data 3/2/2005 il G.I.P. del Tribunale di Treviso dichiarava M.M. e P.S. colpevoli dei reati di concorso in peculato e concussione in esso assorbito il reato di violenza sessuale aggravata, nonchè di concorso in falsità ideologica in atti pubblici e li condannava alle rispettive pene di giustizia, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile per il secondo reato.

Si contestava ai predetti nella loro qualità di Carabinieri in servizio presso la Stazione dei Nervesa della Battaglia, di avere indotto B.O., prostituta di nazionalità russa, dopo averla prelevata, nel mentre si stava prostituendo, e portata in caserma a bordo della Land Rover di servizio, di cui avevano il possesso per ragioni del loro ufficio, a concedere loro una prestazione sessuale gratuita, ingenerando nella stessa il timore di poter essere trattenuta in caserma ed essere immediatamente espatriata in Russia, ed inoltre di avere omesso di indicare nell’Ordine di Servizio di aver portato in caserma la predetta prostituta, trattenendola e procedendo alla sua identificazione con rilevamento palmare e fotografico, nonchè di avere omesso di denunciarla per il reato di cui alla L. n. 40 del 1998, art. 6, comma 3, allo scopo di occultare il reato di violenza sessuale commesso ai danni della predetta.

La vicenda aveva preso le mosse dalla denuncia della Bulmaga, che nella immediatezza dei fatti, una volta uscita dalla caserma, aveva allertato sia i Carabinieri di Treviso, sia la locale Guardia di Finanza, sia la Questura, e l’affermazione della colpevolezza si fondava sulle dichiarazioni accusatorie della vittima, che il G.I.P. riteneva altamente attendibili, rilevandone la serietà, la determinatezza e la precisione, e indicandone i riscontri emergenti dalle altre risultanze probatorie.

A, seguito di gravame degli imputati la Corte di Appello di Venezia, procedeva alla riunione dei due procedimenti e con la sentenza indicata in epigrafe assolveva gli imputati dal reato di peculato perchè il fatto non sussiste e ritenuta la continuazione tra il reato di concussione, in esso assorbito la violenza sessuale e il reato di falso ideologico, rideterminava la pena come da dispositivo, confermando nel resto le impugnate sentenze.

Condivideva la corte di merito la ricostruzione dei fatti, operata in prime cure, nonchè i rilievi e le argomentazioni del giudice di primo grado a sostegno della ritenuta attendibilità della persona offesa.

Contro tale decisione ricorrono gli imputati, e denunciano il M. M. la manifesta illogicità della motivazione e l’erronea applicazione della norma di cui all’art. 192, comma 1 in tema di valutazione della prova, il P.S. la violazione e erronea applicazione della norma di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1 ed in particolare la violazione del principio cardine, secondo il quale la colpevolezza deve essere affermata al di là di ogni ragionevole dubbio.

In effetti entrambi i ricorsi ruotano intorno alla valutazione dell’attendibilità della presunta parte offesa, unica fonte di prova, portatrice di un interesse personale, facilmente identificabile nel caso in esame, a sottrarsi all’espulsione e al rimpatrio nella sua terra di origine.

In sostanza e in sintesi si censurano i motivi che avevano indotto i giudici del merito a conferire attendibilità al di là di ogni dubbio alle deposizioni della B. in riferimento alla ritenuta rilevanza della immediatezza della denuncia, all’interesse che aveva mosso la donna, desiderosa di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di giustizia oltre che un congruo risarcimento del danno, all’operazione di sfilamento dei preservativi, di cui non era stata trovata traccia, non rinvenuti nel cassonetto, ove la B. aveva riferito essere stati gettati, alla descrizione dei locali della caserma, forniti dalla teste, che non corrispondevano alla realtà, alle condizioni metereologiche, che smentivano quanto riferito nella denuncia, alla smentita proveniente dal teste Cerato, ai tempi che precedettero la consumazione dei rapporti sessuali e alla durata di essi, alla possibilità per la donna di fare uso del cellulare, alla mancanza di riscontri obiettivi alle dichiarazioni accusatorie, indispensabile requisito ai fini della credibilità della parte offesa costituita parte civile, soffermandosi in particolare sulla modifica dell’art. 533 c.p.p., comma 1, operata dalla L. n. 46 del 2006, art. 5, alla luce della più autorevole dottrina, dei principi affermati nella giurisprudenza di legittimità in materia e dei rilievi forniti dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 190/1971.

