Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-05-2011) 06-07-2011, n. 26258 Aggravanti comuni danno rilevante

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. B.L. e D.C.R. venivano assolti, con sentenza del tribunale di Napoli in data 16 aprile 2008, dalle imputazioni loro ascritte.

2. Al B. era stata contestata la violazione dell’art. 323 c.p., e art. 61 c.p., n. 1 (capo A), art. 605 c.p., e art. 61 c.p., n. 2 (capo B), artt. 582 e 585 c.p., in relazione all’art. 576 c.p., comma 1, n. 1 e art. 577 c.p., comma 1, n. 4, nonchè art. 61 c.p., n. 9 (capo C), art. 368 c.p., e art. 61 c.p., n. 2 (capo D), art. 479 c.p. e art. 61 c.p., n. 2 (capo E).

3.1 fatti erano commessi in (OMISSIS), in concorso con il collega agente di polizia municipale S.B., in seguito deceduto. Più precisamente, in occasione dell’irrogazione di una sanzione amministrativa per violazione del codice della strada al sig. N.F., obiettore di coscienza intento nell’accompagnamento a scuola di minori a rischio, i due agenti di polizia municipale – per il solo fatto delle sue rimostranze – prima lo colpivano ripetutamente con schiaffi e calci e poi, dopo averlo nel frattempo insultato, lo ammanettavano, lo conducevano a forza nell’autovettura di servizio e lo percuotevano ulteriormente.

Nell’occorso venivano cagionate a N.F. escoriazioni multiple e lesioni personali, giudicate guaribili in due giorni. Il N. veniva poi condotto a forza alla locale stazione di polizia municipale e per tale fatto veniva loro contestato il reato di cui all’art. 605 c.p. (sequestro di persona) per ingiustificata privazione della libertà personale. Con denuncia redatta lo stesso giorno, i due agenti di polizia municipale incolpavano il N. dei delitti di violenza e minaccia a pubblico ufficiale e lesioni personali, pur sapendolo innocente (secondo il capo di accusa).

Infine, formando l’atto di cui al periodo che precede, i due agenti attestavano falsamente, nel verbale di denuncia, di essere stati vittima dei reati ivi indicati.

4. Alla D.C., comandante della Polizia Municipale di (OMISSIS), veniva invece contestata la violazione dell’art. 317 c.p. (concussione), a livello di tentativo, per aver cercato di indurre C.V. a ritirare la querela sporta contro il vigile S.B.; detta querela originava da fatti simili a quelli contestati al B., in quanto allo S. veniva contestato di aver percosso il C. in occasione di un controllo di viabilità e di averlo denunciato ingiustamente per fatti da lui non commessi, formando altresì un falso (sotto il profilo ideologico) verbale. Il tentativo del reato contestato alla D. C. si sarebbe realizzato in due tempi: in un primo momento ((OMISSIS), secondo il capo di imputazione) convocando la madre e lo zio del C. (rispettivamente Co.An. e c. a.), per indurii a convincere il C. stesso dell’opportunità di ritirare la querela. In un secondo momento (la settimana successiva all'(OMISSIS), secondo la prospettazione accusatoria) convocando il diretto interessato e dicendogli che se non avesse ritirato la denuncia avrebbe avuto problemi con la legge poichè si sarebbe sporcato la fedina penale sì da non prendere più un posto statale o comunale, anche perchè lei era un avvocato e avrebbe assistito i suoi colleghi, mentre in caso di ritiro della denuncia lei gli avrebbe annullato la "contravvenzione". 5. Con sentenza n. 4498/10 del 16.06.2010 la Corte d’appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, condannava entrambi gli odierni ricorrenti per tutti i reati loro contestati.

6. Contro la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione B.L., adducendo due motivi di nullità:

1. con il primo motivo di ricorso, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 178 e 525 c.p.p., in quanto vi sarebbe stata una scorretta composizione del collegio giudicante. In particolare, osserva il ricorrente, vi è discordanza tra il verbale di udienza del giorno 16.06.2010 (data di deliberazione della sentenza) e l’intestazione della sentenza. Nel primo figura tra i membri del collegio la dott.ssa Ca.Ro., mentre nell’intestazione della sentenza, ferma restando l’identità dell’altro consigliere e del Presidente, il collegio risulterebbe integrato dalla dott.ssa R.R..

