T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 07-07-2011, n. 6014 Piano regolatore generale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I. La società ricorrente (MALICA s.p.a.) è proprietaria:

– di un’area (già di proprietà della società, ormai incorporata, astarte s.r.l.) di mq 33.257 sita in Roma nei pressi di Via della Nocetta n.207, distinta in Catasto al foglio 438, particelle 51, 53, 56/p e 57;

– di un’area (confinante con la prima) di mq 7.702, sita in Roma nei pressi di Via della Nocetta n.207, distinta in Catasto al foglio 438, particelle 52, 54, 55, 56/p, 520 e 521.

Il precedente Piano regolatore Generale del 1965, approvato con DPR 16.12.1965, aveva attribuito alle area in questione destinazione in parte "G2 – Parco Privato" (proprietà Malica), in parte "N – Verde Pubblico", in parte "M1 – Servizi generali pubblici o gestiti da enti pubblici", ed in parte "M2 -Servizi generali e locali di proprietà privata".

Il c.d. "Piano delle Certezze" (Variante generale al PRG), adottato con delibera di C.C. n.92 del 1997 (e approvato con deliberazione della Giunta Regionale del Lazio n.856 del 2004), attribuiva a tutta l’area in questione la destinazione a zona "N – Verde Pubblico".

Nello stesso anno, con la Legge della Regione Lazio n.29/1997 veniva istituita la Riserva Regionale Valle dei Casali, entro cui cade l’intera area della ricorrente.

Con l’adozione del nuovo PRG, il Comune di Roma ha (conseguentemente) inserito l’area nella c.d. Zona dei "Parchi istituiti", con destinazione urbanistica conforme a quella stabilità – per tale area – dalla già citata L. Reg. n.29/1997.

In particolare l’area è stata assoggettata al regime di zona previsto per la c.d. "Tutela limitata" (nella specie: "Tla 12), con limitata possibilità di edificare (Cfr. artt.18 e 19 del P.T.P., richiamato dallo strumento urbanistico).

La ricorrente ritiene di essere stata pregiudicata dalla predetta operazione di zonizzazione.

Con il ricorso in esame ha pertanto impugnato la Delibera n.33 del 19/20.3.2003 con cui il Consiglio Comunale di Roma ha adottato il nuovo PRG, e ne chiede l’annullamento per le conseguenti statuizioni di condanna.

II. In pendenza del giudizio, a seguito dell’invio alla Regione Lazio della deliberazione di adozione del PRG, il Sindaco di Roma – previa intesa con il Presidente della Regione – ha convocato, ai sensi dell’art.66 bis, comma 2, della L. reg. n.38 del 1999, la c.d. "Conferenza di Copianificazione" (tra i Dirigenti delle strutture tecniche competenti del Comune di Roma, della Regione Lazio e della Provincia di Roma), al fine di verificare la possibilità di concludere l’Accordo di Pianificazione.

A conclusione dei lavori, la Conferenza di Copianificazione ha adottato, nella seduta del 4/5.2.2008, uno schema di Accordo di Pianificazione.

In data 6.2.2008, il Presidente della Regione Lazio ed il Sindaco di Roma, sentito il Presidente della Provincia, hanno sottoscritto – ai sensi del citato art.66 bis, comma 6, della L. reg. n.38 del 1999 – l’Accordo di Pianificazione che ha recepito lo schema di accordo sopra richiamato.

L’Accordo di Pianificazione è stato ratificato dalla Regione Lazio con deliberazione di GR n.80 dell’8.2.2008, e dal Comune di Roma con deliberazione di CC n.18 del 12.2.2008, con cui è stato contestualmente approvato il nuovo PRG.

Con avviso inserito nel B.U.R.L. n.10 del 14.3.2008, il Comune di Roma ha comunicato (rectius: reso pubblico) che il nuovo PRG è stato definitivamente approvato con la delibera di CC n.18/2008.

Secondo la tesi della ricorrente, il PRG così approvato risulta "radicalmente diverso, soprattutto nelle Norme tecniche di attuazione (N.T.A.), da quello adottato nel 2003", e la pregiudica in quanto conferisce a tutta l’area di sua proprietà destinazioni scarsamente compatibili con la piena facoltà edificatoria.

Con ricorso per motivi aggiunti l’interessata ha pertanto impugnato (anche) gli atti, meglio indicati in epigrafe, che hanno condotto alla definitiva approvazione del nuovo P.R.G..

