Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 07-06-2011) 06-07-2011, n. 26283

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte d’assise d’appello di Messina, confermava parzialmente di B.G., Be.Gi., C.D., Cu.Gi., F.L., G.G., M.G., Mi.Gi., T.L., V. G., Co.Fr. in relazione ad una associazione a delinquere di stampo mafioso operante nella zona nord della città, rione (OMISSIS), nonchè all’omicidio Ma., e per i reati di estorsione, lesioni, favoreggiamento, violazione legge sugli stupefacenti e sulle armi commessi a partire dal (OMISSIS).

In primo luogo rigettava le questioni sollevate sulla inammissibilità dell’appello del P.M. fondate sul fatto che trattandosi di procedimento in materia di criminalità organizzata non operava la sospensione dei termini, osservando che la disciplina della sospensione dei termini feriali riguardava le indagini preliminari e non i termini per impugnare la sentenza di condanna.

In via preliminare esaminava le impugnazioni presentate da G. G., C.D. e M.G. avverso l’ordinanza dell’8/3/2007 con la quale i giudici di primo grado avevano disposto ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, l’acquisizione delle dichiarazioni rese dal collaboratore S.A. e dalla moglie G.R.. Il collaboratore, sentito ai sensi dell’art. 210 c.p.p. in dibattimento, si era avvalso della facoltà di non rispondere in quanto gli era stato revocato il programma di protezione e tutta la sua famiglia, composta dalla moglie e da quattro figli in tenera età, era abbandonata a se stessa ed esposta a pericolo; anche la moglie G.R. aveva tenuto la medesima condotta processuale. La decisione di acquisire le dichiarazioni dei due era già stata assunta in altro procedimento dal GIP che procedeva ad incidente probatorio in quanto l’atteggiamento reticente era stato indotto da azioni esterne che avevano coartato la libera scelta del dichiarante.

Le prove di tali coartazioni erano state rinvenute nelle conversazioni telefoniche tra la madre dello S. e l’operatore del 113, dalle quali emergeva lo stato di agitazione della donna che raccontava come il figlio era stato oggetto di un attentato con armi, anche se non vi erano stati riscontri oggettivi al fatto; inoltre nel fatto che il cugino del collaboratore aveva riferito di aver assistito ad un minaccia ricevuta da quest’ultimo in pieno centro da parte di un affiliato alla cosca ed aveva constato lo stato di profonda agitazione del congiunto; ancora nel contesto familiare di forte pressione esercitata nei suoi confronti affinchè abbandonasse la scelta di collaborare, soprattutto dopo l’attentato alla vita del fratello L.; infine nel fatto che il padre aveva, in altro dibattimento, ritrattato le sue accuse dicendo di essere stato avvicinato da appartenenti alla cosca per convincere il figlio a fare altrettanto.

Il giudice di primo grado aveva poi riferito che a queste emergenze già valutate dal GIP di altro processo, se ne erano aggiunte di ulteriori, quali le preoccupazioni esternate dai familiari alla convocazione dei due fratelli S. per deporre nel processo Arcipelago, la rapina posta in essere da S. per appropriarsi di un’arma ai danni di un metronotte, a scopo difensivo, movente riconosciuto dal giudice di quel processo in sentenza.

Tanto premesso riteneva la corte che la decisione di acquisire le dichiarazioni ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, fosse fondata e congruamente motivata; rilevava che la giurisprudenza di legittimità sul punto richiedeva che gli elementi sui quali fondare il giudizio fossero, non meri sospetti, ma elementi concreti di natura indiziante e quelli utilizzati dal giudice di primo grado e prima ancora dal GIP lo erano; secondo la corte il collaboratore era stato indotto a commettere una rapina insieme al fratello per procurarsi un’arma di difesa, ben sapendo che questa azione avrebbe compromesso definitivamente il suo programma di protezione; non vi era alcun elemento su cui fondare i sospetti avanzati dalla difesa che tali comportamenti avessero avuto come scopo quello di iniziare un braccio di ferro con lo Stato per ottenere migliori condizioni di trattamento. Il collaboratore aveva motivato la sua necessità di non rispondere e quelle dichiarazioni non erano affette da alcuna nullità visto che nulla gli impediva di esternare le ragioni del suo comportamento. In relazione alla eccezione di nullità delle dichiarazioni rese da S. e dalla moglie per omesso avviso ai sensi dell’art. 199 c.p.p., rilevava che a G.R. l’avviso era stato dato regolarmente, mentre per quanto riguardava S. osservava che tale nullità poteva essere sollevata dal solo G. davanti al GUP, trattandosi di nullità relativa, a nulla rilevando che tali dichiarazioni erano state poi acquisite nel successivo dibattimento.

La Corte passava ad esaminare i mezzi di prova e rilevava che il processo si fondava per lo più su prove dichiarative provenienti dai collaboratori di giustizia, oltre che da un’imponente mole di atti processuali provenienti da altri dibattimenti acquisiti ai sensi dell’art. 238 c.p.p., da elaborati peritali, da intercettazioni telefoniche e ambientali e da accertamenti di P.G. Procedeva quindi ad esaminare il problema della credibilità soggettiva dei dichiaranti secondo i canoni fissati dalla giurisprudenza di legittimità ai sensi dell’art. 192 c.p.p. e rilevava che certamente la prova principale era costituita dalle dichiarazioni di S. A. che avevano consentito di svelare l’organigramma del clan operante nel rione Giostra e di far luce sull’omicidio di Ma.

C..

Secondo la corte S. era un soggetto attendibile in quanto in base ad elementi di fatto e logici poteva ritenersi affidabile; la sua scelta di collaborare aveva avuto un carattere del tutto spontaneo, avendola manifestata per la prima volta in occasione di un controllo di polizia che aveva portato al rinvenimento di un’arma detenuta illegalmente, della quale si era assunto ogni responsabilità allo scopo di essere arrestato e così iniziare la collaborazione senza destare sospetti all’esterno. Aveva affermato il falso, giustificando la sua volontà di collaborare col fatto che il giorno prima il cognato G. gli aveva chiesto di uccidere il boss Mu., ma nell’immediatezza aveva lui stesso svelato il mendacio riferendo la verità e cioè che la scelta era dovuta alla necessità di fermare la vendetta della cosca nei confronti del padre e del fratello; tale comportamento aveva un valore ai fini della sua affidabilità, visto che nessuno altro avrebbe potuto smentirlo sul punto. Una conferma a tale situazione di pericolo si aveva il (OMISSIS) giorno in cui il fratello era miracolosamente scampato ad un attentato. Tale versione era stata confermata dalla moglie R. che aveva assistito alle dichiarazioni rese dal G., suo fratello, al marito sulla necessità di punire il padre e il fratello dello S., e non vi era alcuna ragione per ritenere che avesse intenti punitivi nei confronti del proprio fratello.

Osservava che la maggior parte delle deduzioni difensive sul punto riguardavano la provata conflittualità dei rapporti di S. col cognato G. e le condotte che avevano poi determinato la revoca della protezione.

Rilevava che il collaboratore aveva manifestato nei confronti del cognato rancore e invidia anche davanti al difensore del G. e nel corso di chiare intercettazioni telefoniche, ma che tali manifestazioni erano state tutte successive al suo pentimento e conseguenti alle manovre poste da questo in essere per allontanarlo dalla sua famiglia e comunque per farlo tacere. I componenti del clan Giostra avevano iniziato a preoccuparsi seriamente per quello che S. avrebbe detto e G. aveva più volte interpellato la sorella per sapere che cosa il marito aveva intenzione di riferire soprattutto in relazione all’omicidio Ma.; inoltre aveva cercato di allontanarla dal marito con promesse di sostegno economico, nonchè aveva addirittura iniziato le pratiche della separazione dal marito perchè pensava così di indurlo a desistere dal suo intento di collaborare. Da tali elementi poteva ricavarsi la logica deduzione che l’animosità dello S. nei confronti di G. non era antecedente ma successiva a tali comportamenti e quindi che non aveva inficiato l’attendibilità delle sue dichiarazioni contro il cognato.

La Corte rilevava che S. aveva tenuto anche comportamenti gravi in costanza di sottoposizione alla protezione quali atti autolesionistici, condotte estorsive e violazioni di regole di riservatezza, tanto che il programma gli era stato revocato, ma osservava che tali comportamenti rivelavano più una insofferenza alle regole della protezione che non una sua inattendibilità.

Altre obiezioni delle difese dovevano essere respinte non sussistendo alcuna prova del fatto che assumesse psicofarmaci o che fosse instabile, non aveva interessi economici da far valere, visto che svolgeva regolare attività lavorativa.

Corrispondeva al vero che si era autoaccusato falsamente di aver ricevuto l’incarico di uccidere l’Ispettore c., ma aveva giustificato tale comportamento con la fraintesa idea che così avrebbe acquisiti maggiori benemerenze ai fini di ottenere protezione per la sua famiglia.

In conclusione nei confronti di S. era possibile accedere alla valutazione frazionata delle sue dichiarazioni non sussistendo alcuna interferenza logica e fattuale tra quelle parti ritenute false e quelle confermate e riscontrate, in quanto la credibilità soggettiva era confermata dalla ammissione spontanea delle falsità dette e dalla verosimiglianza delle giustificazioni addotte.