2. Con il secondo motivo di ricorso, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), il ricorrente B. denuncia violazione di legge nell’interpretazione dell’art. 605 c.p., comma 2, n. 2; in particolare, la difesa afferma che non vi fu illegittima privazione della libertà personale del N., in quanto legittimamente lo stesso fu accompagnato presso la stazione di Polizia per procedere all’identificazione (ex artt. 111, 191 e 78, essendosi egli rifiutato di fornire le proprie generalità, così commettendo il reato di cui all’art. 651 c.p.). In secondo luogo, ove dovesse considerarsi illegittimo il comportamento dell’agente di Polizia B., il fatto dovrebbe essere qualificato, secondo la difesa, come arresto illegale, piuttosto che come sequestro di persona.

7. Contro la sentenza n. 4498/10 del 16.06.2010 della Corte d’appello di Napoli ha proposto duplice ricorso anche D.C.R.: con il primo ricorso, depositato dall’avv. Lepre, dopo alcune premesse in fatto (paragrafi da 1 a 4 del ricorso), venivano esplicitate – per il vero in modo non ordinato e senza l’indicazione specifica dei motivi di censura (con riferimento alle precise fattispecie di cui all’art. 606 c.p.p.) – molteplici doglianze, che si cercherà di sintetizzare e di ricondurre nell’alveo dei motivi di ricorso previsti dall’art. 606 c.p.p. Riprendendo le generiche richieste di annullamento con rinvio ex art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e) (formulate in intestazione), per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, inosservanza delle norme processuali, mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, risultante sia dal testo della medesima che dagli atti specificamente richiamati nei motivi di gravame, la difesa nei paragrafi cinque e seguenti del ricorso passa ad indicare i motivi di doglianza sulla sentenza impugnata.

8. Sotto il profilo dell’omessa motivazione, vengono dedotte le seguenti circostanze: certezza che la D.C. fosse a conoscenza della denuncia presentata da C. contro S. e della falsità della denuncia di quest’ultimo; certezza che sia stata la ricorrente a convocare presso di sè il c. è il C.;

certezza che la D.C. fosse già a conoscenza dei precedenti di abuso violento della propria qualità di pubblico ufficiale da parte dello S.; motivi per cui la D.C. dovesse sottrarsi ai doveri di correttezza ed imparzialità del proprio ufficio per favorire lo S.; data della prima tentata concussione;

giudizio di attendibilità delle persone offese; valutazione negativa dell’opzione dell’imputata di non rendere l’interrogatorio e di far acquisire le proprie dichiarazioni al dibattimento; ignoranza da parte della D.C. della differenza tra reati procedibilità ufficio e reati procedibili ad istanza di parte; individuazione del movente dell’illecito della D.C.; elusione dell’implausibilità del secondo incontro concussivo; valenza intimidatoria delle espressioni riferite dalla D.C. al c. ed al C.; assurdità logica dell’atteggiamento dei c. – C..

9. Con riferimento al diverso profilo della contraddittorietà della motivazione, la difesa della D.C. sostiene che l’affermazione della Corte d’appello di Napoli (ove non accoglie la considerazione della difesa, secondo cui furono i c. a compulsare la D. C.) sarebbe contraddetta dalla testimonianza della persona offesa c.d. e della salsicciaio ca.gi..

10. Sotto il profilo dell’inosservanza di norme processuali, la difesa della D.C. deduce che la Corte di appello ha illegittimamente tratto elementi di addebito dalla circostanza che la ricorrente abbia attivato le norme ex artt. 64 e 513 c.p.p.; sotto lo stesso profilo di censura, la difesa lamenta il passaggio della motivazione della sentenza impugnata in cui si nega equipollente valenza dimostrativa ai verbali acquisiti ai sensi dell’art. 493 c.p.p., n. 3, rispetto al testimoniale assunto nel contraddittorio dibattimentale; analogo discorso fa la difesa con riferimento all’art. 192 c.p.p., n. 2, per aver ritenuto sussistente il movente della concussione su una mera ipotesi indiziaria, in assenza di qualsivoglia altro convergente elemento di suggestione; infine, viene censurata la violazione della norma prevista dall’art. 521 c.p.p., che impone la coincidenza del fatto descritto in rubrica con quello ritenuto in sentenza, avendo la corte ha affermato in sentenza che la finalità dell’induzione coercitiva era quella di ottenere dal C. una dichiarazione ritrattatoria, mentre nel capo di imputazione viene indicato che la finalità perseguita dalla D. C. era quella di ottenere il ritiro della querela.