Ritualmente costituitasi, l’Amministrazione comunale ha eccepito l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del ricorso chiedendone il rigetto con vittoria di spese.

All’udienza del 21.4.2011, uditi i Difensori delle parti, la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è soltanto parzialmente fondato; e va accolto nei sensi e nei limitidi seguito indicati.

1.1. Con il primo motivo di ricorso e con il terzo mezzo di gravame del ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.7, comma 1°, della L. n.1150 del 1942 e della L. n.1902 del 1952, nonché eccesso di potere per sviamento e difetto di motivazione, deducendo:

a) che per quanto concerne l’area di sua proprietà, ricadente nella Riserva Naturale Valle dei Casali, il Nuovo PRG si è limitato a recepire pedissequamente la disciplina di cui alla L.R. Lazio n.29/1997 (istitutiva del Parco) e del locale Piano Territoriale Paesistitco (P.T.P.) approvato dall’Organo preposto alla tutela del Parco; e che tale condotta è illegittima in quanto lascia l’area priva di una vera e propria disciplina urbanistica;

b) che l’art.64 delle N.T.A. (che prevede l’automatica e suppletiva reviviscenza delle destinazioni previste dal c.d. "Piano delle Certezze" nel caso in cui venga meno la destinazione di zona impressa dalla disciplina del Parco), è illegittimo in quanto volto a reiterare – praticamente sine die – norme ormai decadute e non più prorogabili.

1.1.1. Il profilo di doglianza indicato sub a), non può essere condiviso.

Correttamente l’Amministrazione si è conformata alla normativa di legge che regola la Riserva Naturale, normativa che peraltro non avrebbe potuto essere derogata da disposizioni regolamentari e pianificatorie (che nel sistema delle fonti occupano una posizione inferiore rispetto alle leggi).

Ai sensi dell’art.72 delle NTA, rientrano – in modo praticamente automatico – nelle cc.dd. "componenti primarie" della "Rete ecologica": le Aree naturali già protette in forza di leggi regionali o nazionali; i Parchi Agricoli di Casal del Marmo, di ArroneGaleria e di Rocca Cencia (anch’essi protetti in forza di normative specifiche conseguenti a scelte di politica territoriale già effettuate); le aree già proposte quali Parchi Regionali dalle delibere di CC nn.39/1995 e 162/1996 – entro cui sono ubicate quelle delle ricorrenti – ed il reticolo idrografico (evidentemente anch’esso già assoggettato a normativa di tutela).

E poiché le aree della ricorrente (già localizzate dalle delibere di CC nn.39/1995 e 162/1996, non impugnate), ricadono entro la zona di riserva del Parco istituito ai sensi della già citata L.R. Lazio n.29/1997, non si vede in cosa la condotta dell’Amministrazione – tesa a salvaguardare beni ambientali tutelati – possa essere censurato.

1.1.2. Condivisibile si appalesa, invece, il profilo di doglianza sub b).

1.1.2.1. L’art.64 delle NTA prevede che nel caso in cui, per una qualsiasi ragione, dovessero venir meno le disposizioni che disciplinano le destinazioni urbanistiche all’interno del Parco in questione (Riserva Naturale Valle dei Casali), la disciplina urbanistica da applicare sarebbe (rectius: dovrebbe essere) quella impressa dal precedente strumento urbanistico. Il che significa che l’area della ricorrente acquisterebbe automaticamente la destinazione di zona "N" ("Verde Pubblico").

Al riguardo, valga quanto segue.

Con l’art. 64 delle NTA l’Amministrazione ha reiterato, o prorgato – seppur in via suppletiva – la destinazione a "verde pubblico" di una porzione dell’area di proprietà della società ricorrente; destinazione che era stata già impressa:

– per una parte dell’area, dal PRG del 1965 e mai mutata da oltre quarant’anni;

– e per un’altra parte di area dal 1997 (e cioè dal Piano delle Certezze: deliberazione di CC n.92/1997, approvata con deliberazione di GR Lazio n.856 del 2004).

Tale reiterazione (o "proroga suppletiva" della destinazione a Verde Pubblico) è stata ulteriormente confermata non ostante in tutti gli anni correnti, rispettivamente, dal 1965 e dal 1997, non sia stata mai realizzata (né avviata la realizzazione di) una qualsiasi opera pubblica atta a dare concretezza al progetto urbanistico pubblicistico.

