Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-06-2011) 06-07-2011, n. 26390 Revoca e sostituzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con ordinanza in data 24.11.2010 il Tribunale di Firenze rigettava l’appello proposto da U.C.V. avverso l’ordinanza, emessa dai GIP del Tribunale di Firenze il 22.9.2010, con la quale era stata respinta la richiesta di revoca della misura della custodia cautelare in carcere (o, in subordine, di sua sostituzione con gli arresti domiciliari), applicata nei confronti dei predetto U. per i reati di cui all’art. 600 bis c.p., comma 1 e art. 600 sexies c.p., comma 3, L. n. 75 del 1958, art. 3 n. 8 e art. 4 n. 1 in danno di diverse ragazze, tra cui anche delle minorenni.

Dopo aver ricordato che il procedimento penale costituiva il risultato di complesse indagini svolte dalle Questure di Firenze e Prato, evidenziava il Tribunale che oggetto del giudizio cautelare era soltanto la richiesta di modifica della misura, per cui non veniva in discussione la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, su cui il Tribunale si era già espresso con ordinanza 10.5.2010.

Tanto premesso, riteneva il Tribunale che per il reato contestato si imponeva ex art. 275 c.p.p., comma 3 la custodia in carcere come unica misura adottabile, non risultando certamente elementi dai quali desumere l’insussistenza delle esigenze cautelari ed emergendo, piuttosto, come sottolineato anche dal GIP, che l’indagato era bene inserito in una banda di sfruttatori di donne e per lui l’attività lavorativa costituiva una copertura.

2) Ricorre per cassazione U.C.V., denunciando la inosservanza e/o erronea applicazione della legge processuale penale in relazione all’art. 275 c.p.p., comma 3, così come integrato dalla sentenza della Corte Cast, n.265 del 21.7.2010, nonchè la mancanza e contraddittorietà della motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato.

Con la richiesta di sostituzione della misura custodiate in carcere si era fatto riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 265/2010 e si erano indicati gli elementi specifici da cui risultava che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte anche con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari, la questione veniva riproposta ai Tribunale che, anzichè elencare i motivi per cui non sussistevano gir elementi indicati dalla difesa, assumeva invece che essi non ricorrevano solo perchè il quadro probatorio risultava invariato. E non coerente e contraddittorio con tali affermazioni era l’ulteriore passaggio motivazionale in ordine alla primaria pericolosità del soggetto (tra l’altro mutuato dal GIP senza alcuna confutazione dei rilievi difensivi). Invero, secondo lo schema normativo utilizzato dal Tribunale, sulla base della originaria disciplina dell’art. 275 c.p.p., comma 3, una volta verificata l’esistenza dei gravi indizi e di un grado anche minimo di esigenze cautelari, si imponeva comunque la misura cautelare di massimo rigore.

3) Il ricorso è infondato.

3.1) E’ opportuno ricordare che l’art. 275 c.p.p., comma 3 previgente stabiliva: "La custodia cautelare in carcere può essere disposta quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 416 bis c.p. o ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo è applicata la custodia cautelare in carcere salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Tale norma era pacificamente interpretata nel senso che, mentre per tutti gli altri reati la custodia cautelare in carcere poteva essere applicata solo quando ogni altra misura risultasse inadeguata, per i delitti espressamente indicati nell’art. 275 c.p.p., comma 3, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, per una sorta di "presunzione legale" era da ritenere adeguata solo la custodia cautelare in carcere. Per tali reati era, quindi, obbligatoria la detenzione carceraria a meno che non risultassero acquisiti elementi attestanti la insussistenza di esigenze cautelari. Il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 2, comma 1, lett. a), fermi restando i "criteri" sopra indicati, ha ampliato l’elenco dei reati, aggiungendo i delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, nonchè i delitti di cui all’art. 575 c.p., art. 600 bis c.p., comma 1, art. 600 ter c.p., escluso il comma 4, art. 600 quinquies c.p., art. 609 bis c.p., escluso il caso previsto dal comma 3, artt. 609 quater e 609 octies c.p..

3.1.1) La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella precedente formulazione, con ordinanza in data 24 ottobre 1995, dichiarava la manifesta infondatezza della questione medesima.