12. Infine, viene dedotta violazione di legge in relazione all’art. 317 c.p., laddove la corte ha riconosciuto valenza di induzione coercitiva alle espressioni utilizzate dalla D.C. per indurre il C. a ritirare la denuncia, sostenendo che ci si troverebbe innanzi a considerazioni colloquiali ineccepibili sotto ogni profilo ed emancipate da qualsiasi forma di intento di prevaricazione in danno di altri.

13. Il secondo ricorso, presentato dall’avvocato Urciuoli, esponeva, con la dovuta specificità e con i corretti riferimenti ai casi di ricorso indicati dall’art. 606 c.p.p., 4 motivi di doglianza:

1. Erronea interpretazione della legge penale in relazione agli artt. 49, 56 e 317 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), nonchè illogicità della motivazione e travisamento del fatto in punto di utilità (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c). In particolare, la difesa evidenzia la oggettiva assenza di utilità nel ritiro della denuncia, qualora si verta in materia di reati procedibili d’ufficio, difettando quindi un elemento costitutivo dell’ipotesi di reato prevista dall’art. 317 c.p.. In secondo luogo, la corte territoriale, nella ricerca dell’utilità perseguita dalla D.C., avrebbe indebitamente sostituito al ritiro della denuncia – oggetto dell’imputazione – la ritrattazione della stessa, con ciò travisando i fatti così come risultanti dall’istruttoria dibattimentale, in considerazione del fatto che la ritrattazione è un elemento totalmente estraneo alle predette risultanze istruttorie.

2. Erronea interpretazione della norma di diritto contenuta nell’art. 317 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b); in particolare, la difesa contesta che vi sia stato abuso di qualità rilevante al fine induttivo in quanto il pubblico ufficiale non avrebbe prospettato una situazione di svantaggio direttamente collegata alle sue qualità di comandante del corpo di polizia municipale; secondo la difesa, non solo l’imputata non era titolare di alcun potere intimidatorio nei confronti dei privati, ma neppure ha fatto loro credere di esserlo.

Anche in relazione al metus, quale elemento inespresso della fattispecie, rileva la difesa che anche questo elemento deve insorgere dalla prospettiva che sia il pubblico ufficiale a poter determinare lo svantaggio, mentre non si rientra nella fattispecie tipica allorchè il privato si accinga alla promessa o alla dazione in quanto tema un evento indipendente ed incerto, ancorchè prospettato dal pubblico ufficiale. Infine, viene rilevata l’assenza concreta, nel caso specifico, del metus publicae protestatis e di qualsiasi altro stato di soggezione, tanto che sia il c. che il C. si rapportarono con la comandante della polizia municipale in modo assolutamente paritetico, nè furono in alcun modo intimoriti dalla sua autorità. 3. Erronea interpretazione della norma di diritto in relazione all’art. 42 c.p., comma 1, artt. 56 e 317 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b); omessa motivazione in punto di dolo (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c). Con il terzo motivo di ricorso, si denuncia l’omessa motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato; in particolare, premesso che la richiesta concussiva deve avere carattere antigiuridico, per cui il tentativo di persuadere un privato al ritiro di una denunzia non fondata sarebbe privo dei caratteri di antigiuridicità richiesti dalla norma, afferma la difesa che anche accertata a posteriori la fondatezza oggettiva delle ragioni dei privati denuncianti, la corte non ha mai ritenuto di porsi dal punto di vista dell’imputata e di vagliarne lo stato soggettivo; laddove, infatti, l’imputata fosse stata nella convinzione che la lite tra il vigile e il privato, cui non aveva assistito personalmente, si fosse svolta nei termini riferiti dal primo, e cristallizzati nella notazione di servizio, la sua condotta non avrebbe potuto considerarsi indebita, risolvendosi nel tentativo di esortare il C. a ritirare una denuncia che riteneva strumentale e priva di fondamento.

4. Carenza assoluta ed illogicità della motivazione in punto di attendibilità dei testimoni (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Infine, con l’ultimo motivo di ricorso, la difesa deduce la carenza ed illogicità della motivazione in ordine all’attendibilità dei testimoni persone offese, ed alla corrispettiva ritenuta inattendibilità dei testi della difesa. Sotto questo profilo si rinviene un errore logico della motivazione, per avere la corte d’appello non tenuto conto del fatto che i testi co. da un lato e F. ed O. dall’altro, si riferivano a due colloqui diversi ed in generale vi sarebbe una illogicità della motivazione, in alcune parti tautologica, con riferimento alla individuazione del numero di incontri tra la D.C. e la famiglia dei c. – C..