Ora, ben vero è:

– che la giurisprudenza amministrativa afferma che l’operazione di "zonizzazione" non può essere considerata in sé e per sé alla stregua di una vera e propria azione ablatoria; e ciò in quanto la possibilità che il diritto di proprietà subisca limitazioni, in ragione dell’interesse pubblico (ed al fine di conformarlo alla funzione sociale che è chiamato a svolgere), costituisce un rischio fisiologico ben prevedibile e intrinsecamente connesso al regime costituzionale che connota l’istituto in questione (C.S., IV^, 10.8.2004 n.5490; TAR Abruzzo – Pescara, 28.8.2006 n.445; TAR Puglia Lecce, I^, 2.12.2004 n.8394);

– e che pertanto le cc.dd. limitazioni legali derivanti dalla "zonizzazione" non sono indennizzabili e men che mai risarcibili.

Ma è altrettanto vero:

– che nell’esercizio del potere di "conformare" il diritto di proprietà all’interesse pubblico mediante l’introduzione di limitazioni legali atte acomprimere, senza indennizzo, facoltà inerenti al suo esercizio, l’Amministrazione non può giungere fino a "svuotarlo" di ogni contenuto e valorepatrimoniale (Corte Cost. n.55/1968);

– che l’introduzione di vincoli che impediscano di utilizzare un bene oggetto di proprietà privata per fini personali privati e di sfruttarlo per fini produttivi, costituisce (e va considerato alla stregua di) un limite che ne svuota oltre misura il suo contenuto tipico; e che pertanto si concreta in una sostanziale (quanto illegittima) espropriazione;

– che secondo l’art. 42 della Costituzione, l’espropriazione del diritto di proprietà (o il suo concreto svuotamento) non può avvenire in mancanza di un legittimo procedimento volto a determinare il formale trasferimento del bene; e/o in mancanza della liquidazione e corresponsione di un giusto indennizzo all’espropriato;

– che, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la reiterazione del vincolo, ormai scaduto, preordinato all’espropriazione, è tendenzialmente illegittima "in quanto va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio" (C.S., Ad. Pl., 24.5.2007 n.7; Corte Cost. n.179/1999; Id. nn.55/1968, 92/1982 e 575/1989);

– che, come ancora affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, "il provvedimento con cui il Comune dispone la reiterazione dei vincoli urbanistici preordinati all’espropriazione decaduti… necessita della previsione generica di indennizzo" (C.S., Ad. Pl. 22.12.1999 n.24);

– che, secondo un principio giurisprudenziale ormai pacifico, "dopo la scadenza del termine quinquennale di durata dei vincoli di inedificabilità previsti da un piano regolatore generale, alle aree rimaste prive di destinazione si applica la disciplina dettata dalla legge per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (art.4, ultimo comma, della L. 28.1.1977 n.10)" (CS AD.PL. n.7/1984; inoltre: CS, 3.3.2003 n.1172; TAR Lazio, I^, 17.4.2003 n.3533);

– e che l’art.9 del TU sull’espropriazione ( DPR 8.6.2001 n.327) ha ormai espressamente stabilito, recependo il pacifico orientamento della giurisprudenza sopra evidenziato, che "se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall’art.9 del testo unico in materia edilizia approvato con D.P.R. 6.6.2001 n.380".

Sicchè, per conciliarel’affermazione di principio secondo cui la zonizzazione non costituisce, almeno di regola, un’azione realmente ablatoria (come tale indennizzabile), ma una manifestazione del potere di conformare il diritto di proprietà all’interesse pubblico rendendolo compatibile con la funzione sociale che è chiamato a svolgere, con le ulteriori – ed apparentemente contrastanti – affermazioni in ultimo riportate, secondo le quali il diritto di proprietà non può essere svuotato di ogni contenuto economico né comunque espropriato "di fatto", senza un giusto procedimento e senza indennizzo (e secondo cui la mera reiterazione di un vincolo decaduto preordinato all’espropriazione, o comunque comportante l’inedificabilità assoluta, si connota come attività amministrativa illegittima), occorre chiarire ed affermare che la "zonizzazione" va considerata effettivamente tale (e dunque legittima ancorché produttiva di effetti riduttivi della potenzialità edificatoria), solamente se e nella misura in cui:

– non si risolva, in concreto, in una forma occulta ed indiretta di illegittima espropriazione de facto;

– non si concreti – cioè – in un espediente surrettiziamente volto a svuotare del tutto, sine die e senza indennizzo, il contenuto del diritto di proprietà.

