Cass. pen., sez. II 28-05-2008 (06-05-2008), n. 21537 Atteggiamento assunto dall’agente ed incidenza sulla volontà del soggetto passivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
1.1. Con sentenza in data 30-4-2003 la Corte di appello di Reggio Calabria confermava la sentenza in data 25-5-2000 con cui il G.I.P. di Reggio Calabria aveva dichiarato L.A. responsabile del reato di tentata estorsione, aggravata ex art. 628 c.p., comma 3, n. 3, condannandolo alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione e L. 900.000 di multa.
In motivazione la Corte territoriale osservava che il riscontro probatorio della tentata estorsione si rinveniva nelle dichiarazioni della parte offesa S.F., imprenditore che aveva subito numerose estorsioni e che, a un certo punto, aveva deciso di collaborare con l’autorità giudiziaria contribuendo alla celebrazione di numerosi processi contro i suoi taglieggiatori; donde l’attendibilità soggettiva del testimone. In particolare lo S. aveva riferito di essere stato contattato dal L., che gli aveva chiesto, se fosse intenzionato a continuare nei versamenti, in precedenza effettuati a titolo estorsivo a un certo M. di (OMISSIS), che era stato poco prima arrestato;
nell’occasione il L. si era presentato quale rappresentante degli "amici" di (OMISSIS), riferendogli delle lamentele di costoro per la cessazione dei pagamenti e chiedendo spiegazioni sul suo comportamento.
Sulla base di tali dichiarazioni la Corte territoriale riteneva realizzato il concorso del L. nella condotta estorsiva altrui, correttamente qualificata dal primo Giudice come tentativo di estorsione, attesa la mancata realizzazione dell’evento della ripresa dei versamenti per il rifiuto della vittima di soggiacere alla richiesta estorsiva.
1.2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione L. A., per mezzo del difensore, formulando i seguenti motivi.
– Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E in relazione agli artt. 629 e 640 c.p..
Con il primo motivo si deduce l’illogicità della motivazione, per avere omesso di valutare l’esistenza di atti idonei a costringere, con violenza o minaccia, a fare od omettere qualcosa. In particolare – non risultando accertata l’appartenenza del L. al clan Mazzotta la "minaccia", rappresentata dal fatto di essersi presentato quale presunto mandatario degli "amici" di (OMISSIS), sarebbe stata priva di qualsivoglia incidenza e come tale sarebbe stata percepita dall’imprenditore; in tale situazione la condotta posta in essere integrerebbe solo un artificio, peraltro maldestro, con la conseguenza che la vicenda andrebbe inquadrata nell’ambito dell’art. 640 c.p.. Ulteriore profilo di illogicità sarebbe rappresentato dall’avere desunto l’attendibilità soggettiva della parte offesa da una lontana collaborazione nell’anno 1994.
– Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. C), in relazione all’art. 628 c.p.p., comma 3, n. 3.
Con il secondo motivo si deduce l’illogicità della motivazione per avere ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3 nonostante l’inesistenza di sentenze che attestino la partecipazione del L. alla cosca Mazzotta di Curingi e l’esclusione da parte del Giudice di primo grado della cd. finalità agevolatrice riferita alla cosca Zito-Berluca, risultata estranea alla vicenda, tanto che il coimputato B.V. è stato assolto in prime cure.
2.1. Osserva il Collegio che le critiche svolte in chiave di illogicità, risultano, in realtà, basate su mere deduzioni di fatto, alternative rispetto alle diverse valutazioni plausibilmente e del tutto coerentemente compiute dal Giudice del merito nell’ambito di scelte allo stesso riservate, mentre, sotto il profilo di diritto, le argomentazioni del ricorrente si rivelano manifestamente infondate.