Motivi della decisione

Dev’essere prima di tutto esaminata la questione processuale di nullità della sentenza sollevata dal B.; trattasi, in realtà, di un mero errore materiale nell’intestazione della sentenza. La dott.ssa R. (il nome è R. e non R.) aveva fatto parte del collegio in due precedenti udienze (1.04.2009 e 9.10,2009, in cui non era stata svolta alcuna attività istruttoria, essendosi la prima rinviata per "sciopero" degli avvocati e la seconda per impedimento dell’avv. Lepre) ed era poi stata trasferita al tribunale di Napoli in data 11.11.2009 (come risulta dalla certificazione inviata il 24 marzo 2011 dalla Corte di appello di Napoli, agli atti), mentre la dott.ssa Ca.Ro. aveva partecipato alle ultime tre udienze del 2010 (7 aprile, 4 giugno e 16 giugno, data di deliberazione della sentenza). Estensore della sentenza fu il consigliere M., per cui la sentenza risulta firmata dal presidente Ma. e dal suddetto relatore. Dal verbale di causa del 16 giugno, data della deliberazione, il collegio risulta correttamente formato dal consigliere relatore M., dal presidente Ma. e dalla dottoressa Ca.; non vi è, dunque, alcuna difformità tra il collegio che ha proceduto al dibattimento e quello che ha deliberato la sentenza. Semplicemente, per errore dovuto verosimilmente al fatto che la Dottoressa R. aveva partecipato alle prime due udienze di appello, vi è stata un’erronea intestazione della sentenza, tanto che la dottoressa R. viene indicata in essa non con il suo nome ( R.), ma con il nome ( R.) della collega Ca.. Questa Corte dunque, non può che limitarsi alla correzione di detto errore materiale, non riscontrando alcuna nullità che possa dare luogo ad annullamento della sentenza.

Con il secondo motivo di ricorso, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), il ricorrente B. denuncia violazione di legge nell’interpretazione dell’art. 605 c.p., comma 2, n. 2; secondo la difesa non vi fu illegittima privazione della libertà personale del N., in quanto lo stesso fu legittimamente accompagnato presso la stazione di Polizia per procedere all’identificazione (ex L. n. 191 del 1978, art. 11, essendosi egli rifiutato di fornire le proprie generalità).

La censura è fondata e merita dunque accoglimento; secondo il Procuratore Generale non vi è prova del rifiuto del N. di fornire le proprie generalità e, in secondo luogo, l’accompagnamento coattivo scaturisce da un comportamento illegittimo degli imputati, che esorbitavano dai propri doveri istituzionali. Ciò avrebbe consentito al N. di opporre legittimamente un rifiuto ai vigili, ai sensi del D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, art. 4.

Invero, osserva questa corte che l’applicabilità della norma su richiamata poteva al limite discriminare la condotta del N., ma non spiegava alcun effetto sul potere del pubblico ufficiale di condurre il N. presso la stazione di polizia, per procedere alla sua corretta identificazione. L’art. 11 conferisce agli ufficiali e agli agenti di polizia il potere di accompagnare nei propri uffici chiunque, richiestone, rifiuta di dichiarare le proprie generalità ed ivi trattenerlo per il tempo strettamente necessario al solo fine dell’identificazione e comunque non oltre le ventiquattro ore. Il N. ha dichiarato in dibattimento di avere offerto i propri documenti ai vigili urbani, ma l’altro teste diretto dei fatti, cioè il ragazzo che lo accompagnava, ha invece affermato esattamente il contrario, pur essendo stato più volte interpellato sul punto. Senza trasmodare nella valutazione circa la maggiore o minore attendibilità della persona offesa, rispetto al suo collega che la accompagnava, valutazione riservata al giudice di merito, questa corte rileva che non sono stati valutati adeguatamente i presupposti per l’operatività della L. n. 191 del 1978, art. 11.

La condotta del B., pur esorbitante e violenta, pare non potersi sussumere con certezza nella fattispecie di cui all’art. 605 c.p., essendo necessario, anche alla luce della rilevata discordanza istruttoria, su cui la motivazione appare carente, valutare se lo stesso abbia agito correttamente (sotto il profilo della temporanea privazione della libertà personale del N.).