Ciò che certamente accade nel caso in cui, mediante l’operazione di zonizzazione, l’Amministrazione:

– imprima ad un’area la destinazione di "verde pubblico" senza però poi procedere – nel corso del periodo di efficacia dello strumento urbanistico – all’adozione degli atti consequenziali e prodromici alla realizzazione delle strutture e delle attrezzature necessarie per rendere l’area localizzata effettivamente "pubblica" (id est, se le parole hanno un oggettivo senso comune: demaniale o di proprietà pubblica), realmente "verde" e concretamente "fruibile dal pubblico" (e cioè sufficientemente dotata di servizi che la rendano utilizzabile e godibile in situazione di sicurezza);

– e pretenda, poi – dopo aver infruttuosamente lasciato decorrere (decadere) i termini per l’attuazione (rectius: il periodo di efficacia) dello strumento urbanistico – di reiterare inopinatamente la predetta destinazione (a verde pubblico) e con esse i vincoli che ne derivano, senza contestualmente adottare alcun atto che possa assicurare l’effettiva attuazione delle reiterate disposizioni pianificatorie.

E’ agevole osservare, infatti, che in ipotesi di tal genere l’intervento dell’Amministrazione si risolve nell’apposizione di un "vincolo" che finisce per sottrarre al privato, sine die, ogni possibilità sia di utilizzare il bene per qualsiasi scopo produttivo (anche soltanto tendenzialmente incompatibile con l’ipotetico uso pubblico che l’Amministrazione prima o poi decidesse di farne), sia di trarne utilità anche a scopo di godimento personale sfruttando il seppur basso indice di edificabilità previsto per le zone agricole (indice che nel caso di zonizzazione a verde pubblico risulta, infatti, inoperante).

D’altro canto appare evidente che la destinazione di un’area a "verde pubblico" implica – diversamente da quanto potrebbe accadere nell’ipotesi di destinazione "a verde privato" – che essa debba (lo si sottolinea: necessariamente) essere espropriata per realizzare le strutture pubbliche che la rendano puntualmente conforme alla zonizzazione prevista (id est: alla funzione pubblicistica impressale).

Sicchè, delle due l’una:

– o alla predetta zonizzazione imprimente destinazione a "verde pubblico" segue, coerentemente, l’avvio (s’intenda: entro il periodo di efficacia dello strumento urbanistico che ha impresso la destinazione all’area) del correlativo procedimento di espropriazione;

– ovvero, in assenza di ciò, la reiterazione del "vincolo di destinazione" in costanza di ulteriore inerzia in ordine agli atti consequenziali, si configura come patologica cristallizzazione di un vincolo di inedificabilità assoluta (solo virtualmente e dunque surrettiziamente preordinato all’espropriazione), che tende a connotarsi come illegittima espropriazione di fatto.

Diversamente opinando, del resto, tutta la giurisprudenza volta a stigmatizzare come illegittimi i provvedimenti di mera reiterazione di vincoli scaduti preordinati all’espropriazione – giurisprudenza volta ad evitare che il potere ablatorio del diritto di proprietà venga esercitato illegittimamente – si ridurrebbe ad un impercettibile "flatus voci".

I principii affermati da tale giurisprudenza potrebbero, infatti, agevolmente venire elusi dall’Amministrazione, la quale – per evitare di assoggettarsi ai termini perentori ed alle regole certe del procedimento espropriativo – ben potrebbe, facendo uso distorto del suo potere di "zonizzazione" (e, in ultima analisi, del potere di conformazione del diritto di proprietà), imprimere a vaste aree la destinazione di "verde pubblico" al solo fine di riservarsene – come fosse titolare di una sorta di inedito "diritto di opzione" (autoritativamente ed unilateralmente costituito) – la futura ed eventuale acquisizione, svuotandole nel frattempo – e, ciò che è peggio, sine die e senza ristoro per il proprietario – di ogni capacità edificatoria e di ogni valore economico (e precostituendosi, per di più, l’ulteriore vantaggio della eventualità di un successivo esproprio "a buon mercato").

E poiché non è seriamente sostenibile che l’azione pubblica volta a comprimere il diritto di proprietà fino al suo sostanziale svuotamento, sia da considerare illegittima se effettuata mediante un uso distorto del potere espropriativo, ma non parimenti illegittima se effettuata mediante un uso parimenti distorto del potere pianificatorio – risolvendosi tale argomentazione in un evidente sofisma – occorre affermare con chiarezza che la "zonizzazione a verde pubblico":

– non può essere utilizzata per "costringere" il privato proprietario, senza alcun indennizzo, ad asservire il suo terreno ad un regime totalmente pubblicistico (o a comportarsi come se fosse una Pubblica Amministrazione);

– né per qualificare come "giardini pubblici attrezzati", aree che in realtà – in assenza di un’azione volta alla effettiva realizzazione dei necessari lavori pubblici – sono destinate all’inutilizzazione e, in ultima analisi, all’abbandono.