Invero il ricorrente, pur avendo formalmente denunciato il vizio di difetto di motivazione (fondandolo sull’asserita omessa individuazione da parte dei Giudici del merito dell’elemento oggettivo della minaccia e sull’ulteriore considerazione dell’inidoneità della condotta, come ricostruita in sede di merito, a coartare la vittima) ha, tuttavia, nella sostanza, svolto ragioni che costituiscono una critica del logico apprezzamento delle prove fatto dal giudice di appello con la finalità di ottenere una nuova valutazione delle prove stesse; e ciò non è consentito in questa sede. E’ il caso di aggiungere che la sentenza impugnata va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, di primo grado, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella certezza della responsabilità dell’imputato per il reato di tentata estorsione aggravata ex art. 628 c.p., comma 3, n. 3.
In punto di diritto vai la pena di rammentare che la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona violentata o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta (cfr. Cass. pen. Sez. 2^, 7 novembre 2000, n. 13043). In particolare il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima: ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e, comunque, non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perchè tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri; in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (Cass. pen., Sez. 6^, 10/04/2003, n. 29704; Cass. pen., Sez. 2^, 21/05/2001, n. 26272).
In sostanza nella truffa la vittima è ingannata, mentre nell’estorsione è posta in una situazione di necessitata sottomissione; il suo potere di autodeterminazione non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole. Invero il soggetto passivo dell’estorsione è posto nell’alternativa di far conseguire all’agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus, voluit). Si spiega così perchè la "minaccia", da cui consegue la coazione della parte offesa, possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma di esortazioni e di consigli ovvero ancora presentarsi sub specie di comportamenti formalmente corretti. Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito perseguito dal soggetto agente e l’idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente. Non a caso la forma di estorsione preferita dalla criminalità organizzata, il c.d. "pizzo", è rappresentato dalla "protezione" accordata dal sodalizio criminale alla vittima nell’ambito di una generale strategia di accaparramento delle aziende.
Orbene, nel caso di specie, i Giudici del merito hanno accertato che il L. si presentò allo S. come mandatario degli "amici" di (OMISSIS) – e cioè del clan che fino a poco tempo prima aveva estorto somme alla medesima parte offesa – sollecitando spiegazioni per l’interruzione dei pagamenti e chiedendo "se avesse in animo di proseguire i pagamenti". La condotta dell’imputato, così come ricostruita, non si è concretata nel ventilare un male immaginario (anche perchè – come si legge nella sentenza di primo grado – non si spiegherebbe, altrimenti, il comportamento del L. che "avrebbe incautamente e inopinatamente speso il nome saliente altrui, contro ogni regola di comportamento dominante nell’ambito della criminalità organizzata"), ma si è risolta nella minaccia (implicita, ma chiara) di un male concreto idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo, rappresentata dalla ritorsione da cosca "scontenta" per l’interruzione dei pagamenti in precedenza effettuati sempre a titolo estorsivo.
Quanto poi, all’asserita inidoneità della minaccia a conseguire il suo scopo, si osserva che la censura risulta manifestamente infondata per la parte in cui sollecita una valutazione ex post dell’idoneità della condotta a coartare la vittima ed è inammissibile, nella misura in cui prospetta una rilettura addomesticata e riduttiva delle risultanze probatorie, che vorrebbe ricondurre la minaccia implicita nella spendita del nome degli "amici di (OMISSIS)", già noti alla vittima, al mero "tentativo – peraltro piuttosto maldestro – di indurre in errore lo S. alfine di procurarsi l’ingiusto profitto -" (così a pag. 4 in ricorso).
Vero è che l’idoneità di un atto criminoso ex art. 56 c.p. consiste nella sua capacità causale e, cioè, nella sua suscettibilità a produrre l’evento che renderebbe consumato il delitto voluto. In una tale ottica, l’azione è da ritenere inidonea solamente se, in assoluto e con valutazione ex ante, difetti intrinsecamente di qualsiasi efficienza causale, senza che, a tal fine, si debba tener conto delle circostanze impreviste, quale la reazione della vittima, che abbiano impedito il verificarsi dell’evento.