Quanto alla valutazione della attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni la corte rilevava che se ne sarebbe occupata in relazione ai singoli reati, mentre respingeva l’obiezione che, in realtà non essendo egli un intraneo alla associazione, non sapeva nulla di rilevante. Infatti S., pur non essendo un affiliato formale era intraneo alla cosca, svolgeva i compiti che gli venivano assegnati dal cognato e conosceva molto della vita del clan per la vicinanza familiare; riscontro a tale dato era la forte preoccupazione che tutto il clan aveva vissuto quando si era appreso della collaborazione nonchè i vari tentativi, poi riusciti, di farlo desistere.

La corte procedeva poi ad esaminare la credibilità degli altri collaboratori che avevano riferito circostanze inerenti soprattutto l’omicidio Ma. e in particolare ca.Gi. era vissuto nel rione (OMISSIS) ed aveva compiuto azioni criminali con alcuni affiliati, quali G., le aveva ammesse ed aveva dimostrato di avere una sicura conoscenza del metodo di azione del clan, sapendo ad esempio che lo spaccio di stupefacenti era il mezzo per dare sostegno economico agli affiliati in difficoltà; D.F. aveva deciso di cambiare vita a seguito di una relazione affettiva, aveva ammesso la sua partecipazione a gravi fatti di sangue; pur essendo estraneo al clan, era vicino al boss B.G., tanto che era depositario del segreto dell’esistenza di un telefono per comunicare con l’esterno dal carcere e dell’incarico affidato dal B. di uccidere un rivale, ed aveva dimostrato di essere ben informato sulle logiche del clan; – Va.Fe. era esponente di spicco dell’omonimo clan ed aveva interessi in comune col clan Giostra soprattutto in materia di estorsioni e quindi ben conosceva le logiche del clan;

– ce.Sa. aveva rapporti diretti con B.G. ed aveva in animo di fondere i due gruppi criminali e quindi ben conosceva le dinamiche del clan amico;

– ma.To. aveva deciso di cambiare vita dopo una lunga detenzione e una conversione religiosa, aveva subito la perdita del figlio, ma non aveva mai manifestato propositi di vendetta.

La sentenza impugnata passava ad esaminare le posizioni degli imputati in relazione ai singoli reati contestati e premesso che la prova dell’esistenza di una associazione a delinquere denominata clan Giostra risultava provata anche da altre sentenze definitive, rilevava che vi era ampio materiale probatorio anche nel presente processo.

G.G. era stato individuato come capo del clan in diarchia con Mi.Gi. grazie alle dichiarazioni di S., Va., ca. e ma. che lo avevano individuato come colui che era in grado di elaborare strategie operative, di stringere accordi, di prestare assistenza agli affiliati, di ricevere i proventi delle estorsioni, nonchè di azioni violente e crudeli come quella ai danni di Co.Fr. da lui descritta nei minimi dettagli in una intercettazione ambientale; aveva inoltre accumulato un patrimonio assolutamente ingiustificato, visto che solo per alcuni anni aveva svolto il lavoro di manovale; era già stato condannato per partecipazione ad associazione a delinquere in altro processo per il periodo 26/1/1999- 6/12/2002, data nella quale era stato arrestato, ma non poteva sussistere bis in idem stante la diversità dei periodi presi in esame (22/5/2001-8/6/2005) e la differente posizione assunta, là come partecipe qui come capo, elementi che deponevano per la diversità delle associazioni; la parziale coincidenza della prima parte della seconda associazione non era di ostacolo stante appunto la diversità delle associazioni e dei reati fine, nella seconda più ampi.

Mi.Gi. era stato individuato come capo del clan, in diarchia con G.G., da S., ca. e D. che lo avevano descritto come uomo violento e spregiudicato; infatti da semplice gregario era poi assurto ai vertici proprio perchè pericoloso, come confermato da una conversazione intercettata che dava atto a G. di aver saputo contenere la violenza del M. che altrimenti avrebbe commesso un omicidio al giorno; le sue dichiarazioni intercettate confermavano questo lato sanguinario del suo carattere, disposto ad ogni forma di violenza pur di acquisire denaro e potere; il suo ruolo era sicuramente apicale visto che gestiva gli affari della cosca, curava che i sodali fossero assistiti in carcere, teneva i rapporti con le altre cosche, decideva le persone che dovevano essere punite, come il Co., e tali elementi erano riferiti dai collaboratori e confermati da numerose intercettazioni.

C.D. era individuato come appartenente al clan sia da S. che dalla moglie, che ne avevano descritto gli stretti rapporti con M., circostanza confermata anche dal militare Bo. e poichè tale frequentazione non aveva ragioni in legami di famiglia o di convivenza non poteva che essere dovuta a rapporti criminali, tenuto conto della personalità dei soggetti;

C. era stato indicato da S. come uno degli esecutori materiali dell’omicidio Ma., il che presupponeva un rapporto di intraneità e di fiducia, inoltre era stato un protagonista di attività estorsive che continuava direttamente, dopo l’arresto del M..

M.G. era stato individuato come appartenente alla cosca e come partecipe dell’omicidio di Ma. da S. e tale chiamata in reità era confermata da intercettazioni telefoniche, dalle quali risultava che aveva il compito di custodire armi, e partecipava a spedizioni punitive come quella ai danni di Co..

B.G. era stato indicato come associato da S. per conoscenza diretta, da D. per aver commesso insieme dei reati, per essere i due legati da rapporto di fiducia, da ce. che lo aveva indicato come facente parte dello stesso gruppo di M., e dal ma. che gli aveva attribuito la titolarità di un gruppo autonomo facente capo sempre al M.;

tali dichiarazioni non erano tra loro in contrasto perchè facevano riferimento a fasi diverse di affiliazioni; erano inoltre riscontrate da intercettazioni dalle quali emergeva che egli aveva ricevuto aiuti quando era detenuto, partecipava alla ripartizione degli utili delle attività illecite, era visto in rapporto di frequentazione con M.; del tutto irrilevanti erano le assoluzioni dai reati fine che nulla toglievano alla rilevanza dei riscontri probatori utilizzabili; la sentenza quindi poteva essere confermata nei suoi confronti, apparendo la pena del tutto congrua e adeguata.

Cu.Gi. era stato indicato come associato da S., per conoscenza diretta, avendo commesso insieme dei reati come la rapina ai danni di un ufficio postale di (OMISSIS), e tale dato aveva trovato riscontri in conversazioni intercettate dalle quali emergeva che si era lamentato per la ripartizione dei proventi dell’attività illecita, interloquiva su profili organizzativi del clan, era responsabile della custodia di armi; anche nei suoi confronti l’avvenuta assoluzione dai reati fine non precludeva la possibilità di una condanna per l’associazione, visto che alcuni profili dei suoi comportamenti potevano essere rivalutati a questi fini, come la partecipazione alle richieste estorsive; del tutto giustificato appariva il trattamento punitivo per l’allarmante capacità criminale nonostante la giovane età.

T.L. secondo la corte doveva essere condannato in accoglimento dell’appello del P.M. sussistendo a suo carico le dichiarazioni di S. che lo individuava come a capo di un sottogruppo dedito alla gestione del gioco d’azzardo e dei videogiochi, nonchè della detenzione delle armi del gruppo. Elementi di riscontro si rinvenivano in conversazioni intercettate nell’abitazione di G. nelle quali T. invocava l’intervento divino perchè bloccasse le corde vocali al pentito, si interessava per il recupero di refurtiva e ancora discuteva del reinvestimento del denaro proveniente dai videogiochi; tali conversazioni deponevano per il fatto che egli fosse consapevole delle vicende del clan e lavorasse insieme a G.; anche nei suoi confronti non poteva essere invocato il ne bis in idem visto il diverso ruolo rivestito in detta associazione rispetto a quello precedente, e nessun rilievo aveva la circostanza che in quella sede fosse stato assolto, essendosi qui acquisiti riscontri ulteriori rispetto al procedimento Game Over. La Corte passava a questo punto ad esaminare le responsabilità per l’omicidio di Ma.Ca. ed i connessi reati in materia di armi. Principale fonte di prova era senza dubbio S. che sul fatto doveva essere inteso come testimone oculare, avendo affermato di essersi trovato sul luogo e di aver visto la dinamica dell’omicidio; aveva riferito di aver notato il Ma. a bordo di un ciclomotore che scendeva per (OMISSIS), di aver visto i due a bordo di altra moto che lo avevano iniziato a seguire, avevano iniziato a sparare contro di lui e poi lo avevano avvicinato; a seguito dei primi colpi costui aveva tamponato un autobus ed era volato in aria, cadendo a terra, dopo di che i due con la moto lo avevano raggiunto e gli avevano sparato il colpo di grazia mentre era a terra. Il collaboratore aveva riferito che aveva visto gli autori e li aveva identificati in M.G. e C. D., mentre i mandanti erano G. e Mi.Gi..

Aveva riferito che aveva visto tutto perchè si era reso conto di cosa stava accadendo e li aveva seguiti lungo la strada per vedere cosa accadeva per cui aveva assistito a tutto il fatto; si era poi recato da G. e gli aveva raccontato cosa aveva visto, ma il cognato gli aveva detto di sapere tutto e di non preoccuparsi, che l’omicidio era dovuto ad una lite con M. perchè Ma. voleva indipendenza nel traffico di stupefacenti e comunque aveva gestito male il gruppo, dopo l’arresto di Ga.. Aveva anche riferito una frase molto significativa di G. e cioè che non gli importava nulla del fatto che colpissero Ma. e che potevano anche ammazzarlo.