E del resto non sono mancate pronunce nelle quali il problema è stato avvertito, pur se non affrontato direttamente, né a fondo.

Di fronte ad operazioni "avvertite" come indirettamente ablatorie o eccessivamente conformative, ed all’evidente scopo di frenare i relativi abusi, il Consiglio di Stato ha infatti sentito l’esigenza di affermare:

– che in caso di destinazione a verde pubblico, al privato proprietario assoggettato al relativo vincolo deve comunque essere "consentita, anche a sua iniziativa, la realizzazione di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde; circostanza (…) che esclude la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo, comunque, la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale" (CS, IV^, 10.8.2004 n. 5490). Affermazione, questa, che – evidentemente – apre un nuovo dibattito in ordine alle modalità mediante le quali un’area destinata a "verde pubblico" possa (rectius: debba) effettivamente continuare ad offrire al proprietario il godimento esclusivo di facoltà (se non di tutte almeno di alcune) inerenti al suo diritto (e cioè in ordine al contenuto sostanziale che l’espressione "verde pubblico" deve assumere nel corrente linguaggio del diritto urbanistico per evitarne un uso improprio);

– e che "la facoltà di regolare l’uso di un bene di interesse storico ed artistico, attribuita al ministro per i beni culturali dall’art. 11 ss. 1 giugno 1939 n. 1089, se da un lato può legittimamente estrinsecarsi in limitazioni al godimento dei beni tutelati da parte dei proprietari, dall’altro non può giustificare l’imposizione di una destinazione pubblica ai beni stessi, che si risolva nello svuotamento integrale del contenuto del diritto di proprietà e concreti una fattispecie sostanzialmente espropriativa" (C.S., V^, 14.5.1986 n.255). Affermazione, questa, che, seppur riferita ad un diverso caso di "ablazione conformativa", ben si attaglia – analogicamente – al caso dedotto in giudizio, in quanto evidenzia il disagio del Supremo Giudice Amministrativo di fronte a provvedimenti amministrativi atti (o volti) ad assoggettare la "proprietà privata" al medesimo regime che disciplina quella "pubblica". O – ciò che esprime lo stesso concetto – la preoccupazione della giurisprudenza di fronte alla intrinseca contraddittorietà (e tendenziale abnormità) di provvedimenti volti ad attrarre totalmente il privato proprietario e la "sua" proprietà nella sfera, e nell’ottica, del diritto pubblico, svuotandola in tal modo dei contenuti tipici che la connotano, tradizionalmente, "secundum nostrae civitatis jura".

In altri termini:

– se appare difficilmente comprensibileil fenomeno giuridico per cui una proprietà "privata" – pur restando formalmente tale – possa essere qualificata verde "pubblico" (e regolata come se lo fosse);

– ancor più incomprensibile appare il fenomeno giuridico per cui tale qualificazione costituisca obblighi esclusivamente a carico del privato, ma non anche della PA (ovvero: obblighi – e nessun diritto – per il privato; e diritti o poteri – ma nessun onere o dovere – per l’Amministrazione).

Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio, l’Amministrazione ha impresso ad una porzione di terreno di proprietà della società ricorrente la destinazione di "zona a verde pubblico" già una prima volta nel lontano 1965, ed ad un’altra zona la medesima destinazione nel 1997.

Non ha però adottato, nei successivi anni (rispettivamente: quarant’anni e dieci anni), alcun conseguente atto o provvedimento volto a concretizzare (rectius: ad attuare) la pianificazione di zona illo tempore formulata.

La zona è dunque rimasta "verde", ma quest’ultimo non è mai divenuto "pubblico" (id est: di proprietà pubblica), né comunque è stato attratto al regime pubblicistico (e dunque dotato di servizi a disposizione del pubblico, organizzati e finanziati dalla PA).

Il terreno è rimasto, cioè, formalmente "privato", ma – ciò che è paradossale – inutilizzabile dal privato finanche in conformità alla sua virtuale destinazione.

