Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-04-2011) 06-07-2011, n. Aggravanti comuni aggravamento delle conseguenze del delitto 26280

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

D.S.N. è stato imputato del delitto di cui all’art. 575 c.p., art. 577 c.p., n. 3, art. 61 c.p., nn. 4 e 5 perchè, colpendo con armi varie (coltelli, bisturi chirurgici, spada katana) in varie parti del corpo (gola, regione subclaveare destra, volto, cuoio capelluto, arti inferiori, mani e arti superiori) B. L., sua convivente, ne cagionava la morte, commettendo il fatto con crudeltà, avendo inferto ben trenta colpi sia precedenti che successivi all’intervenuto esito letale, ed altresì con premeditazione, in Roma nella notte tra il 21 e 22 giugno 2008. Con sentenza in data 7.5.2009 il GIP del Tribunale di Roma dichiarava l’imputato responsabile del delitto ascrittogli – esclusa l’aggravante della premeditazione – e riconosciute le attenuanti generiche e quella del risarcimento del danno minusvalenti rispetto alle aggravanti di cui all’art. 61 c.p., nn. 4 e 5 lo condannava, con la diminuzione del rito, alla pena di anni venti di reclusione.

A seguito di impugnazione dell’imputato e del P.M., con sentenza in data 22.6.2010 la Corte di assise di appello di Roma, in parziale riforma, esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5 e ritenute le già concesse attenuanti equivalenti all’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4, riduceva la pena ad anni 16 di reclusione (pena base anni 24, ridotta di 1/3 per la scelta del rito abbreviato).

La Corte d’assise d’appello, preliminarmente, disattendeva l’eccezione sollevata dalla difesa di inammissibilità dell’appello proposto dal P.M., con riferimento all’esclusione dell’aggravante della premeditazione, ritenendo che, sia pure con una enunciazione in fatto degli elementi probatori a sostegno di una diversa interpretazione delle risultanze processuali, nei motivi del P.M. si era finito con l’apportare una critica alla decisione del primo giudice circa la corretta e logica valutazione dei dati processuali, con una sostanziale denuncia di illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Nel merito, oltre a ritenere insussistente l’aggravante della premeditazione, reputava che l’imputato, dopo aver ucciso la B. e averla ricomposta vestendola e distendendola sul letto, avesse seriamente tentato il suicidio, distendendosi a sua volta accanto al cadavere della B. e recidendosi le vene dei polsi.

L’omicidio era stato compiuto intorno alle ore 8,30 del mattino e, secondo la Corte territoriale, la determinazione di uccidere era di poco antecedente al fatto, verosimilmente scaturita dalla presa di coscienza – in un momento indefinito ma forse collocabile nelle prime ore del mattino del giorno 22 giugno, dopo il risveglio da una notte agitata – dell’imminente abbandono e della perdita non accettata di una persona amata.

L’imputato aveva agito non con dolo d’impeto ma con dolo di proposito, come poteva desumersi dal fatto che non risultava l’insorgere di improvvise cause scatenanti la furia incontrollata e che neppure l’imputato avesse mai parlato di un vero e proprio raptus omicida. Il tentativo di suicidio era avvenuto intorno alle ore 11 della stessa mattina; le persiane della stanza erano state trovate socchiuse, ma – secondo la Corte di secondo grado – al momento del delitto nella stessa doveva esserci luce sufficiente per l’esecuzione, apparendo anche del tutto verosimile che il gesto omicida fosse stato preceduto da un dialogo animato tra i due giovani sulle rispettive posizioni, ultima causa scatenante di una deliberazione già latente nella mente dell’imputato.

L’imputato doveva essere considerato capace d’intendere e di volere.

Era stato riscontrato solo un disturbo narcisistico della personalità di non elevata intensità e l’esecuzione del delitto non era avvenuta a seguito di una crisi catatimica – condizione psicopatologica acuta, nell’ambito della quale l’esplosione dell’aggressività rappresenta il tentativo dell’individuo di salvaguardare l’integrità della propria personalità da una più seria destrutturazione quale la psicosi e che si caratterizza per un iniziale disordine del pensiero a seguito di eventi precipitanti e traumatici – tenuto conto del comportamento dell’imputato sia prima che dopo l’omicidio. In definitiva, secondo la Corte, l’imputato aveva agito sotto l’impulso di normali emozioni umane, tali comunque da non comportare alcuna perdita di controllo della realtà o un’interpretazione distorta della stessa.

