Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 26-05-2011) 06-07-2011, n. 26364

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il tribunale di Rimini, con sentenza del 27 aprile del 2009, ha condannato T.A. alla pena di Euro 1.034,00 di ammenda, quale responsabile del reato di cui alla L. 14 luglio 1965, n. 963, art. 15, lett. c) e successive modificazioni, per avere, nella sua qualità di legale rappresentante della società denominata" Tebaldi Angelo s.a.s.", sita in (OMISSIS), detenuto all’interno del magazzino adibito a smistamento di prodotti ittici kg 20 di vongole allo stato di novellarne. Fatto accertato il 19 gennaio del 2005.

A fondamento della decisione il tribunale osservava che le norme regolamentari di cui al D.P.R. n. 1639 del 1968 e decreto n 13941 del 2000, le quali prevedono una tolleranza del 10% sul pescato, vanno disapplicate perchè in contrasto con la normativa comunitaria che non contempla alcuna deroga in materia di pesca del novellame, come statuito da questa Corte con la decisione n 39345 del 2007.

Ricorre per cassazione l’imputato sulla base di un unico articolato motivo, con il quale lamenta l’erronea applicazione della legge dovendo considerarsi legittima la tolleranza del 10% sul pescato.

Assume che la sentenza impugnata, la quale si limita ad aderire acriticamente ad un orientamento espresso dalla sent. n. 39345/2007 della sez. 3^ di questa Suprema Corte, non considera come, proprio in virtù dell’art. 2 di quello stesso Regolamento, gli Stati membri che si affacciano sul Mediterraneo possono legiferare in materia, pur essendo vincolati a considerare la pesca e la detenzione del novellarne come un’attività non consentita. Tale principio comporta la piena applicabilità della normativa nazionale, dato che il nostro Stato ha già una legge nel settore che considera come reato la condotta poi vietata dal regolamento Europeo. Inoltre la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno non può implicare una rinuncia ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico.

Tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale esiste pur sempre una relazione di supremazia condizionata. Inoltre per il principio di offensività non si possono punire comportamenti che non ledono o mettono in pericolo il bene giuridico di volta in volta tutelato. Nel nostro caso, infatti, il bene giuridico che si vuole tutelare è il ripopolamento marino e, di conseguenza, il principio di offensività comporta che la incriminazione di un fatto attinente alla pesca è giustificato solo se offensivo di quel bene. Questa prospettiva interpretativa deve, pertanto, secondo il ricorrente, condurre a ritenere pienamente applicabile, sia il D.P.R. n. 1369 del 1968 sia il D.M. 22 dicembre 2000, che sanciscono il limite di tolleranza, dato che il ripopolamento marino non può di certo essere compromesso dalla cattura di esigue quantità.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza del motivo perchè il giudice del merito ha applicato il più recente ed ormai consolidato orientamento di questa Corte in forza del quale deve essere disapplicata la normativa contenuta nel D.M. 22 dicembre 2000, art. 3, comma 2, lett. a), che ammette una tolleranza di novellarne di non più del 10% calcolato sull’intero pescato, in quanto contrastante con la normativa comunitaria contenuta nel Reg CE del 17 giugno del 1994 n 1626, la quale non prevede alcuna deroga al divieto di pesca e commercializzazione del novellarne ed è direttamente applicabile negli Stati membri (cfr. Cass. n. 5750 del 2007; n. 13751 del 2007, n. 39345 del 2007, n. 39345 del 2007, n. 23829 del 2009, n. 38087 del 2009).

La Corte costituzionale, con la sentenza 5.6.1984 n. 170, ha affermato che, nelle materie riservate alla normazione della Comunità Europea, il giudice ordinario deve applicare direttamente la norma comunitaria, la quale prevale sulla legge nazionale incompatibile, anteriore o successiva; ciò in quanto l’ordinamento dello Stato e quello della Comunità Europea sono due sistemi reciprocamente autonomi e, al tempo stesso, coordinati secondo le previsioni del Trattato di Roma, la cui osservanza forma oggetto, proprio in forza dell’art. 111 Cost., di una specifica, piena e continua garanzia. La medesima Corte, con la sentenza del 19.4.1985 n. 113, dopo aver ribadito che, allorquando una fattispecie cada sotto il disposto della disciplina prodotta dagli organi della comunità Europea immediatamente applicabile nel territorio dello Stato e dopo avere aggiunto che la regola comunitaria deve ricevere, da parte del giudice statale, necessaria ed immediata applicazione, pure in presenza di incompatibili statuizioni della legge ordinaria dello Stato, non importa se anteriore o successiva, ha precisato che tale principio deve essere rispettato, non soltanto ove si tratti di disciplina prodotta dagli organi della Comunità mediante Regolamento, ma anche di statuizioni risultanti da sentenze interpretative della Corte di Giustizia. L’ordinamento comunitario risulta così integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per tali Stati di fare prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordinamento comune (Corte Giust causa 6/64, Costa c. Enel).