In altri termini, la ricorrente si è vista bloccare – lo si sottolinea nuovamente: per una porzione di area per ben otto lustri – ogni concreta possibilità non soltanto di sfruttare anche al minimo (e cioè entro il limite dello 0,003 mc x mq) la potenzialità edificatoria del terreno, ma (in mancanza di un qualsiasi strumento attuativo) anche di sfruttarne le potenzialità più specificamente connesse alla destinazione (pubblicistica) formalmente (e purtroppo soltanto virtualmente) ad esso impressa.

Infine, nel 2008, con l’introduzione della disciplina suppletiva di cui all’art.64 delle NTA (a mezzo della deliberazione di CC n.18 del 12.2.2008), l’Amministrazione ha puramente e semplicemente reiterato – seppur in via suppletiva – la destinazione della porzione della zona in questione (a verde pubblico), e ciò:

– senza motivare in ordine alle ragioni che hanno impedito (dal 1965 per una parte dell’area; e dal 1997 per l’altra) l’adozione dei provvedimenti e l’avvio dei lavori necessari per rendere effettivamente pubblica o comunque effettivamente fruibile al pubblico l’area assoggettata al vincolo di destinazione;

– senza aver contestualmente adottato alcun atto volto ad evitare che la situazione si riproponga;

– e senza neanche aver previsto alcun indennizzo finalizzato a ristorare la ricorrente per la sostanziale espoliazione che ha subito e che, ad avviso della PA, dovrebbe continuare a subire.

E non appare revocabile in dubbio che ciò sia ingiusto, oltrecchè certamente illegittimo.

Nella parte che dispone tale reiterazione, pur se suppletiva, la predetta delibera va pertanto annullata, e con essa l’art.64 delle NTA, con la conseguenza che nel caso in cui dovesse venir meno la disciplina di zona dettata dall’Ente Parco, l’area in questione resterebbe assoggettata, come affermato costantemente dalla giurisprudenza in precedenti analoghi (CS Ad.Pl. n.7/1984; CS, 3.3.2003 n.1172; TAR Lazio, I^, 17.4.2003 n.3533), alla "disciplina dettata dalla legge per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (art.4, ultimo comma, della L. 28.1.1977 n.10)"; e ferma restando l’efficacia di eventuali altri vincoli (a tutela del paesaggio e/o dell’ambiente) non direttamente derivanti dallo strumento urbanistico e dalla zonizzazione con esso effettuata.

1.1.2.2. Un’ultima osservazione, per scrupolo espositivo; in limine perché considerata quasi ovvia.

Pur se la norma introduce una disciplina applicabile solamente in via suppletiva, non appare revocabile in dubbio che l’interesse della ricorrente alla pronunzia costitutiva di cui sopra sia attuale e concreto.

L’art.64 delle NTA introduce, infatti, una "norma di collegamento" che è immediatamente efficace in quanto è volta a regolare compiutamente – senza necessità di ulteriori mediazioni normative – un’ipotesi di "rinvio ricettizio". La norma in questione – atta fin d’ora a vincolare l’interprete – è, cioè, già attualmente operante nell’Ordinamento, in quanto norma regolatrice di un criterio applicativo.

Il che significa:

– che essa possiede e mantiene una sua intrinseca efficacia,a prescindere dalla circostanza che il rinvio trovi, o meno, concreta applicazione;

– e che pertanto produce alla ricorrente un pregiudizio immediato e concreto – consistente nella riduzione della potenzialità edificatoria e dunque del valore dell’immobile – per il solo fatto di esistere.

1.2. Con il secondo (rubricato con il n.2.1), il terzo (rubricato con il n.2.2) ed il quarto (rubricato con il n.2.3) motivi di gravame (del ricorso principale), la ricorrente lamenta eccesso di potere per errore di fatto, violazione del DM n.1444 del 1968 sotto vari profili ed eccesso di potere per contraddittorietà, deducendo:

– che "il calcolo degli standards è basato su una popolazione di 3.324.872 abitanti a fronte di 2.546.804 abitanti residenti nel Comune di Roma come determinati dall’ultimo censimento… (…)";

– e che immotivatamente "il Nuovo PRG prevede un eccesso di aree da destinare a verde e servizi, del tutto ingiustificato oltre che praticamente irrealizzabile";

Le doglianze sono inammissibili per difetto d’interesse.

L’area della ricorrente ricade per intero nell’ambito del Parco (Riserva Naturale Valle dei Casali) istituito con la L.R. Lazio n.29 del 1997, ed è assoggettata alla disciplina di zona del Parco (con destinazione a "Tutela limitata"); disciplina che peraltro prevede e consente l’edificazione, seppur con gli indici previsti dallo strumento urbanistico che regola quest’ultimo.