Tali dichiarazioni erano del tutto credibili per la piena corrispondenza ai fatti realmente accaduti iniziati con un inseguimento e terminati con il colpo di grazia. Tale dinamica era stata perfettamente confermata dal perito m., mentre era stata in parte contraddetta dal perito P. secondo il quale tutti i colpi sarebbero stati sparati mentre i veicoli erano in movimento e non vi era stato alcun colpo di grazia. Riteneva la corte che questa ricostruzione fosse inattendibile perchè incompatibile con il tipo e il luogo delle ferite riportate e non costituiva motivo per disattendere la credibilità del teste. Osservava che l’elemento più incisivo riferito da S. era proprio il fatto del tamponamento con l’autobus che solo chi aveva visto i fatti poteva aver descritto con tale precisione; la circostanza che in un primo momento avesse detto che l’autobus saliva lungo la strada, non era rilevante in quanto lui aveva sempre riferito che vi era stato un tamponamento; l’ipotesi della difesa secondo la quale il teste era arrivato sul luogo dopo i fatti e per questo aveva detto che l’autobus saliva, visto che l’autista dopo l’impatto aveva fatto inversione di marcia, non era fondata, avendo egli descritto il tamponamento, e quindi si trattava solo di una imprecisione terminologica. Le contraddizioni della prima parte del racconto avendo egli prima riferito che usciva in auto dalla casa della zia e poi che si trovava in moto per strada per andare dalla suocera, non erano rilevanti perchè riguardavano fatti marginali. La sua versione non era neppure smentita da quella del padre che aveva detto che il figlio si trovava nel suo negozio quando aveva saputo della morte di Ma., in quanto la dichiarazione era stata resa tardivamente, quando erano già iniziate le attività di ritorsione contro la famiglia ed inoltre il negozio del padre era di solito aperto la mattina e non il pomeriggio, così come affermato da ben due testimoni. Parimenti inattendibili erano le dichiarazioni reticenti dell’autista dell’autobus che aveva escluso che dopo il tamponamento fossero stati sparati altri colpi, visto che costui aveva addirittura negato di aver visto che il conducente del motorino fosse morto.

La versione di S. aveva avuto poi riscontro in altre chiamate in reità del tutto indipendenti anche se de relato.

Osservava che in relazione a queste non poteva invocarsi la violazione dell’art. 195 c.p.p. visto che le persone individuate erano state sentite ed era irrilevante che non avessero confermato le dichiarazioni dei dichiaranti ai fini della loro utilizzabilità.

Veniva in primo luogo in rilievo la dichiarazione di ca.

G. che aveva riferito di aver saputo del fatto da b.

P. e A.G., i quali gli avevano spiegato che l’omicidio aveva come causale una lite tra la vittima e M. in relazione a traffici di stupefacenti, che era stato commesso da Mi.Gi. e C. a bordo di uno scooter definito "onesto". Questo particolare individuava l’assoluta attendibilità della chiamata, visto che si trattava di un particolare vero che nessuno poteva sapere, se non chi aveva partecipato alla organizzazione dell’omicidio. Quindi la circostanza che i due avessero smentito ca., non rendeva le sue dichiarazioni inattendibili. Infine costui aveva reso le sue dichiarazioni prima che uscisse l’ordinanza di custodia cautelare e quindi non poteva avere letto quelle notizie in quel documento.

Anche D. aveva riferito i medesimi fatti de relato da ba.Do. e Pa.Sa. sia sugli esecutori sia sul movente; riteneva la corte che la notoria inimicizia del dichiarante col M., a seguito della sua collaborazione, e il fatto che aveva potuto leggere l’ordinanza cautelare non escludevano la sua attendibilità perchè la serie complessiva delle sue dichiarazioni rivelava una conoscenza più approfondita di quella che poteva derivare da una semplice lettura dell’ordinanza; ad esempio sapeva anche quali erano state le reazioni dei familiari di Ma. quando G. si era presentato per fare le condoglianze.

Dichiarazioni sull’omicidio erano poi state rese dal collaboratore ce., de relato da B.; aveva riferito che il vero movente della morte era il fatto che Ma. doveva essere eliminato per lasciare strada libera a G. nella gestione del clan; aveva riferito di aver letto insieme a B. gli atti del processo e quando costui aveva saputo che M. voleva accusare lui, si era adirato ed aveva raccontato a ce. tutta la verità.

Esaminava tutte le contraddizioni rilevate dalla difesa dando di esse una giustificazione. In relazione al coinvolgimento del G. ammetteva che si trattava di sue deduzioni e che il B. non gli aveva detto nulla.

Anche ma. aveva riferito che gli autori dell’omicidio erano M. e C., su ordine di G. e M. così come che la causale era un contrasto nell’attività di spaccio; il collaboratore aveva reso le dichiarazioni in prossimità della sua scarcerazione e de relato da B. insieme al quale era stato detenuto e col quale aveva tessuto rapporti di amicizia. Riteneva la corte che la circostanza che B. avesse attentato alla vita di ma., non intaccava la credibilità di tali confidenze visto che erano state rese nel 2001, molto prima che i rapporti si incrinassero; infine aveva appreso de relato dal proprio figlio, ora deceduto, le stesse dinamiche dell’omicidio. Ulteriori riscontri si rinvenivano nelle intercettazioni presso i familiari della vittima dalle quali si aveva conferma del movente, della ricostruzione della dinamica dell’agguato e delle logiche interne alla cosca che lo avevano determinato; parimenti nelle intercettazioni eseguite in altro procedimento dalle quali emergeva che due malavitosi avevano descritto le modalità dell’omicidio in senso assolutamente conforme alla versione fornita da S. e così il movente. Concludeva nel senso che la chiamata in reità di S. era pienamente fondata e credibile, aveva ricevuto sufficienti riscontri, ed era utilizzabile.

Quanto all’ulteriore obiezione che mentre era ancora in corso questo procedimento lo S. aveva accettato di deporre in altri processi, doveva rilevarsi da un lato che dall’unico verbale di dichiarazioni prodotto era emerso che egli non aveva mutato il proprio atteggiamento in quanto aveva ritrattato le accuse dicendo di non volerne più sapere di queste cose, mentre per gli altri processi la questione era stata proposta dai difensori producendo solo i verbali di udienza e non delle dichiarazioni effettivamente rese da S. e quindi non potevano costituire elemento nuovo ai fini della rinnovazione del dibattimento; parimenti la richiesta di acquisire una sentenza di assoluzione rispetto a soggetti accusati da S. era talmente generica che non era stato possibile nè individuare gli imputati nè la sentenza e comunque trattandosi di fatto del tutto diverso era irrilevante, stante il principio della frazionabilità delle dichiarazioni.

Tutte le richieste di rinnovazione avanzate da M. dovevano essere disattese stante la loro non decisività ai fini del decidere.

Riteneva quindi che doveva essere confermata la condanna per tale omicidio per tutti e quattro gli imputati e per G., non in quanto capo della consorteria, quanto per aver dato il suo consenso o anche solo per non essersi opposto, avendo affermato, come riferito da S., che a lui non gliene importava nulla e che potevano anche ucciderlo; quindi doveva rispondere a titolo di concorso morale, anche perchè la sua opposizione avrebbe di certo impedito l’evento. Invece egli si era prodigato, recandosi sul luogo dell’agguato per intimidire gli eventuali testimoni. Sussistevano le aggravanti contestate; quella prevista dalla L. n. 203 del 1991, art. 7, pur rimanendo inerte ai fini della pena, trattandosi di delitto punito con l’ergastolo, configurava in modo specifico il disvalore della condotta; quella della premeditazione sussisteva potendosi individuare sia il lasso temporale, essendo l’ordine stato dato alcuni giorni prima, sia la predisposizione dei mezzi, quali il reperimento della moto e delle armi.

Sussisteva analoga responsabilità in relazione ai delitti in materia di armi utilizzate per l’agguato. Sussisteva l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 anche in relazione al delitto ascritto a Mi.Gi. al capo B6, per l’arma utilizzata per l’aggressione al Co. visto che lo scopo era quello di zittire la vittima, di intimidirla affinchè non osasse più contrastare il potere del boss. Quanto ai delitti in materia di cessione di stupefacenti ascritti a Mi.Gi., V.G., M.G. e G.G. nei capi da C1 a C15, risultavano provati dagli esiti delle intercettazioni dal contenuto in equivoco, stante l’uso di linguaggio criptico e incongruente rispetto alla conversazione in corso. Correttamente era stata esclusa l’ipotesi lieve per il contesto nel quale tali traffici si erano svolti anche se la quantità di stupefacente trattata non era elevata. La pena era stata calcolata ai fini della quantificazione della pena base in relazione alla gravità dei comportamenti e alla loro continuità.

Quanto ai delitti in materia di estorsione riteneva di dover accogliere l’appello del P.M avverso l’assoluzione disposta dai giudici di primo grado a favore di Mi.Gi. e G. G. per l’episodio relativo ad A.G., in quanto gli elementi di prova raccolti erano sufficienti per addivenire alla loro condanna; le dichiarazioni rese durante le indagini da A. provavano il clima di intimidazione pesante al quale era stato sottoposto, anche se non erano state profferite minacce esplicite, in quanto vi era stata coartazione nella scelta di fornire merce, anche senza essere pagato, scelta costretta dalla personalità di coloro che tutelavano il contraente effettivo; sussisteva anche l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 sotto il profilo dell’impiego della forza intimidatrice del vincolo associativo.