I ricorsi sono inammissibili.

Va in primo luogo censurata la decisione dei giudici del merito, e la conseguente inerzia del P.M., che, nel ritenere assorbita la violenza sessuale nel reato di concussione, non hanno tenuto conto del principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che questo collegio condivide a pieno, secondo il quale il reato di violenza sessuale commesso mediante abuso della qualità e dei poteri del pubblico ufficiale può concorrere formalmente con il reato di concussione, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi. Posti a salvaguardia di distinti valori costituzionali, rappresentati dal buon andamento della P.A. e dalla libertà di autodeterminazione della persona nella sfera sessuale (ex multis Cass. Sez. 6^ 9/1-3/3/2009 n. 9528 Rv. 243049).

Tanto premesso le doglianze dei ricorrenti in ordine alla attendibilità della parte offesa e alla configurabilità dei reati contestati e ritenuti nella sentenza impugnata esorbitano dal catalogo dei casi di ricorso, disciplinati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, profilandosi come censure non consentite ai sensi del comma 3, cit. art., volte, come esse appaiono, a introdurre come "thema decidendum" una rivisitazione del "meritum causae", preclusa, come tale in sede di scrutinio di legittimità.

Ricorda il collegio che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente analizzato e descritto le coordinate e i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziari (ex multis Cass. Sez. Un. 23/6/2000 n. 12; 2/7/1997 n. 6402; 29/1/1996 n. 930).

In particolare è stato più volte chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta nei suoi punti essenziali da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il "senso della realtà" degli appartenenti alla collettività ed infine esenti da vistose e insormontabili incongruenze tra di loro.

In altri termini e in linea con la previsione normativa il controllo di legittimità si appunta esclusivamente sulla coerenza strutturale "interna" della decisione, di cui saggia la oggettiva "tenuta" sotto il profilo logico-argomentativo e tramite questo controllo anche l’accettabilità del provvedimento da parte di un pubblico composto da lettori razionali e da osservatori disinteressati alla vicenda processuale.

Al giudice di legittimità è invece preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati del giudice del merito, perchè ritenuti maggiormente o plausibili o dotati di una maggiore capacità esplicativa).

Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Alla stregua degli enunciati criteri non vi è dubbio, quanto alla contestata attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, che i giudici del merito hanno fatto corretta applicazione del canone interpretativo stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, a mente del quale la deposizione della persona offesa, vittima del reato di violenza sessuale, può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, non necessitando le stesse di riscontri esterni (Cass. Sez. 3^ 3/12/10-20/1/11 n. 1818 Rv.249136). Nondimeno nel caso in esame la deposizione della B. è stata sottoposta a rigoroso vaglio positivo, avendo la corte di merito specificamente indicato le conferme e i riscontri obiettivi che ne confermavano l’attendibilità.

Quanto alla sussistenza dei reati, i giudici del gravame hanno dato conto con puntuale e adeguato apparato argomentativo, di cui prima si è fatto cenno, della ragioni che conducevano alla conferma del giudizio di colpevolezza, enunciando analiticamente gli elementi e le circostanze di fatto convergenti e rilevanti a tal fine, non mancando di rispondere adeguatamente ai rilievi e alle censure mosse nei motivi di appello, le stesse riversate poi nei ricorsi, sicchè la motivazione non appare sindacabile in sede di controllo di legittimità della sentenza impugnata, tenendo conto che in definitiva il ricorrente si è limitato a sollecitare un non consentito riesame del merito attraverso la rilettura del materiale investigativo.

Anche la censura relativa alla violazione del principio espresso nella norma di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1 si rileva manifestamente infondata, avendo i giudici del merito fatto buon governo del principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, a mente del quale la regola di giudizio de qua impone di pronunciare condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili, come possibili "in rerum natura", ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (ex multis Cass. Sez. 1^ 8/5-9/6/2009 n. 23813 Rv. 243801).

Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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