Rilevava la Corte che "la previsione legale di adeguatezza della sola misura in argomento, per certi reati di spiccata gravità indicati nella norma impugnata non può in primo luogo dirsi incoerente sul piano del raffronto con il potere affidato al giudice di valutare l’esistenza delle esigenze cautelari: un raffronto istituito dal giudice a quo, fra elementi del tutto disomogenei, giacchè la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l’an della cautela) non può, per definizione, prescindere dall’accertamento della loro effettiva ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del tipo di misura (il quomodo di una cautela, in concreto rilevata come necessaria) non impone ex se, l’attribuzione al giudice di analogo potere di apprezzamento, ben potendo essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti". Sicchè, riteneva la Corte Costituzionale, la "predeterminazione in via generale della necessità della cautela più rigorosa (salvi, ovviamente, gli istituti specificamente disposti a salvaguardia di peculiari situazioni soggettive, quali l’età, la salute e così via) non risulta in contrasto con il parametro dell’art. 3 Cost., non potendosi ritenere soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione dell’accennato punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch’essi di rilievo costituzionale".

Investita nuovamente detta questione in relazione alla riformulazione della norma, la Corte Costituzionale con la sentenza n.265 del 7 luglio 2010 (depositata il 21.7.2010) ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo del codice di procedura penale, come modificato dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 600 bis c.p., comma 1, artt. 609 bis e 609 quater c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Nel dichiararne l’incostituzionalità, ha rilevato la Corte "che la norma impugnata viola, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di mafia nonchè per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l’art. 13 Cost., comma 1, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misura cautelari privative della libertà personale; sia infine l’art. 27 Cost., comma 2, in quanto attribuibisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena". E, dopo aver osservato, che "al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo e tenuto conto dei limiti delle questioni devolute allo scrutinio di questa Corte, la compatibilità costituzionale della norma censurata non è peraltro necessario rimuovere integralmente la presunzione di cui si discute", ha evidenziato il Giudice delle Leggi che "Ciò che rende costituzionalmente inaccettabile la presunzione stessa è per certo il suo carattere assoluto che si risolve in una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del minore sacrificio necessario, anche quando sussistano – come nei casi oggetto dei procedimenti a quibus, secondo quanto riferiscono i giudici rimettenti – specifici elementi da cui desumere, in positivo, la sufficienza di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere". E, secondo la Corte, la previsione di una presunzione solo relativa di quest’ultima non eccede, i limiti di compatibilità con i parametri evocati ed evita, comunque, l’irrazionale equiparazione dei procedimenti relativi a tali reati a quelli concernenti la criminalità di tipo mafioso e lascia spazio alla differenziazione delle varie fattispecie concrete riconducigli ai paradigmi punitivi astratti.

3.1.2) A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 265/2010 è, quindi, rimesso al giudice, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 600 bis c.p., comma 1, artt. 609 bis e 609 quater c.p., per superare la presunzione (relativa) di adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere, accertare non solo che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, ma anche che non siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Pur senza un espresso riferimento, il Tribunale ha applicato la sentenza della Corte Costituzionale sopra ricordata.

Ha infatti, da un lato, evidenziato che non erano stati acquisiti elementi attestanti l’insussistenza di esigenze cautelari, risultando piuttosto confermato l’allarmante quadro di soggezione schiavistica cui erano state ripetutamente sottoposte numerose ragazze ad opera della banda in cui era inserito l’ U., e, dall’altro, che le esigenze cautelari non risultavano certamente attenuate (e quindi salvaguardabili con misure meno afflittive di quella di massimo rigore) stante la primaria pericolosità dell’indagato "bene inserito in una banda di sfruttatori di donne e per il quale, come già detto, l’attività lavorativa era una copertura per lo svolgimento di quest’attività". Tale motivazione non risulta affetta da palesi illogicità, per cui non è sindacabile in sede di legittimità. E’ pacifico, invero, che la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, ne di rivalutazione delle condizioni soggettive dell’indagato in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo dei giudice che ha applicato la misura e del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass.sez.6 n.2146 del 25.5.1995).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone che copia del provvedimento venga trasmesso, a cura della cancelleria, al direttore dell’istituto penitenziario, perchè provveda a quanto stabilito dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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