Doveva essere confermata la condanna di Mi.Gi. e C. D. in relazione all’estorsione ai danni di B. D. le cui dichiarazioni erano state acquisite ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, stante la forte intimidazione alla quale era stato sottoposto come emerso dalla circostanza che si era rifiutato di presentarsi in dibattimento e aveva ritrattato le sue accuse; tali eventi non toglievano credibilità alla originaria versione confortata da intercettazioni telefoniche dalle quali emergeva il tono perentorio col quale gli venivano rivolte le richieste contrattuali.

Riteneva invece di dover accogliere l’appello del P.M. verso l’assoluzione di Mi.Gi. in relazione all’estorsione ai danni di N.M. in quanto le conversazioni intercettate provavano le minacciose richieste dell’imputato rivolte alla parte lesa non per un rapporto contrattuale ma per fini di ingiusto profitto; ricorrevano anche in tal caso le aggravanti contestate.

Riteneva di dover confermare la condanna di Mi.Gi. e F.L. in relazione all’estorsione ai danni di L. D. volta ad ottenere l’assunzione lavorativa del F., come riscontrato da intercettazioni telefoniche inequivoche dalle quali emergeva che tale assunzione era avvenuta solo per l’intimidazione posta in essere da Mi., essendo del tutto irrilevante ai fini della configurazione del reato che F. avesse effettivamente bisogno di lavorare ed avesse poi prestato attività lavorativa.

Sussisteva l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 anche sotto il profilo della agevolazione dell’attività dell’associazione, visto che serviva per affermare nel territorio il potere del clan;

non poteva configurarsi il danno di speciale tenuità tenuto conto della coartazione della libera determinazione della vittima.

Riteneva di dover accogliere l’appello del P.M. in relazione all’assoluzione di G.G. per l’estorsione ai danni di tale Ch.An. rilevando che l’omessa individuazione della persona offesa e la sua omessa citazione non incideva sulla sussistenza del reato che risultava provato dalle conversazioni intercettate.

Riteneva di dover confermare la condanna di G.G. in relazione all’estorsione ai danni della srl Pedus Service provata dalle dichiarazioni di S. e Va., dall’elenco degli assunti tutti legati alla cosca, da numerose intercettazioni dalle quali emergeva le modalità di presentazione delle domande e la spartizione dei posti; la circostanza che non vi fosse prova dell’uso di violenza e minaccia era irrilevante tenuto conto del clima complessivo di intimidazione nel quale si svolgevano questi accordi, pena la perdita della protezione.

Riteneva di dover confermare la condanna di G. per l’estorsione ai danni di Ca.Ba. in quanto prova dell’attività estorsiva era stata rinvenuta in una intercettazione telefonica.

Riteneva di dover confermare la condanna di Mi.Gi. per la rapina ai danni della Banca Popolare di Lodi stante la sua confessione raccolta in una intercettazione.

In relazione ai delitti in materia di violazione della legge sulle armi confermava le condanne inflitte a Mi.Gi. in relazione ai capi F1, F2, a M.G. in relazione ai capi F3, limitatamente alla detenzione, F4, F6, F7, F9, F10 e F11, rilevando che per la maggior parte la prova era costituita da risultati di intercettazioni e integrava in tal senso la motivazione del giudice di primo grado che aveva omesso ogni tipo di considerazione al riguardo.

In relazione al delitto in materia di armi ascritto a Be.

G., capo F8, la corte riteneva di dover assolvere l’imputato non sussistendo prove dell’accusa e riteneva di dover invece accogliere l’appello del P.M in relazione al capo F11, per il quale sussistevano prove per ritenere Be. colpevole in concorso con M. per il delitto di porto e detenzione di arma, sulla base di chiare intercettazioni telefoniche.

Confermava la condanna inflitta a Mi.Gi., M. G. e Co.Fr. in relazione al procedimento riunito relativo all’episodio del pestaggio subito da Co. e alle false dichiarazioni da quest’ultimo rese in proposito. Prove dei fatti emergevano da intercettazioni telefoniche e dagli accertamenti di P.G.; non sussisteva alcuna possibilità di riconoscere l’esimente della legittima difesa in quanto, pur essendo vero che Co. era armato, era certo che non aveva fatto alcun uso dell’arma, tanto che uno dei presenti gliela aveva sfilata e l’aveva consegnata a M.; parimenti insussistente era l’eccesso colposo, mancando il presupposto dell’attualità del pericolo e della necessità della reazione; non sussisteva l’attenuante della provocazione, mancando il rapporto tra il fatto ingiusto, cioè il possesso dell’arma, e la violenta condotta del M., visto che il pestaggio era iniziato prima che si sapesse dell’arma.

Il reato di lesioni contestato era perseguibile d’ufficio e non vi era alcuna possibilità di concedere le attenuanti generiche.

In relazione al delitto di favoreggiamento contestato a Co., non sussisteva alcuna possibilità di ritenere la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. in quanto non sussisteva il nesso eziologico tra la falsa ricostruzione dei fatti e la ammissione della propria responsabilità in relazione al delitto di porto illegale di arma; il trattamento punitivo era del tutto adeguato.

Riteneva infine che i motivi di ricorso presentati da tutti gli imputati in materia di trattamento sanzionatorio e concessione delle attenuanti generiche dovessero essere rigettati, stante la loro personalità e la gravità del contesto criminale nel quale i reati erano stati commessi motivando analiticamente per ognuno di loro le specificità che li riguardavano; quanto a Mi.Gi. la circostanza della sua limitata confessione aveva consentito di concedere le attenuanti generiche in relazione ai reati satellite ma non al delitto di omicidio.

Riteneva di dover rigettare le richieste avanzate di riunione in continuazione di tutti i reati da Mi.Gi., da M. G. e da C. non sussistendo prove dell’identità del disegno criminoso in relazione a tutti i reati contestati.

Avverso la decisione presentavano ricorso gli imputati e deducevano quanto a G.G.:

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’applicazione dell’art. 500 c.p.p., comma 4, sussistendo un travisamento degli elementi concreti che avevano indotto i giudici di merito ad acquisire e ritenere utilizzabili le dichiarazioni di S.A.; mancava soprattutto la concretezza di tali elementi che si caratterizzavano invece per la autoreferenzialità;

infatti dell’attentano al collaboratore non era stata trovata alcuna traccia e la telefonata della madre, ben poteva essere falsa, oppure lo stesso collaboratore avrebbe potuto dire il falso alla madre; non vi era prova, delle minacce subite ad opera di Me., visto che il cugino, pur presente, non aveva assistito alla loro pronuncia;

l’attentato al fratello ed al padre ben potevano avere origine privata, visto che si trattava di pregiudicati e che G. e M. erano stati assolti dal tentato omicidio del primo;

S. dopo la perdita della collaborazione non solo aveva continuato a commettere reati ma aveva vissuto indisturbato a (OMISSIS), quindi non temeva nulla, e non era certo possibile motivare sul punto dicendo che in realtà non sapeva dove andare altrove; inoltre dopo l’acquisizione delle sue dichiarazioni S. in altro dibattimento aveva accettato di deporre e quindi le intimidazioni, se anche esistenti in passato, non erano più attuali; le medesime considerazioni dovevano essere fatte anche in relazione all’acquisizione delle dichiarazioni della moglie G. R., visto che non vi era alcuna prova di una situazione di pericolo o di minaccia che la riguardasse;

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’omessa riapertura del dibattimento per sentire lo S. dopo che in altro processo aveva accettato di parlare; la corte territoriale aveva motivato facendo esclusivo riferimento al verbale di udienza preliminare del processo relativo al tentato omicidio dell’Isp. c., e non invece ai verbali di altri due dibattimenti nei quali il collaboratore aveva accettato di riferire cosa sapeva, senza assumere quell’atteggiamento non collaborativo che aveva assunto nel primo caso; orbene di quei verbali non vi era traccia in sentenza; tale decisione era stata assunta dalla corte in violazione delle norme sulla rinnovazione in appello dovendo infatti basarsi solo sulla rilevanza dell’atto istruttorio richiesto e non sul probabile esito con un giudizio ex ante di quanto avrebbe potuto riferire lo S.; in ogni caso era certo che l’esame dibattimentale di S. sarebbe stato decisivo visto che se confermava le accuse si trattava di dichiarazioni importanti e se non le confermava si trattava del venir meno dell’asse portante del processo; la prova richiesta ai sensi dell’art. 603 c.p.p. era certamente una prova nuova, in quanto si era dimostrata la volontà di S. di tornare a parlare quindi la corte aveva l’obbligo di assumerla;

Violazione di legge in relazione all’art. 199 c.p.p. in quanto S. e la moglie avevano reso le loro dichiarazioni in sede di indagini senza che fossero stati avvertiti della facoltà di astenersi in quanto prossimi congiunti di G.G.; pur essendo stata sollevata la questione solo dall’imputato M., tutti erano interessati e non era vero che fosse stata sollevata in ritardo visto che era stata presentata davanti al GUP che però non aveva risposto;

Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. in quanto S. era un tossicodipendente, un assuntore di psicofarmaci, era un simulatore, aveva tentato il suicidio e quindi vi era un’alta probabilità che non avesse capacità di testimoniare, mentre la corte aveva rigettato la questione sostenendo che le sue dichiarazioni non erano state contraddette e quindi con una motivazione del tutto illogica;

Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per l’omicidio Ma. e reati connessi, in quanto il giudizio sulla attendibilità di S. era privo di reale motivazione in quanto oltre alla personalità sopra descritta, aveva anche in più occasioni detto il falso e quindi si era in presenza di un soggetto che costituiva un’ipotesi di scuola di inaffidabilità;

aveva aperto la sua collaborazione con la menzogna e aveva manifestato sentimenti di odio e vendetta nei confronti del G. e le considerazioni della corte su tali punti apparivano risibili visto che limitavano il tutto al rancore per il tentativo del cognato di allontanare da lui la moglie, sua sorella; inoltre gli imputati quando parlavano tra loro non manifestavano preoccupazione per le verità che S. conosceva quanto per quanto avrebbe potuto dire, conoscendo la sua personalità disturbata; l’utilizzo del criterio della credibilità frazionata era stato improprio visto che doveva prima discutersi dell’attendibilità del collaboratore; gli unici altri collaboratori che avevano parlato dell’omicidio Ma. lo avevano fatto de relato e comunque avevano riferito cose che avevano appreso dai giornali; le dichiarazioni di S. erano incongrue in quanto una prima volta aveva detto che si trovava in auto e stava uscendo dall’abitazione della zia, poi aveva dichiarato che era in moto e stava andando dalla suocera, si trattava di un cambio di versione non casuale ma dovuto alla necessità di adattare il suo racconto alla veridicità dello stesso visto che se fosse stato in auto non avrebbe potuto avvicinarsi al luogo del fatto;

inoltre aveva anche dichiarato che l’autobus saliva la strada mentre invece la sua posizione finale era quella solo perchè l’autista aveva fatto inversione di marcia ed era tornato indietro; l’intera descrizione dell’azione e del suo comportamento apparivano prive di credibilità comune, come il fatto che lui pregiudicato fosse rimasto sul luogo, che gli autori fossero privi di casco; le spiegazioni fornite dalla corte erano prive di logica; tutte le notizie fornite dal collaboratore erano già state pubblicate sulla stampa; al racconto di S. non era stato acquisito alcun riscontro visto che le dichiarazioni degli altri collaboratori non avevano introdotto alcun elemento di novità ed avevano riportato solo notizie di giornale; la corte non aveva analizzato la credibilità soggettiva dei collaboratori ed aveva valorizzato circostanze risultate false, come per D. che la moglie di Ma. avesse ai funerali aggredito G. accusandolo di essere l’autore, i testi di riferimento Pa. e C., lo avevano smentito; le intercettazioni sull’auto in uso ai familiari di Ma. non avevano fornito alcun riscontro; il padre ed il fratello di S. avevano smentito il collaboratore ed in particolare L. aveva detto che nell’immediatezza del fatto S. gli aveva fatto solo il nome di M. e non di G.; vi era poi la ricostruzione effettuata dal perito della Corte P. che aveva fornito una visione completamente nuova del fatto, giungendo alle conclusioni che i tre colpi erano stati sparati tutti mentre Ma. era in movimento e non a terra, ricostruzione in aperto contrasto con quella del perito m. che però aveva avuto la possibilità di studiare le carte processuali e soprattutto la testimonianza di S.; la valorizzazione della seconda perizia rispetto alla prima appariva illogica; la corte territoriale aveva poi costruito la condanna nei confronti di G. sotto il profilo del concorso morale per non essersi opposto all’evento senza però specificare la fonte di tale comportamento e limitandosi a considerare che una sua eventuale opposizione avrebbe di certo impedito l’evento; non costituiva prova del fatto la frase a lui attribuita nella quale affermava che non gliene importava niente e che potevano pure ucciderlo in quanto con essa manifestava solo disinteresse all’evento; la sua presenza sul luogo del fatto dimostrava poi che egli non sapeva neppure dove sarebbe stato commesso l’omicidio;

l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 non sussisteva in quanto la causale dell’omicidio riguardava un conflitto con M.;

Violazione di legge in relazione all’art. 649 c.p.p. per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. in quanto G. era già stato condannato con sentenza definitiva per lo stesso reato commesso dal (OMISSIS) con condotta aperta, chiusa solo con la sentenza di primo grado pronunciata il 31/10/2006; invece l’attuale associazione era contestata dal 22/5/2001 fino all’8/6/2005 e quindi era interamente assorbita nella precedente condanna; si trattava della medesima associazione e quindi contestato era il medesimo fatto, essendo del tutto irrilevante il ruolo rivestito;

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per violazione della legge stupefacenti di cui al capo D8 in quanto fondata solo su una conversazione intercettata priva di un significato univoco;

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per il capo D9, estorsione ai danni della s.r.l. Pedus Service, mancando ogni prova della pronuncia di minacce o dell’uso di violenza e risultando invece che le persone assunte prestavano effettivamente attività lavorativa, mancando quindi l’ingiusto profitto con l’altrui danno; in relazione alla condanna per il capo D1, estorsione ai danni di A., mancando ogni condotta minacciosa o violenta e emergendo la circostanza che la persona offesa aveva presentato querela per truffa contro uno degli imprenditori proposti da G.; in relazione alla condanna per il capo D8, estorsione ai danni di tale Ch., essendo stata pronunciata sulla base solo di una conversazione intercettata senza che fosse stato possibile identificare la persona offesa; in relazione alla condanna per il capo D11, estorsione, mancando ogni motivazione sulle fonti di prova e sul fatto essendosi limitata la sentenza a riferire dell’esistenza di intercettazioni;

– Difetto di motivazione sulla determinazione della pena e sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, essendosi la corte limitata a formule di stile;

– Con motivi aggiunti deduceva la nullità della sentenza per essere stata pronunciata da un giudice popolare, affetto da gravi problemi psichici in quanto alcolista cronico, affetto da sindrome depressiva e che aveva tentato il suicidio, così come dimostrato dalle cartelle cliniche prodotte dalla difesa; osservava di aver saputo tali circostanze solo dopo la pronuncia della sentenza.

Mi.Gi.:

– Violazione di legge, travisamento della prova e illogicità della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., comma 4, motivi del tutto sovrapponibili a quelli presentati nell’interesse di G. ai quali si aggiungevano le seguenti osservazioni; la corte aveva omesso di considerare la motivazione con la quale il Ministero dell’Interno aveva revocato il programma di protezione di S. facendo riferimento ad atteggiamenti che avevano compromesso i requisiti di riservatezza del suo status e del suo domicilio e la commissione di reati; travisamento della perizia m. nella parte in cui la corte aveva ritenuto possibile che dal punto in cui si trovava lo S. potesse vedere l’evento, circostanza non riferita dal perito; attendibilità della ricostruzione effettuata dal perito P., non valorizzata dalla corte; omessa assunzione della prova decisiva del confronto tra i due periti per eliminare ogni dubbio sulla dinamica dell’agguato;

– Violazione di legge in relazione alla ritenuta aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7 contestata per il delitto di omicidio punibile con l’ergastolo in quanto desunta solo dalla circostanza della successiva omertà, mentre la causale sarebbe di natura privata e le stesse modalità esecutive non avrebbero avuto nulla di mafioso;

tale aggravante doveva essere esclusa anche da tutti gli altri delitti contestati al M., avendo egli agito sempre per motivi personali;

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla omessa concessione delle attenuanti generiche in relazione ai reati legati all’omicidio Ma., nonostante la piena confessione;

– Violazione dell’art. 81 cpv. c.p. sulla base di affermazioni apodittiche e contraddittorie visto che la morte di Ma. aveva avvicinato i clan Minardi e Gatto, prima acerrimi nemici, e dopo il fatto le due compagini si erano riunite; inoltre la corte pur avendo riconosciuto la continuazione in relazione agli altri delitti aveva comminato la stessa pena con conseguente violazione di legge;

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per i reati di estorsione, violazione legge sulle armi e sugli stupefacenti, essendosi basati su fonti insufficienti quali intercettazioni e deposizioni di persone offese che avevano negato ogni minaccia; inoltre la deposizione del Be. era del tutto inaffidabile trattandosi di persona pregiudicata, tossicodipendente e gravata da debiti;

– Violazione di legge, illogicità della motivazione e travisamento della prova in relazione alla condanna per le lesioni ai danni di Co., avendo escluso la legittima difesa, l’eccesso colposo e la provocazione sulla base del fatto che Co. non aveva fatto uso dell’arma, mentre era certo che M. aveva aggredito la vittima proprio perchè sapeva che era armata.

M.G.:

– Violazione di legge, travisamento della prova e illogicità della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., comma 4, in relazione all’acquisizione delle dichiarazioni di S., motivi del tutti sovrapponigli a quelli presentati nell’interesse di G. e Mi.Gi. ai quali si fa quindi riferimento;

– violazione dell’art. 577 c.p. nella parte in cui era stata ritenuta la premeditazione in relazione all’omicidio Ma., visto che con riguardo al M. tutto si era svolto nel giro di pochi minuti senza che avesse avuto il tempo di meditare su quanto stava accadendo;

– violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna dell’indagato per tutti gli altri reati; per il delitto associativo non vi era prova che l’omicidio Ma. rientrasse in tale ambito e quindi che potesse costituire elemento di riscontro alle dichiarazioni di S.; per i reati in materia di armi le intercettazioni non costituivano fonte di prova univoca visto che non si era data ingresso alla perizia fonica per accertare chi fossero i dialoganti;

Cu.Gi.:

– Violazione di legge, travisamento della prova e illogicità della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., comma 4, in relazione all’acquisizione delle dichiarazioni di S., motivi del tutti sovrapponibili a quelli presentati nell’interesse di G. e Mi.Gi. ai quali si fa quindi riferimento;

– violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di partecipazione al delitto associativo, tenuto conto della sua assoluzione dai reati fine; inoltre le dichiarazioni di S. sul punto sarebbero di coimputato nel medesimo reato e quindi potrebbero essere utilizzate solo insieme ad altri elementi di prova, mentre nel caso di specie non solo erano inattendibili per la personalità del dichiarante, ma poi erano del tutto prive di riscontri, visto che le intercettazioni telefoniche citate dalla corte dimostravano che Cu. non riceveva assistenza in carcere proprio perchè non affiliato; prive di rilievo erano le sole frequentazioni con B. e il recupero di dichiarazioni rese dalla persona offesa Be., visto che per il reato da lui denunciato tutti gli imputati erano stati assolti;

– motivazione illogica e violazione di legge in relazione al trattamento punitivo e alla omessa concessione delle attenuanti generiche, avendo utilizzato solo clausole generiche.