Riteneva integrata nel comportamento tenuto dall’imputato nell’esecuzione dell’omicidio l’aggravante di aver agito con crudeltà.

L’imputato aveva colpito per trenta volte nella parte anteriore il corpo della vittima e i colpi erano stati infetti con inaudita violenza con numerose armi bianche, due bisturi monouso, una spada katana (spada lunga a lama curva usata dai samurai), un coltello a serramanico monotagliente e un coltello a ventaglio bitagliente.

La violenza dell’azione omicidiaria non era solo connessa alla natura del mezzo usato al fine del normale processo di causazione dell’evento.

Dovevano essere considerati, al fine di valutare la sussistenza dell’aggravante, non solo il numero dei colpi, ma anche la molteplicità delle armi bianche con cui il corpo della vittima era stato martoriato e reso quasi irriconoscibile.

Doveva essere considerato un quid pluris, rispetto ai mezzi ordinari per la produzione dell’evento, l’ansia incontenibile dell’imputato di appagare la propria istintività arrecando dolore oltre il necessario.

Soprattutto la natura devastante delle plurime armi bianche denotavano il ricorso a modalità esecutive eccessive e devastanti rispetto al fine da conseguire, tali da rivelare un’indole malvagia e un’insensibilità ad ogni richiamo umanitario.

La ragazza aveva avuto il tempo di gridare e chiedere aiuto e le lesioni da difesa riportate erano segno evidente che era ancora viva quando era stata colpita e che aveva subito il supplizio fino alla fine, cercando invano di opporre una inutile difesa al massacro del suo corpo. Il fatto, secondo il Giudice di secondo grado, non era avvenuto al buio, se non altro perchè doveva esserci una luce sufficiente perchè l’imputato raccogliesse e utilizzasse tutte le armi, ed anche perchè il corpo della ragazza era proprio davanti a lui, esposto alla furia omicida. L’utilizzo di più armi bianche, sproporzionato rispetto allo scopo perseguito, e il numero dei colpi, che avevano provocato alla vittima sofferenze particolarmente dolorose, erano chiaramente indicativi della crudeltà dell’azione.

La Corte d’assise di appello ha ritenuto che le attenuanti dovessero essere considerate equivalenti alla predetta aggravante, tenuto conto del valore confessorio delle dichiarazioni rese dall’imputato, della sua incensuratezza e del profondo dolore con il quale aveva vissuto l’imminente separazione dalla sua convivente. Non doveva nemmeno sottovalutarsi il fatto che l’imputato aveva agito in uno stato di profonda prostrazione psicologica, in una fase depressiva reattiva nell’ambito di un disturbo della personalità.

Non potevano però le attenuanti essere dichiarate prevalenti all’aggravante, come richiesto dalla difesa, ostandovi l’oggettiva gravità di un fatto commesso con crudeltà e raccapricciante violenza.

Avverso la sentenza della Corte di assise di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo articolati motivi a contestazione della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4.

La Corte di secondo grado, nel ritenere sussistente la suddetta aggravante, era incorsa in un palese travisamento delle prove.

Innanzi tutto non corrispondeva al vero che l’imputato avesse inferto trenta colpi alla vittima, in quanto il perito autoptico, tra le trenta lesioni riscontrate, aveva individuato sei lesioni da difesa alle mani e quattro ecchimosi che verosimilmente si ponevano al di fuori dell’azione omicidiaria.

La reiterazione dei colpi doveva essere considerata un elemento neutro, rispetto all’aggravante, in quanto la commissione di un omicidio con armi bianche comporta generalmente che la vittima venga attinta più volte da colpi. L’imputato aveva colpito più volte per raggiungere il proprio proposito criminoso e non per arrecare alla vittima inumano dolore, tenuto conto anche del fatto che solo un colpo era stato ritenuto atto ad uccidere. Dal fatto che solo un colpo era stato ritenuto mortale doveva dedursi che non era stata impressa una particolare violenza nelle singole azioni lesive.