Per tale motivo la corte, previo annullamento, dispone il rinvio ad un’altra sezione della corte d’appello di Napoli, per nuovo giudizio in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui al capo B).

D.C..

Contro la sentenza n. 4498/10 del 16.06.2010 della Corte d’appello di Napoli ha proposto duplice ricorso anche D.C.R.: con il primo ricorso, depositato dall’avv. Lepre, dopo alcune premesse in fatto (paragrafi da 1 a 4 del ricorso), venivano esplicitate molteplici doglianze, con generiche richieste di annullamento con rinvio ex art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e) (formulate nell’intestazione), per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, inosservanza delle norme processuali, mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, risultante sia dal testo della medesima che dagli atti specificamente richiamati nei motivi di gravame.

Sotto il profilo dell’omessa motivazione, vengono dedotte le seguenti circostanze: certezza che la D.C. fosse a conoscenza della denuncia presentata da C. contro S. e della falsità della denuncia di quest’ultimo; certezza che sia stata la ricorrente a convocare presso di sè il c. è il C.; certezza che la D.C. fosse già a conoscenza dei precedenti di abuso violento della propria qualità di pubblico ufficiale da parte dello S.; motivi per cui la D.C. dovesse sottrarsi ai doveri di correttezza ed imparzialità del proprio ufficio per favorire la s.; data della prima tentata concussione; giudizio di attendibilità delle persone offese; valutazione negativa dell’opzione dell’imputata di non rendere l’interrogatorio e di far acquisire le proprie dichiarazioni al dibattimento; ignoranza da parte della D.C. della differenza tra reati procedibilità ufficio e reati con procedibilità all’istanza di parte;

individuazione del movente dell’illecito della D.C.; elusione dell’implausibilità del secondo incontro concussivo; valenza intimidatoria delle espressioni riferite dalla D.C. al c. ed al C.; assurdità logica dell’atteggiamento dei c. – C..

Trattasi evidentemente di censure di merito, spesso generiche, che tendono ad ottenere da questa Corte un’inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio ed una diversa ricostruzione dei fatti. Nel controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia logica e compatibile con il senso comune; l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere, inoltre, percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze. In secondo luogo, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente, per escludere la ricorrenza del vizio di motivazione, che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione anche implicita della deduzione difensiva e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (cfr. Cassazione penale, sez. 2, 05 maggio 2009, n. 24847). Dunque non è possibile per questa Corte procedere ad una ricostruzione alternativa dei fatti, sovrapponendo a quella compiuta dai giudici di merito una diversa valutazione del materiale istruttorio. La sentenza della Corte di Appello di Napoli risulta motivata in modo approfondito, con esame di tutti gli elementi costitutivi del reato e con valutazione congrua degli elementi istruttori.

Anche in relazione all’asserito travisamento dei fatti, la censura non coglie nel segno, giacchè l’esistenza di elementi di dubbio o di contrasto con le altre prove non rende di per se stessa contraddittoria o illogica la motivazione, tanto più se la stessa indica i motivi della prevalenza riconosciuta ad alcuni rispetto ad altri. Il travisamento della prova, comunque, richiede che un dato di essa sia stato letto da parte del giudice di merito in modo tale da condurre all’affermazione dell’esistenza di una specifica circostanza oggettivamente esclusa dal risultato probatorio o alla negazione della sussistenza di una circostanza sicuramente risultante dalla prova. Deve trattarsi, quindi, di un errore che inquini la trama motivazionale dell’intero provvedimento stravolgendola al punto di disarticolarla, con la conseguenza di rendere "ictu oculi" errato il risultato decisorio raggiunto su un punto rilevante e perciò decisivo ai fini della decisione. Solo in tal caso, e sempre che dell’errore il ricorrente abbia fatto una precisa e specifica individuazione tra gli atti del processo, indicando alla Corte, con assoluto rigore, la sua precisa collocazione "topografica", è possibile al giudice di legittimità esaminare quell’atto e procedere all’annullamento della sentenza, ove sia rilevata l’esattezza della deduzione del ricorrente (Cassazione penale, sez. 6, 13 marzo 2009, n. 26149).