C.D.:

– Violazione di legge, travisamento della prova e illogicità della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., comma 4, in relazione all’acquisizione delle dichiarazioni di S., motivi del tutti sovrapponibili a quelli presentati nell’interesse di G. e Mi.Gi. ai quali si fa quindi riferimento e in relazione ai quali si aggiungono le seguenti considerazioni; mancava nella motivazione della corte ogni riferimento alla attualità dello stato di minaccia essendosi limitata a far riferimento a dichiarazioni generiche di congiunti privi di riscontri concreti; gli episodi di danneggiamento nei confronti del padre erano avvenuti in epoca successiva alla manifestazione della sua volontà di non rispondere più alle domande dei giudici;

– Violazione di legge, travisamento della prova e illogicità della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., comma 4, in relazione all’acquisizione delle dichiarazioni di Be.Do., fondata su elementi congetturali e inidonei a consentire il superamento del contraddittorio; la persona offesa si era rifiutata di presentarsi e di rispondere, rendendo poi dichiarazioni contraddittorie;

– Mancanza di motivazione e illogicità in relazione alla ritenuta responsabilità per l’omicidio Ma.; l’inattendibilità delle dichiarazioni di S. derivava dal conclamato contrasto con altre emergenze probatorie e dalla contraddittorietà delle sue stesse dichiarazioni; i contrasti riguardavano il mezzo sul quale lui si trovava, la sua presenza sul luogo, smentita dal padre, la possibilità che avesse saputo dai giornali le cose che aveva riferito, il contrasto con la ricostruzione operata dal perito P.; sussisteva una totale mancanza di riscontri visto che gli altri collaboratori avevano riferito de relato circostanze e poi erano stati smentiti dai dichiaranti di riferimento; si trattava comunque di dichiarazioni successive alla lettura delle ordinanze cautelari;

– Mancanza di motivazione in relazione alla responsabilità in merito alla violazione della legge sugli stupefacenti (capo C3), basata solo sul contenuto di intercettazioni tra altri imputati e sul presupposto che il D. di cui si parlava fosse C.;

Mancanza di motivazione in relazione alla condanna per l’estorsione ai danni di Be., avendo la persona offesa escluso di aver subito minacce e non contenendo le conversazioni intercettate la prova del rapporto estorsivo.

Mancanza di motivazione in relazione alla condanna per il delitto associativo basata solo sulla sua presunta responsabilità sia per l’omicidio Ma. sia per l’estorsione Be., in relazioni ai quali reati non vi erano prove.

T.L.:

– Violazione di legge, travisamento della prova e illogicità della motivazione in relazione all’art. 500 c.p.p., comma 4, in relazione all’acquisizione delle dichiarazioni di S., motivi del tutti sovrapponibili a quelli presentati nell’interesse di altri imputati ai quali si aggiungono le seguenti considerazioni; il giudizio di attendibilità del teste S. si fondava non sulla valutazione della sua personalità ma sulle reazioni di altri associati alla notizia della sua collaborazione; la sentenza, che ribaltando la decisione di primo grado aveva condannato l’imputato per partecipazione al delitto associativo, non aveva tenuto conto del fatto che il T. era stato sottoposto ad altro procedimento penale per partecipazione a delitto associativo, sulla base delle dichiarazioni di S., ed era stato assolto definitivamente;

la sentenza impugnata non spiegava le ragioni del ribaltamento della decisione di primo grado;

– Violazione dell’art. 649 c.p.p. in relazione all’assoluzione definitiva per il medesimo reato associativo, basato sulle medesime fonti probatorie e cioè le dichiarazioni di S. e le medesime intercettazioni ambientali; la circostanza che fosse contestato all’imputato un ruolo diverso era privo di rilievo come affermato da numerose pronunce di legittimità.

– Con motivi aggiunti deduceva violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 416 bis c.p. in quanto la condanna risultava fondata su intercettazioni chiaramente fraintese nel loro contenuto; violazione di norme processuali ai sensi dell’art. 585 c.p.p. in quanto i motivi di appello del P.M. erano stati presentati fuori termine.

B.G.:

Violazione di legge e mancanza di motivazione in relazione alla condanna per il delitto associativo basata su dichiarazioni di collaboratori smentite da altri esiti processuali, come quello sulla rapina alle poste di (OMISSIS), nonchè su conversazioni intercettate che nulla di concreto consentivano di rilevare.

V.G.:

Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per violazione della legge sugli stupefacenti in quanto la cessione degli stupefacenti nei rispettivi episodi era priva di riscontri visto che il corriere tramite il quale avveniva la cessione era stato assolto e quindi non vi era alcuna prova che la cessione fosse effettivamente avvenuta; le conversazioni intercettate avevano un contenuto neutro, mentre la corte aveva apoditticamente affermato che si parlava di droga e non era avvenuta l’esatta individuazione di chi usasse l’utenza intercettata;

Omessa concessione dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, nonostante la modestia dello stupefacente trattato e sulla base della frequenza della condotta; in realtà anche questo dato non sussisteva trattandosi di pochi episodi in un arco temporale di circa tre anni, e trattandosi di soggetto tossicodipendente;

– Violazione di legge in relazione alla pena inflitta visto che all’epoca dell’applicazione della sanzione la pena minima era stata ridotta e nonostante ciò la corte era partita dalla pena di 8 anni senza spiegare se si trattava della pena edittale o di una pena superiore al minimo e in tal caso non aveva fornito alcuna spiegazione.

Be.Gi.:

– Violazione di legge e mancanza di motivazione in relazione alla condanna intervenuta in appello per il capo F11, mentre in primo grado era stato assolto, senza una congrua motivazione.

Co.Fr.:

– Mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 384 c.p.p. e motivazione contraddittoria, in quanto le dichiarazioni reticenti erano state rese per la necessità di tutelarsi dal pericolo di essere incriminato per il delitto di porto abusivo di arma; il fatto era stato scoperto nel corso di intercettazioni in altro procedimento e quando era stato sentito Co. aveva detto il falso sul pestaggio che lo aveva colpito; la scriminante sussisteva sia in relazione a quanto sopra riferito e cioè la necessità di evitare rincriminazione per altro reato sia che si volesse ritenere che il Co. aveva detto il falso per salvarsi da ulteriori conseguenze negative per la sua incolumità; la scriminante operava anche se il reato a lui ascrivibile era collegato ai sensi dell’art. 371 c.p.p., lett. B. F.L.:

– Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla condanna per concorso in estorsione, mentre era risultato provato che costui aveva implorato di essere assunto, senza ottenere risposta, e poi, dietro intervento di Mi., aveva ottenuto il lavoro ed aveva svolto la sua prestazione anche se per soli due mesi; dopo essere stato licenziato non ne erano seguite ritorsioni; quindi al massimo sussisteva il delitto di violenza privata; Violazione di legge in relazione all’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 visto che l’azione era stata posta in essere per esaltare la personalità del Mi. e non per favorire l’associazione.

La Corte ritiene che i ricorsi debbano essere solo in parte accolti.

Deve essere annullata senza rinvio la condanna di Co.

F. in relazione al delitto di cui all’art. 378 c.p. in quanto commesso in presenza dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. La sentenza sul punto contiene una motivazione del tutto incongrua in quanto da un lato sostiene che il reato relativo al porto dell’arma non si poneva in un rapporto di consequenzialità immediata rispetto alla necessità prevista dall’art. 384 c.p. in quanto l’imputato ben poteva dire di essere stato aggredito senza dover riferire di aver portato l’arma con se, dall’altro afferma che il mendacio era comunque frutto di una volontaria scelta dettata dal timore di ulteriori atti di ritorsione nei suoi confronti oppure dal sentimento di omertà. Orbene deve rilevarsi l’incongruità di tale motivazione visto che la scriminante opera anche quando il pericolo è quello di un nocumento all’incolumità fisica e tenuto conto della particolare situazione nella quale era stato selvaggiamente pestato difficile appare l’esclusione di tale timore (Sez. 6, 9 aprile 2009 n. 26606, rv. 244403; Sez. 6, 10 novembre 2010 n. 42928, rv. 248810).

Deve essere annullata con rinvio la condanna di G.G. e T.L. in relazione al delitto associativo in relazione alla illogica e incongrua motivazione adottata per escludere la violazione del principio del ne bis in idem. Infatti G. era già stato condannato per il medesimo delitto per un periodo nel quale certamente deve ricomprendersi quello oggetto della presente contestazione, a nulla rilevando la diversità del ruolo assunto ed essendo errato ritenere che la cessazione della prima associazione dovesse farsi coincidere con quella della cattura, visto che trattandosi di contestazione aperta il termine doveva essere individuato in quello della condanna di primo grado.