L’affermazione del principio della diretta efficacia del diritto comunitario non potrebbe costituire una garanzia sufficiente per i cittadini degli Stati membri nelle ipotesi in cui una disposizione statale dovesse contrastare una norma comunitaria. Se la norma statale dovesse prevalere su quella comunitaria i diritti attribuiti ai singoli dall’ordinamento comunitario non troverebbero alcuna tutela. A questo scopo è stato elaborato il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno elaborato dalla Corte di Giustizia proprio con riferimento specifico ai regolamenti comunitari che sono atti normativi con "portata generale", "obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri", ex art. 249 TCE Per quanto concerne in particolare l’incidenza del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati membri non si è mai dubitato della immediata efficacia in bonam partem del diritto comunitario, con la conseguente disapplicazione, totale o parziale, delle norme penali interne eventualmente incompatibili (vedi Cass., Sez. 3A, 1.7.1999, Valentini, riferita alla L. n. 903 del 1977, sanzionante il divieto di lavoro notturno per le donne nelle aziende manufatturiere anche artigianali, ritenuta in contrasto con la Direttiva 76/207/CEE, come interpretata dalla Corte di Giustizia). Diversa è la problematica dell’influenza in malam partem – che deve misurarsi con il principio di legalità, con la teoria delle fonti e con la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 5 cod. pen. – allorchè il significato di una norma penale dipende dalla sua integrazione con altre norme A quest’ultimo proposito nella sentenza n. 39345 del 2007 di questa Corte si è precisato che deve distinguersi il caso in cui l’eterointegrazione incida soltanto sulla definizione del fatto, dai casi nei quali incida sullo stesso precetto. In materia di novellarne secondo tale decisione, che questo collegio condivide, l’eterointegrazione incide sulla mera specificazione di elementi della fattispecie già esaurientemente espressi e definiti nel nucleo significativo essenziale dalle scelte valutative della legge penale. Invero, la sanzione prevista dalla L. n. 963 del 1965, art. 24 si correla, infatti, alla violazione del divieto di commercio del novellarne posto dal precedente art. 15, lett. c) che non ha carattere generico e non ha bisogno, per concretizzarsi e divenire attuale, di essere necessariamente integrato dal contenuto di atti normativi secondari.

Soltanto una specificazione tecnica di dettaglio è demandata, al riguardo, al Regolamento sulla disciplina della pesca marittima n. 1639/1968 come modificato da successivi decreti ministeriali, i quali non possono porsi in contrasto con il Regolamento CE n. 1624/94 che non introduce nuove fattispecie incriminatrici rispetto a quelle già previste dalla legge penale italiana. Ove il conflitto si manifesti in forma d’incompatibilità evidente (come nella vicenda in esame) il giudice è tenuto, pertanto, a non applicare la disposizione secondaria contrastante con quella di fonte comunitaria.

Per quanto concerne il riferimento al principio di necessaria offensività della condotta per la configurabilità del reato, richiamato dal ricorrente, per il quale il ripopolamento marino non potrebbe essere compromesso dalla cattura di esigue quantità di novellarne e pertanto legittimamente, con la norma regolamentare, sarebbe stata ritagliata un’area di non punibilità per una condotta non lesiva del bene protetto, si deve ribadire quanto già osservato da questa Corte con la sentenza dianzi citata, Con tale decisione si è rilevato che, dovendo la percentuale tollerata essere calcolata sull’intero pescato, come stabilito dal D.M. 22 dicembre 2000 e non rispetto ad ogni confezione di prodotto, secondo la previsione regolamentare anteriore, non sarebbe praticamente possibile controllare l’effettiva offensività del fatto se il reo non viene sorpreso nel momento in cui pesca Infatti qualsiasi detentore di novellarne potrebbe sostenere che il prodotto da lui detenuto e posto in vendita rientri nella percentuale del pescato. Di conseguenza la previsione regolamentare rende di fatto nella stragrande maggioranza dei casi non punibile qualsiasi condotta finalizzata alla commercializzazione del novellarne, vanificando non solo il divieto contenuto nella mormativa nazionale, ma anche quello della norma comunitaria.

L’inammissibilità del ricorso per la manifesta infondatezza dei motivi impedisce di dichiarare la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni munite di questa Corte con la sentenza del 22 novembre del 2000 De Luca Dall’inammissibilità del ricorso discende l’obbligo di pagare le spese processuali e di versare una somma, che stimasi equo determinare in Euro 1000,00, in favore della Cassa delle Ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa del ricorrente nella determinazione della causa d’inammissibilità secondo l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000.

P.Q.M.

LA CORTE Letto l’art. 616 c.p.p.;

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2011

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