Non si vede, pertanto, che interesse abbia la ricorrente a coltivare doglianze che comunque non sono rivolte a contestare la (né dunque ad ottenere una qualche modifica della) specifica disciplina di zona (dettata, lo si ribadisce, dal Piano regolatore del Parco) che investe i suoi terreni.

1.3. Con il quinto (rubricato con il n.3.1) ed il sesto (rubricato con il n.3.2) motivi di gravame, la ricorrente lamenta eccesso di potere per contraddittorietà ed ingiustizia manifesta, deducendo:

– che la possibilità di ricorrere al meccanismo della compensazione è stata drasticamente ridotta e che ciò appare in contrasto con l’intera filosofia del Piano;

– che illegittimamente "la cessione compensativa è stata limitata alle sole aree che rientrano nei Programmi integrati nella Città da ristrutturare".

Le doglianze in esame sono inammissibili e comunque infondate.

1.3.1. Inammissibili per la medesima ragione esposta nel precedente capo.

1.3.2. E comunque infondate in quanto volte a sindacare il merito di scelte di politica urbanistica devolute al Consiglio Comunale e/o alla Giunta Municipale.

Al riguardo la giurisprudenza (della stessa Sezione) si è già espressa (Cfr., TAR Lazio, II^, 14.5.2008 n.4122), affermando:

– che la determinazione dell’Amministrazione di concedere la c.d. "compensazione edilizià esclusivamente ai proprietari di aree ricadenti in determinate zone, "costituisce una scelta di politica territoriale che, non essendo intrinsecamente illogica o contraddittoria, non appare sindacabile";

– che "invero l’Amministrazione non era in alcun modo obbligata a concedere la compensazione edilizia a tutti i soggetti che avessero subìto una riduzione della potenzialità edificatoria dei propri terreni…";

– che "avendo, nondimeno – e per insindacabili scelte di opportunità politica – deciso di introdurre il predetto istituto, l’Amministrazione si è in concreto determinata nel senso di non estendere incondizionatamente la menzionata compensazione edilizia a tutti i soggetti che in qualsiasi modo fossero stati "incisi" da riduzioni di indici di edificabilità derivanti dalla nuova zonizzazione, ma di accordarla esclusivamente ai proprietari dei terreni situati nelle zone che nel precedente Piano avevano una vocazione (rectius: destinazione) spiccatamente o prettamente edificatoria (…); mentre di non accordarla ai proprietari di terreni che, a cagione della precedente zonizzazione e dei vincoli da essa derivanti, ovvero a cagione di altri vincoli, vantavano già una potenzialità edificatoria a scopo abitativo meramente marginale o addirittura del tutto eventuale (come nel caso di terreni situati in zone a vocazione agricola, o gravati da vincoli di in edificabilità assoluta o relativa per ragioni di tutela paesaggistica, ambientale o simili";

– e che "poiché una decisione di tal genere non appare intrinsecamente illogica o contraddittoria, né mirata a creare disparità di trattamento fra soggetti in posizione eguale, essa ben resiste alla censura".

D’altro canto la posizione della ricorrente rispetto a scelte di tal genere è quella di c.d. aspettativa di mero fatto, non sussistendo:

– alcuna norma di legge che stabilisca con precisione quale debba essere la esatta percentuale di terreno (destinando ad opere pubbliche o a servizi pubblici) da acquisire mediante cessione compensativa e quale quella da acquisire mediante espropriazione; o il preciso meccanismo per determinare tale riparto;

– né, comunque, alcuna norma di legge su cui costruire un qualche diritto soggettivo o interesse legittimo all’adozione di un PRG che consenta una maggiore edificabilità, o che estenda la possibilità di ricorrere alla c.d. cessione compensativa in luogo dell’espropriazione.

1.4. Con il primo motivo aggiunto la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt.9 e 10 della L. n.1150 del 1942 e degli artt.7 e s della L. n.241 del 1990, deducendo:

– che in sede di approvazione (in regime di c.c. "copianificazione" ex art.66 bis della L. reg. n.38 del 1999), il PRG precedentemente adottato, è stato profondamente modificato (nel senso che sono state apportate significative e rilevanti modifiche alle classificazioni delle destinazioni d’uso, alle cc.dd. "compensazioni", alla disciplina delle "Aree naturali Protette", con introduzione dei cc.dd. "Parchi Agricoli", ed alla disciplina della c.d. "Rete Ecologica");

– e che "in tale situazione, ai sensi degli artt.9 e 10 L.U. sussisteva per il Comune l’obbligo di procedere alla ripubblicazione del piano, con conseguente riapertura dei termini per le osservazioni degli interessati…".