Parimenti per T. la assoluzione da analogo delitto viene genericamente ritenuta inidonea a precludere il nuovo giudizio con una motivazione tautologica e priva di effettivi riferimenti a quelli che sono gli elementi che la giurisprudenza di legittimità ha individuato per casi analoghi.

Si è sempre affermato che in tema di associazione a delinquere di tipo mafioso irrilevante è il ruolo attribuito all’interno del gruppo ad un determinato soggetto (Sez. 6, 17 gennaio 2003 n. 6262, rv. 227711) mentre al fine di escludere la medesimezza del fatto occorre accertare da parte del giudice di merito se il soggetto sia passato ad una diversa organizzazione criminale ovvero si sia verificata una successione nelle attività tra organismi diversi, mentre nessun rilievo ha un mutamento delle modalità di partecipazione o un mutamento di programma delinquenziale (Sez. 2, 18 gennaio 2005 n. 8697, rv. 230791).

Pertanto il giudice di rinvio dovrà effettuare un nuovo esame volto a verificare se in ambedue i casi si sia trattato o meno della medesima associazione, tenendo presente quanto a G. che, in caso di contestazione aperta, la consumazione del delitto permanente si verifica al momento della pronuncia della condanna in primo grado (Sez. 5, 19 marzo 2009 n. 31111, rv. 244479).

I ricorsi presentati da Be.Gi., F.L., V.G. e B.G. debbono essere dichiarati inammissibili in quanto contengono affermazioni apodittiche e comunque richiedono di effettuare una nuova valutazione dei medesimi elementi valutati dai giudici di merito con argomentazioni non proponibili in sede di legittimità.

Be. si limita a riferire che la corte aveva invertito il giudizio di quella di primo grado assolvendolo dal capo F8 e condannandolo per il capo F11, senza specificare in cosa sarebbe consistito il difetto di motivazione.

F. si limita a contestare il giudizio espresso dalla corte sulla rilevanza della condotta tenuta, ribadendo che non vi era stata alcuna minaccia e che comunque lui aveva lavorato per conto della ditta, circostanze ovviamente irrilevanti visto che nel libero mercato nessuno può essere costretto ad assumere delle persone nella propria azienda perchè il danno è proprio quello di non poter far svolgere l’attività a persone ritenute competenti e quindi utili all’azienda e nel dover invece assumere persone non gradite (Sez. 1, 3 novembre 2005 n. 5639, rv. 233837).

B. si limita a considerazioni generali e aspecifiche di mancanza di motivazione.

V. si limita a contestare il contenuto delle intercettazioni telefoniche dalle quali si era desunta la sua attività di spaccio;

era del tutto irrilevante ai fini della condanna la circostanza che il corriere individuato nel capo di imputazione fosse stato assolto;

la motivazione sull’insussistenza del fatto di lieve entità appare congrua e legata alla gravità del contesto criminale nel quale le azioni venivano compiute e quindi appare del tutto congrua e logica;

in relazione alla pena applicata la corte osservava che essa appariva congrua anche oggi, nonostante la riduzione del minimo edittale a sei anni alla luce della gravità del contesto criminale.

La Suprema corte ha affermato che in caso di modifica del trattamento sanzionatorio in senso più favorevole al reo la decisione non è illegittima se il giudice ha motivato la pena base sulla base della gravità del fatto e non dell’essersi adeguato al minimo edittale (Sez. 2,11 febbraio 2010 n. 18159, rv. 247460) e nel caso di specie può ritenersi che una motivazione in tal senso è presente.

I restanti ricorsi debbono essere rigettati.

Tutti i motivi di ricorso inerenti alla contestazione delle ordinanze dibattimentali con le quali si era deciso di acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese da S.A., G.R. e Be.Do. ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, in quanto trattavasi di persone che avevano subito minacce alla persona proprie e dei propri familiari, appaiono congruamente motivate con riferimenti a elementi concreti così come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità. In relazione ai primi due deve rilevarsi che, pur avendo la corte richiamato analoghe ordinanze emesse prima dal GUP, in separato processo, e poi dalla corte di primo grado, in realtà non aveva omesso la motivazione anzi si era sforzata di motivare su tutti gli elementi nuovi sopravvenuti.

In relazione all’attentato subito da S. non vi era alcuna ragione di dubitare del fatto che la telefonata della madre ai carabinieri fosse vera, tenuto conto del tono usato e della possibilità di un ascolto diretto della stessa dalla quale poter ricavare il clima di terrore che traspariva dalle sue parole, anche se i carabinieri non avevano trovato riscontri oggettivi al fatto.

Parimenti in ordine alla minaccia subita in pieno centro mentre si trovava in compagnia del cugino; la sentenza infatti riferiva della agitazione che aveva preso il collaboratore dopo l’incontro e del clima di paura nel quale viveva S., anche se il cugino non aveva percepito la parte finale della frase. Si tratta di considerazioni logiche che non possono essere contraddette da gratuite affermazioni di simulazione, queste si apodittiche.

La motivazione della scelta di iniziare la collaborazione, cioè quella di cercare di impedire vendette nei confronti dei familiari, rivelata dal collaboratore dopo un primo tentativo falso di dare altre giustificazioni quali quella di essere stato incaricato di effettuare un omicidio, ha trovato un rilevante riscontro proprio nell’attentato al fratello che quindi viene collocato nella giusta dimensione temporale e cioè dopo la scelta di collaborare e come giustificazione della successiva rinuncia. Non può dimenticarsi che la moglie G.R. aveva riferito dei colloqui tra il fratello e il marito nei quali il primo aveva prospettato la necessità di punire i suoi familiari e cioè il padre ed il fratello di S., e non vi è alcuna ragione di dubitare della veridicità di tali dichiarazioni.

Certamente singolare è poi l’azione compiuta dai due fratelli che si sono decisi a commettere una rapina per procurarsi un’arma a fini difensivi, ben sapendo che questo avrebbe comportato la fine del programma di protezione, e certamente non si tratta di una motivazione illogica o incongrua, visto che la condanna dei due fratelli per tale fatto, ha tenuto conto di questa circostanza di attenuazione della responsabilità.

Il clima di minaccia e intimidazione emerge anche da alcune intercettazioni di colloqui dalle quali emerge la volontà dei vertici associativi di mettere a tacere lo S., dagli attentati subiti all’attività commerciale del padre e dai suoi tentativi di screditare il figlio allo scopo di imporgli il silenzio.

L’insieme di tali elementi ben poteva costituire la base concreta per ritenere non volontaria la scelta di non rispondere in dibattimento ma dovuta alla necessità di non perdere la vita, come chiaramente affermato davanti a più di un giudice da parte del collaboratore.

Analoghe considerazioni valgono anche per la moglie; in relazione alla sua posizione i motivi di ricorso si sono limitati a considerazioni generiche e cioè al fatto che la stessa non aveva mai denunciato minacce.

L’acquisizione dei verbali di Be. in relazione all’estorsione da lui ricevuta trova piena giustificazione nel comportamento tenuto di rifiuto non solo di deporre ma addirittura di recarsi in tribunale, con accettazione di tutte le conseguenze anche penali di tale comportamento, protratto fino al punto di ritrattare in modo plateale, una volta costretto a intervenire, le precedenti dichiarazioni senza alcuna motivazione.

Analogamente da rigettare sono i motivi di ricorso sul diniego della rinnovazione dibattimentale inerente una nuova audizione dello S.. Infatti contrariamente a quanto sostenuto nei motivi le produzioni difensive hanno riguardato un verbale nel quale il collaboratore aveva affermato che non aveva alcuna intenzione di dire nulla e che ritrattava ogni precedente dichiarazione ed altri verbali nei quali, pur avendo egli manifestato la volontà di parlare, non erano riportate neppure in forma riassuntiva le dichiarazioni rese, il che non consentiva di valutare la rilevanza delle stesse ai fini di una rinnovazione del dibattimento. Si trattava cioè di elementi che non consentivano di ritenere mutato il quadro che aveva indotto la corte ad acquisire i verbali delle dichiarazioni rese durante le indagini.

Si trattava di verbali di udienze intervenute dopo il giudizio di primo grado, ma quanto prodotto non era autosufficiente in quanto non consentiva di valutare la sussistenza di una qualche novità rispetto all’atteggiamento del collaboratore; infatti la mera affermazione di voler rispondere non individuava il mutato atteggiamento e non poteva essere individuata come prova nuova ma solo come indizio privo di riscontro. Nè può affermarsi che l’esame delle dichiarazioni effettivamente rese avrebbe comportato, in violazione di legge, che il giudizio del giudice di appello si sarebbe esteso ad un preventivo controllo del contenuto della prova, visto che l’oggetto della ordinanza era l’atteggiamento del pentito che rifiutava di collaborare perchè intimorito.

Quanto alla osservazione che S. aveva continuato a vivere indisturbato a (OMISSIS) per cui da ciò doveva trarsi la prova che nessun timore doveva avere per la sua incolumità, trattasi di rilievo tautologico in quanto da un lato ciò non corrisponde al vero visto che era stato vittima di un attentato, dall’altro le minacce avevano già ottenuto il loro scopo, vista la scelta fatta dal collaboratore di non voler più rispondere. L’attualità della situazione di timore emergeva dalla circostanza che anche nei verbali prodotti dalla difesa egli aveva manifestato l’intento di non voler più essere immischiato in tali vicende e anche quando aveva deciso di rispondere lo aveva fatto per manifestare la scelta di essere chiamato fuori da quel mondo.