Quanto premesso consente a questa Corte di affermare la piena legittimità, sotto il profilo della motivazione, della sentenza impugnata. Peraltro, sul dedotto profilo della contraddittorietà della motivazione, laddove la Corte d’appello di Napoli non accoglie la considerazione della difesa, secondo cui furono c. e C. a compulsare la D.C., va detto che la circostanza è assolutamente irrilevante ai fini del decidere, giacchè la sussistenza del reato contestato alla D.C. non dipende dall’iniziativa dell’incontro, bensì dal comportamento tenuto da quest’ultima in quell’occasione.

Sotto il profilo dell’inosservanza di norme processuali, la difesa della D.C. deduce che la Corte di appello ha illegittimamente tratto elementi di addebito dalla circostanza che la ricorrente abbia attivato le norme ex artt. 64 e 513 c.p.p., ma la Corte si limita a rilevare che a fronte del rifiuto h rendere l’esame sono risultate utilizzabili le dichiarazioni rese davanti al GIP prive però di specifici riferimenti all’incontro con i c.. Ed è ovvio che la mancata sottoposizione all’esame, pur legittima, rende però meno rilevanti le dichiarazioni dell’imputata, in quanto sottratte al contraddittorio dibattimentale, perchè rimangono senza risposta le domande delle parti e manca soprattutto la verifica di attendibilità derivante dalla sottoposizione alle domande incrociate e dalle richieste di chiarimenti.

Analogo discorso si deve fare per quanto riguarda il passaggio della motivazione della sentenza impugnata in cui – secondo la difesa – si nega equipollente valenza dimostrativa ai verbali acquisiti ai sensi dell’art. 493 c.p.p., n. 3, rispetto al testimoniale assunto nel contraddittorio dibattimentale; la prova ha minore pregnanza perchè si sottrae al contraddittorio delle parti e quindi non è possibile far emergere i motivi delle incongruenze ed ottenere dai testi eventuali precisazioni.

Con riferimento all’art. 192 c.p.p., n. 2 (laddove si censura la sentenza per aver ritenuto sussistente il movente della concussione sulla base di una mera ipotesi indiziaria, in assenza di qualsivoglia altro convergente elemento di suggestione), sia sufficiente rilevare come tale circostanza sia oggetto di attenta analisi da parte della Corte e di motivazione assolutamente logica, perciò non censurabile in questa sede (cfr. pag. 21 e 22 della sentenza).

Entrambi i difensori della D.C. censurano la violazione della norma prevista dall’art. 521 c.p.p., che impone la coincidenza del fatto descritto in rubrica con quello ritenuto in sentenza, avendo la corte ha affermato in sentenza che la finalità dell’induzione coercitiva era quella di ottenere dal C. una dichiarazione ritrattatoria, mentre nel capo di imputazione viene indicato che la finalità perseguita dalla D.C. era quella di ottenere il ritiro della querela. La censura non coglie nel segno; l’art. 521 c.p.p. consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, ben potendo riqualificarsi il ritiro di una denuncia come ritrattazione. Ma il problema, a ben vedere, non è di rispetto dell’art. 521 c.p.p., quanto eventualmente di travisamento della prova (come correttamente osservato dal secondo difensore); secondo la difesa, infatti, la Corte d’Appello avrebbe ritenuto sussistente una ritrattazione anche se i testi avevano parlato di ritiro della denuncia e ugualmente parlava di ritiro anche il capo di imputazione. Il motivo di censura, peraltro, non è condivisibile, perchè è evidente che i testi, del tutto inesperti di diritto, hanno usato il termine in modo atecnico, così come vi è stata più volte confusione tra "denuncia" e querela" (inoltre, deve ritenersi che il ritiro contenga anche in sè, quale evento minore, la semplice ritrattazione, quale modifica del contenuto della denuncia). Ma la questione è anche irrilevante, ai fini di affermazione di responsabilità per la D.C.; che si sia trattato di richiesta di ritiro o di ritrattazione, il risultato non cambia, giacchè in entrambi i casi vi era quell’utilitas richiesta dalla norma incriminatrice e di cui si dirà più avanti.

Infine, viene dedotta violazione di legge in relazione all’art. 317 c.p., laddove la corte ha riconosciuto valenza di induzione coercitiva alle espressioni utilizzate dalla D.C. per indurre il C. a ritirare la denuncia, ma qui erra la difesa nel qualificare il vizio, posto che – secondo la stessa argomentazione della difesa – non si tratta di erronea interpretazione della norma incriminatrice, quanto piuttosto di erronea "interpretazione" degli atti istruttori, ossia erronea valutazione della prova. Trattasi dunque di inammissibile, in questa sede, censura di merito.