Orbene, nel caso di specie, con un giudizio in punto di fatto e, perciò non censurabile in questa sede di legittimità, i giudici del merito hanno ritenuto che la condotta del L. non venne avvertita come improduttiva di effetti, segnatamente rilevando che l’imputato, spendendo il nome dei M. (cioè "gli amici di (OMISSIS)"), aveva ripetuto la capacità di intimidazione dei medesimi originari estorsori, famiglia mafiosa dominante nel territorio di (OMISSIS), mentre la direzione non equivoca del medesimo comportamento andava apprezzata in ragione dell’obiettivo perseguito, rappresentato dalla ripresa dei pagamenti (cfr. pag. 4 sentenza di primo grado).
E’ appena il caso di aggiungere che l’utilizzazione della fonte di prova è stata condotta dai Giudici del merito nella corretta osservanza delle regole di giudizio che disciplinano la valutazione della testimonianza della persona offesa dal reato, la quale – secondo il costante orientamento di legittimità – è soggetta al solo limite ordinario dell’attendibilità, senza necessità di riscontri esterni; essa, pur se non può essere equiparata alla deposizione del testimone estraneo, può tuttavia essere anche da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla sua credibilità, accompagnata da un controllo sulla credibilità soggettiva di chi l’ha resa (così, Cass., Sez. 4A, 1 aprile 2004, Rinaudo ed altro).
Orbene, nel caso all’esame, i Giudici del merito hanno sottoposto a un adeguato vaglio di credibilità le dichiarazioni della vittima, valutando positivamente la personalità dell’offeso in considerazione del contributo dallo stesso offerto nel precedente processo in danno di suoi taglieggiatoli e rimarcando la costanza delle dichiarazioni "già rese dallo S. sin dal 1994, proprio nell’ambito del procedimento nel quale erano state pronunciate le condanne precedenti" (anche se nell’occasione non ne era stata apprezzata la valenza accusatoria) e puntualmente confermate in udienza, durante la sua audizione innanzi al G.U.P. (v. sentenza di primo grado pag. 3).
Va precisato che l’esattezza delle suddette valutazioni, non può formare oggetto di contestazione in questa sede, essendo notoriamente preclusi alla Corte di legittimità l’esame degli elementi fattuali e l’apprezzamento fattone dal giudice del merito al fine di pervenire al proprio convincimento.
Dalla ritenuta attendibilità dell’accusa discende, quindi, l’esatta affermazione della sussistenza del contestato delitto di tentata estorsione, i cui elementi costitutivi sono stati tratti dalle dichiarazioni della parte offesa.
2.2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Invero "precisato che l’aggravante di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3 è stata ritenuta sussistente in considerazione della natura mafiosa dei soggetti coinvolti nell’attività estorsiva riferibile ai M., su mandato dei quali si è ritenuto che il L. abbia agito (pag. 5 sentenza di primo grado), si osserva che non c’è alcuna inconciliabilità logica o giuridica nell’avere escluso la circostanza aggravante del cd. metodo o della finalità mafiosa.
Invero l’art. 628 c.p., comma 3, n. 3 individua una circostanza di posizione, in relazione alla quale rileva l’appartenenza all’associazione come fatto storico, e non l’agire, incriminato dall’art. 416 bis c.p. (Cass. 16/3/90 n. 3792 RV 183722; Cass. pen., Sez. 2^, 23/05/2006, n. 20228 in motivazione); mentre la circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, nelle due differenti forme dell’impiego del metodo mafioso nella commissione dei singoli reati e della finalità di agevolare,è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzino gli estremi, siano essi estranei o meno a organizzazioni criminose di tipo mafioso.
In definitiva il ricorso è inammissibile. A mente dell’art. 616 c.p.p. alla declaratoria di inammissibilità – determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè del versamento in favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 1.000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

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