I motivi di ricorso inerenti la nullità delle dichiarazioni di S. e G.R. per violazione dell’art. 199 c.p. sono infondati, in quanto da un lato alla sorella R. detti avvisi erano stati dati, come confermato in sentenza, dall’altro emergeva che per S. la questione era stata sollevata solo da M. mentre invece l’unico titolare del diritto a far valere la violazione era G.; comunque la sentenza osservava che trattandosi di una nullità relativa doveva essere rilevata ai sensi dell’art. 181 c.p.p. davanti al GUP, cosa che non si era verificata;

non può ritenersi fondata l’obiezione che G. non aveva potuto rilevarlo prima visto che i verbali erano stati integralmente acquisiti solo durante il dibattimento di primo grado e quindi solo in quella sede si erano accorti della mancanza degli avvertimenti, in quanto la questione aveva una rilevanza per la difesa a prescindere dalla produzione integrale o meno dei verbali, tanto che il M. l’aveva sollevata, anche se non ne aveva interesse.

Debbono essere rigettati anche tutti i motivi riguardanti la credibilità soggettiva e l’attendibilità del collaboratore S., in quanto la corte territoriale ha effettuato una analisi dettagliata dei motivi del pentimento, dell’atteggiamento personale dello S. nei confronti degli accusati, delle falsità riferite e da lui confessate prima che fossero state scoperte e soprattutto non verificabili aliunde perchè solo a lui conosciute; parimenti congrua è la risposta ai motivi che dubitavano della sua capacità a rendere testimonianza, avendo la sentenza motivato sulla mancanza di prove della minorata condizione psicologica del collaboratore o del suo stato di assuntore di psicofarmaci e nulla della motivazione appare illogica o apodittica;

a ciò aggiungasi che ai sensi dell’art. 196 c.p.p. comunque l’esito degli accertamenti sulla capacità a testimoniare non precludono l’assunzione della testimonianza.

Altri motivi di ricorso appaiono poi volti a ritenere l’incapacità a testimoniare sotto il profilo della capacità di intendere e volere del collaboratore ed appare sintomatico che questo taglio sia giunto anche a colpire un giudice popolare oggi indicato come affetto da incapacità di intendere sulla base di cartelle cliniche; è appena il caso di sottolineare l’assoluta irrilevanza di simile deduzione in sede di legittimità, non essendo mai sta rilevata dal presidente della corte e dagli altri giudici popolari. Tali deduzioni appaiono improponibili e infondate per tabulas cioè smentite dai fatti che hanno dimostrato come le dichiarazioni di S. siano state rese in piena coscienza di intendere e di volere, non essendo mai emerso da parte nè dei giudici nè degli inquirenti che lo avevano assunto atteggiamenti contrari alla piena lucidità; così come la funzione di giudice popolare è stata svolta senza alcuna compromissione e senza che mai fosse stato rilevato alcun sintomo di una qualunque anomalia, neppure da parte dello stesso difensore che pure aveva partecipato alle udienze del dibattimento.

Le dichiarazioni di S. risultavano poi confermate da risultati di intercettazioni telefoniche che lungi dal manifestare la preoccupazione degli affiliati per la sua sanità mentale, dimostravano la viva preoccupazione per quanto avrebbe detto, visto che ben sapevano quanto fosse informato sulla attività della cosca, come emerge anche dalle intercettazioni delle donne del clan che sapevano come la maggior parte delle cose gli venivano riferite dalla moglie, sorella di G.. La volontà di far terra bruciata attorno a lui emerge in modo inequivoco dalle dichiarazioni della moglie che rivestendo anche il ruolo di sorella del capo, era stata indotta addirittura ad iniziare le pratiche di separazione.

Fondata è l’osservazione contenuta in sentenza secondo la quale l’odio di S. per il cognato non era antecedente alla collaborazione ma successivo alle dichiarazioni, e strettamente collegato proprio a queste attività di distruzione della sua vita affettiva e familiare; circostanza confermata dal fatto che dopo averlo accusato, all’inizio della sua collaborazione, di avergli proposto l’uccisione di un avversario, aveva subito affermato che tale fatto non era avvenuto.

I ruoli e le attività della struttura associativa, raccontati da S., sono stati confermati proprio dalle intercettazioni telefoniche, talmente chiare che Mi.Gi. si era indotto a confessare una buona parte dei delitti a lui contestati ad eccezione dell’omicidio.

Tutti gli altri collaboratori avevano riferito circostanze e fatti, de relato, ma dai diretti protagonisti, quali B., e comunque fatti inediti come ad esempio per ca. la circostanza che la moto utilizzata per l’omicidio era "onesta", circostanza questa non commentata nei motivi di ricorso. Quanto all’omicidio, il ruolo rivestito da S. è proprio quello di teste oculare e quindi i motivi di ricorso sono tutti volti a individuare le incongruenze delle sue dichiarazioni, ma molta parte della sua versione è confermata dai riscontri oggettivi e cioè dalla ricostruzione dell’evento, e quindi i motivi si risolvono in una diversa ricostruzione dei fatti non prospettabile in cassazione.

La corte territoriale ha preso in esame tutte le incongruenze rilevate, sul mezzo a disposizione del dichiarante il giorno dell’omicidio, moto o macchina, e sul verso di direzione dell’autobus, tutte le contraddizioni emergenti dalla ricostruzione dei due periti, tra loro in contrasto, e ne ha dato una spiegazione congrua e logica; soprattutto la descrizione dell’impatto tra la moto della vittima già attinta dai primi colpi e la posizione dell’autobus garantiva la riproduzione filmica di un fatto verificatisi davanti ai suoi occhi. Non vi è alcuna diversa spiegazione a che S. avesse potuto inventare tale episodio, anche perchè gli esecutori materiali e i mandanti non erano persone a lui in odio. Quanto a G. gli aveva riservato un ruolo molto particolare che, se non vero, difficilmente avrebbe potuto costruire a tavolino, infatti gli aveva attribuito quello di mandante sotto il profilo di non aver impedito l’evento. Probabilmente nella sua mente non si trattava neppure di una accusa; la frase da lui riferita è molto particolare e il contesto nel quale era stata riferita anche, visto che dopo l’evento si era precipitato dal capo per dirgli proprio che nel suo territorio gli altri avevano commesso un omicidio, e lui lo aveva tranquillizzato dicendogli che lo sapeva e che a lui non interessava che venisse ucciso.

Deve essere confermata la condanna di tutti gli imputati anche in relazione ai delitti di estorsione loro ascritti, apparendo irrilevante la mancanza di minacce palesi, ed essendo sufficiente il clima di intimidazione, emergente anche dai colloqui telefonici, nel quale venivano trattati i rapporti contrattuali attinenti sia alla fornitura di materiali sia all’assunzione di persone, esempi tipici del controllo del territorio da parte dei clan mafiosi.

Parimenti confermata deve essere la sentenza in relazione ai reati in materia di armi e di spaccio di stupefacenti, sussistendo prove certe desunte dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Infine deve essere confermata la condanna inflitta ai fratelli M. per il pestaggio di Co., avendo correttamente motivato la corte sulla insussistenza delle scriminanti invocate, visto che l’arma era stata sottratta a Co. da un avventore, prima che gli imputati si accorgessero che l’aveva, e quindi non sussisteva alcun pericolo vero o presunto da contrastare e neppure la provocazione visto che il pestaggio era iniziato prima che vedessero l’arma. Se ne deve concludere quindi che va confermata la sentenza in ordine a tutti i reati contestati in punto di prova della responsabilità, dovendosi restituire al giudice di rinvio la posizione di G. e T. limitatamente alla sussistenza del bis in idem in relazione al delitto associativo. Il motivo aggiunto di ricorso presentato da T. avente ad oggetto la tardività dell’appello del P.M. è manifestamente infondato in quanto anche per i processi in materia di criminalità organizzata la regola secondo la quale non opera la sospensione dei termini feriali vale solo per le indagini preliminari e non invece per il dibattimento, con la conseguenza che ai fini della presentazione dell’impugnazione al termine ordinario debbono essere aggiunti di 45 giorni di sospensione feriale (S. U 15 luglio 2010 n. 37501, rv. 247994; Sez. 4, 27 giugno 2007 n. 41834, rv.

237983). Tutti i ricorrenti, tranne Co., T. e G., debbono essere condannati al pagamento delle spese processuali, e B., Be., V. e F. anche al pagamento della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Co.Fr. trattandosi di persona non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., comma 2;

annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria nei confronti di T.L. e G.G., limitatamente al reato di cui all’art. 416 bis c.p.;

rigetta nel resto il ricorso di G.;

rigetta i ricorsi di C.D., Cu.Gi., M.G. e Mi.Gi.; dichiara inammissibili i ricorsi di B.G., Be.Gi., V. G. e F.L.;

condanna tutti i ricorrenti, tranne, Co., T. e G., al pagamento delle spese processuali e B., Be., V. e F. anche al pagamento di euro 1000 ciascuno alla Cassa delle ammende.

Condanna i ricorrenti, esclusi Co. e T., anche alla rifusione delle spese delle costituite parti civili, Comune di Messina e Associazione Antiracket Messina, che liquida in Euro 4800, oltre I.V.A. e C.P.A..

Rimette alla decisione definitiva la pronuncia delle spese concernenti l’azione civile nei confronti di T.L..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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