La doglianza è inammissibile per genericità e per carenza d’interesse.

In merito a tale questione, già sollevata in precedenti analoghi, con sentenza n.5818/2009 il Consiglio di Stato, Sez. IV^, ha affermato:

– che "da un esame comparativo delle NTA del PRG quali si presentavano a seguito delle controdeduzioni comunali alle osservazioni dei privati e quali risultanti dal lavoro della Conferenza, nonché dalla relazione tecnica predisposta da quest’ultima, emerge che sono rimaste manifestamente inalterate non solo tutte le scelte di fondo operate in sede di adozione, ma anche quelle relative alla destinazione generale dei suoli ed al rapporto quantitativo fra le varie zone individuate dal piano";

– e che "in sostanza, malgrado l’elevato numero delle modifiche apportate, le stesse hanno per lo più carattere formale, consistendo (…) in semplici "errata corridge", ovvero in riformulazioni di prescrizioni non mutate nella sostanza o in modifiche marginali intese a rendere coerenti le singole previsioni con altre norme tecniche, con quanto contro dedotto a eventuali osservazioni o anche solo con l’impianto generale del P.R.G.".

Ora, a fronte di tali rilievi operati dal supremo Giudice Amministrativo – che afferma che le linee essenziali del Piano già adottate sono rimaste inalterate (e che dunque entro tali limiti di tendenza il procedimento che ha condotto alla sua approvazione resiste alle critiche mosse) – la ricorrente avrebbe dovuto maggiormente impegnarsi nell’indicare quali sarebbero le specifiche disposizioni innovative – sulle quali non ha potuto asseritamente interloquire in sede procedimentale – che la hanno, in concreto, direttamente pregiudicata.

E poiché dal ricorso ciò non emerge, non appare sufficientemente dimostrata la sussistenza di un concreto e personale interesse a sostenere la domanda; interesse che costituisce una fondamentale (imprescindibile) condizione dell’azione.

Dal che l’inammissibilità della censura.

1.5. Con il secondo motivo aggiunto la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.66 bis della L. Reg. Lazio n.38 del 1999 e dell’art.10 della L. n.1150 del 1942, deducendo:

– che "il piano approvato all’esito della Conferenza di Copianificazione ex art.66 bis L.R. 38/1999 differisce sostanzialmente da quello adottato e contro dedotto, configurandosi come un nuovo strumento rispetto alle precedenti versioni";

– che "appare evidente che le modifiche approvate in sede di Conferenza di Copianificazione, superano ampiamente i limiti fissati dall’art.10 co 2 LU richiamato dall’art.66 bis, co 2, nonché dal comma terzo di quest’ultimo articolo";

– e che "ne consegue che le Amministrazioni partecipanti alla Conferenza di Copianificazione avrebbero dovuto restituire il piano al Comune per la sua formale riadozione, non potendo inserire d’ufficio norme modificative…".

La doglianza è inammissibile per la medesima ragione per la quale lo è quella precedente.

Ed invero, a fronte della già richiamata affermazione contenuta nella sentenza n.5818/2009 della IV^ Sezione del Consiglio di Stato, solamente una indicazione specifica e puntuale delle disposizioni innovative concretamente incidenti sulla posizione della ricorrente (ed una rigorosa dimostrazione delle ragioni fondanti il preteso pregiudizio a carico di quest’ultima), avrebbe consentito:

– di superare l’inammissibilità di una doglianza – per così dire – "sopracalibrata", in quanto inequivocabilmente volta ad ottenere la caducazione dell’intero Piano;

– ed a concentrare la direzione dell’esame e del connesso giudizio sulla possibilità di pervenire ad un eventuale annullamento in parte qua dello stesso.

2. In considerazione delle superiori osservazioni il ricorso va accolto solamente in parte con conseguente annullamento dell’art.64 delle NTA e della parte della delibera di CC n.18 del 12.2.2008 che lo concerne.

Si ravvisano giuste ragioni per compensare le spese fra le parti costituite.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, accoglie in parte il ricorso nei limiti e nei sensi indicati in motivazione, e, per l’effetto, annulla l’art.64 delle NTA e della parte della delibera di CC n.18 del 12.2.2008 che lo introduce.

Compensa le spese fra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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