Passando al secondo ricorso, presentato dall’avvocato Urciuoli per la D.C., si evidenziano i 4 motivi di doglianza:

1. Erronea interpretazione della legge penale in relazione agli artt. 49, 56 e 317 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), nonchè illogicità della motivazione e travisamento del fatto in punto di utilità (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). In particolare, la difesa evidenzia la oggettiva assenza di utilità nel ritiro della denuncia, qualora si verta in materia di reati procedibilità d’ufficio, difettando quindi un elemento costitutivo dell’ipotesi di reato prevista dall’art. 317 c.p.. In secondo luogo, la corte territoriale, nella ricerca dell’utilità perseguita dalla D. C., avrebbe indebitamente sostituito al ritiro della denuncia – oggetto dell’imputazione – la ritrattazione della stessa, con ciò travisando i fatti così come risultanti dall’istruttoria dibattimentale, in considerazione del fatto che la ritrattazione è un elemento totalmente estraneo alle predette risultanze istruttorie.

Sul secondo punto si è già risposto. Quanto alla violazione dell’art. 317 c.p., deve ribadirsi quanto affermato al capoverso precedente, e cioè che non è configurabile una violazione di legge (come si avrebbe, per esempio, se la Corte avesse ritenuto non essenziale l’elemento della utilitas). Qui, peraltro, la difesa molto accorta deduce il vizio anche come illogicità della motivazione e travisamento del fatto. Ma anche sotto questo profilo la censura è prova di pregio; la sentenza impugnata (pagine 21 – 23) non solo ritiene necessario individuare l’utilitas (e quindi non vi è violazione dell’art. 317 c.p.) ma poi motiva anche perchè la ritiene sussistente. La motivazione è logica e condivisibile, se solo si tiene conto della costante giurisprudenza di questa Corte, per la quale l’utilità, in tema di concussione, indica tutto ciò che rappresenta un vantaggio per la persona, materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, oggettivamente apprezzabile, consistente tanto in un dare quanto in un facere e ritenuto rilevante dalla consuetudine o dal convincimento comune (Cassazione penale, sez. 6, 19 giugno 2008, n. 33843). E non vi è dubbio, come affermato in sentenza, che il ritiro della denuncia o la ritrattazione avrebbero di molto alleggerito la posizione processuale dello S..

2. Erronea interpretazione della norma di diritto contenuta nell’art. 317 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b); la difesa contesta che vi sia stato abuso di qualità rilevante al fine induttivo in quanto il pubblico ufficiale non avrebbe prospettato una situazione di svantaggio direttamente collegata alle sue qualità di comandante del corpo di polizia municipale; secondo la difesa, non solo l’imputata non era titolare di alcun potere intimidatorio nei confronti dei privati, ma neppure ha fatto loro credere di esserlo.

In relazione al metus, quale elemento inespresso nella fattispecie, rileva la difesa che anche questo elemento deve insorgere dalla prospettiva che sia il pubblico ufficiale a poter determinare lo svantaggio, mentre non si rientra nella fattispecie tipica allorchè il privato si accinga alla promessa o alla dazione in quanto tema un evento indipendente ed incerto, ancorchè prospettato dal pubblico ufficiale. Infine, viene rilevata l’assenza concreta, nel caso specifico, del metus publicae potestatis e di qualsiasi altro stato di soggezione, tanto che sia il c. che il C. si rapportarono con la comandante della polizia municipale in modo assolutamente paritetico, nè furono in alcun modo intimoriti dalla sua autorità. Qui la censura è decisamente infondata. Premesso che non è compito di questa Corte rivalutare le prove per giungere ad una diversa valutazione dei fatti, compito riservato al giudice del merito, si deve comunque osservare che la D.C., nel prospettare al denunciante le possibili conseguenze del mancato ritiro/ritrattazione della denuncia, ha evidentemente fatto leva non solo sulla sua posizione di vertice all’interno del Corpo di Polizia Municipale, ma anche sulla sua privilegiata posizione processuale ("..avrebbero sempre creduto ai vigili urbani.."), derivante certo dalla sua funzione e non dalla sua qualifica di avvocato (l’affermazione relativa alla sua qualifica professionale ed al fatto che avrebbe assistito i suoi colleghi, lasciando intendere che loro ne sarebbero usciti "puliti", mentre lui si sarebbe sporcato la fedina penale, non riuscendo più a prendere un posto pubblico, serve però ad ulterioremente qualificare la condotta sotto il profilo soggettivo). Che poi il C. non abbia ceduto, è fatto irrilevante, di fronte all’idoneità della condotta (essendo il reato contestato a titolo di tentativo). (Ai fini della configurabilità del reato di tentata concussione, che si ha laddove il pubblico ufficiale abbia compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere od indurre qualcuno a dare o promettere denaro od altra utilità, è richiesta l’oggettiva efficacia intimidatoria di tale condotta, restando indifferente il conseguimento in concreto del risultato di porre la vittima in stato di soggezione (Cass. pen. 33843/2008)).

3. Erronea interpretazione della norma di diritto in relazione all’art. 42 c.p., comma 1, artt. 56 e 317 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b); omessa motivazione in punto di dolo (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). Con il terzo motivo di ricorso, si denuncia l’omessa motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato; in particolare, premesso che la richiesta concussiva deve avere carattere antigiuridico, per cui il tentativo di persuadere un privato al ritiro di una denunzia non fondata sarebbe privo dei caratteri di antigiuridicità richiesti dalla norma; afferma la difesa che anche accertata a posteriori la fondatezza oggettiva delle ragioni dei privati denuncianti, la corte non ha mai ritenuto di porsi dal punto di vista dell’imputata e di vagliarne lo stato soggettivo; laddove, infatti, l’imputata fosse stata nella convinzione che la lite tra il vigile e il privato, cui non aveva assistito personalmente, si fosse svolta nei termini riferiti dal primo, e cristallizzati nella notazione di servizio, la sua condotta non avrebbe potuto considerarsi indebita, risolvendosi nel tentativo di esortare il C. a ritirare una denuncia che riteneva strumentale e priva di fondamento. Ma anche sotto questo profilo la censura non coglie nel segno; innanzitutto si pretende di giungere alla affermazione di inesistenza dell’elemento soggettivo non sulla base di prove, ma in forza di mere congetture prive di riscontro; in secondo luogo, dalle modalità con cui sono state prospettate le conseguenze ingiuste a danno del C. si evince che la D. C. aveva piena contezza di come si erano svolti i fatti o, quantomeno, non aveva la certezza che si fossero svolti come narrato dai suoi sottoposti; non avrebbe senso, al contrario, l’affermazione "si sa come vanno a finire queste cose", nè avrebbe senso la promessa di annullamento della "contravvenzione", la quale avrebbe costituito un premio illogico per il C., il quale aveva fatto una denuncia infondata e veniva invitato, a suo esclusivo vantaggio, a ritirarla.

4. Carenza assoluta ed illogicità della motivazione in punto di attendibilità dei testimoni (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Infine, con l’ultimo motivo di ricorso, la difesa deduce la carenza ed illogicità della motivazione in ordine all’attendibilità dei testimoni persone offese, ed alla corrispettiva ritenuta inattendibilità dei testi della difesa. Sotto questo profilo si deduce un errore logico della motivazione, per avere la corte d’appello non tenuto conto del fatto che i testi co. da un lato e F. ed O. dall’altro, si riferivano a due colloqui diversi ed in generale vi sarebbe una illogicità della motivazione, in alcune parti tautologica, con riferimento alla individuazione del numero di incontri tra la D.C. e la famiglia dei c. – C.. Ritiene questa Corte di legittimità che la sentenza della Corte d’appello di Napoli abbia correttamente motivato, con procedimento logico esente da censure; la Corte ha riscontrato l’esistenza di elementi probatori contraddittori, ma ne ha dato conto ed ha valutato la credibilità dei testi dandone ampia motivazione. Senza contare, peraltro, come si è già rilevato in precedenza, che tanto il numero degli incontri quanto l’iniziativa degli stessi in realtà non assumono una rilevanza determinante per la ritenuta sussistenza del reato.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di B. L. limitatamente al delitto di cui all’art. 605 c.p., con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo esame.

Rigetta il ricorso proposto da D.C.R., che condanna alle spese processuali.

Condanna quest’ultima alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.

Corregge l’epigrafe della sentenza impugnata, nel senso che, ove si legge "Dott.ssa R.R." deve leggersi "Dott.ssa Ca.

R.".

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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