Secondo il ricorrente, erroneamente la sentenza aveva ritenuto che l’utilizzo di una molteplicità di armi bianche fosse da ascrivere a una scelta deliberata dall’imputato, rivelatrice del suo intento di provocare gratuite sofferenze alla vittima. Invece, l’utilizzo di più armi era dipeso solo dalla circostanza che due armi – uno dei due bisturi, che presentava la lama piegata, la spada, dalla cui lama si era staccato il manico dì legno – si erano rotte, e quindi la commissione del delitto aveva imposto il ricorso ad armi integre.

Inoltre, non tutte le armi ritrovate sul luogo del delitto erano state adoperate per colpire la vittima; in particolare l’imputato aveva utilizzato i due bisturi soltanto contro sè stesso e sulla lama della spada erano state rilevate tracce con il solo profilo genetico maschile. In ogni caso, l’utilizzo di più armi avrebbe potuto rilevare un’indole malvagia se fosse stato concomitante ad una lenta e struggente agonia cagionata alla vittima, ma non nel caso de quo, in cui l’azione omicidiaria era durata pochi terribili minuti, con l’imputato in preda a un vero e proprio raptus e la vittima intenta solo a difendersi.

A parere della difesa, rettamente valutando tutte le risultanze processuali, doveva ritenersi che la pluralità di colpi e il numero delle armi utilizzate non fossero altro che l’estrinsecazione della maldestra modalità di esecuzione del proposito omicidiario dell’imputato.

Non rispondeva al vero, come si legge nella sentenza impugnata, che il corpo della vittima fosse stato martoriato e reso quasi irriconoscibile, perchè i colpi da punta, taglio e fendente non erano penetrati in profondità e nessuna lesione aveva sfigurato i lineamenti del volto della vittima.

Anche il comportamento dell’imputato subito dopo il compimento del delitto – aveva rivestito la vittima e ricomposto il cadavere distendendolo sul letto – deponeva per l’assenza di volontà di arrecare gratuite sofferenze alla vittima.

Così, la presa di coscienza immediata, il rimorso e soprattutto la volontà di farla finita erano azioni inconciliabili con un’indole malvagia, priva del più elementare senso di umana pietà.

La ritenuta crudeltà d’animo dell’imputato appariva, inoltre, logicamente incompatibile con il positivo giudizio dato nei confronti dello stesso imputato sia per escludere la premeditazione sia nel giudizio di comparazione delle attenuanti con l’aggravante.

L’imputato, infatti, era stato descritto come un giovane da tutti ben voluto, confuso e addolorato per i contrasti con la convivente, animato da sincero affetto verso di lei, addolorato poi per quanto era successo, al punto di volersi togliere la vita.

Dalla stessa sentenza impugnata risultava che il delitto era stato consumato in uno stato emotivo di grande turbamento, e la reiterazione dei colpi e la loro direzione sconnessa dovevano essere considerate indice inequivoco di un autentico raptus emotivo, non essendo peraltro logicamente conciliabili l’impeto irragionevole con il quale aveva agito l’imputato con la crudeltà.

Dal complesso delle risultanze, come esposte nella sentenza della Corte di assise di appello, emergeva che la pluralità di colpi era da ricondurre alla lotta intentata con la vittima che intendeva difendersi e la pluralità delle armi utilizzate doveva considerarsi una circostanza del tutto casuale.

Infine, sul punto, il ricorrente ha denunciato la mancanza di motivazione su un aspetto oggetto di contestazione nei motivi di appello: non era possibile configurare l’aggravante in questione, tanto con riferimento alla pluralità di colpi quanto alla molteplicità delle armi adoperate, allorchè tali azioni erano state rivolte ad un corpo già cadavere.

Con altro motivo il ricorrente ha denunciato la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al giudizio di comparazione tra le circostanze aggravanti e le circostanze attenuanti.

La Corte aveva concluso con un giudizio di equivalenza tra le dette circostanze, in contraddizione con le sue stesse premesse, nelle quali aveva messo in luce una serie di elementi preponderanti a favore dell’imputato, soggetto incensurato, descritto come non violento e legato alla B. da un affetto sincero e profondo, che aveva commesso il delitto in uno stato di profonda prostrazione psicologica, in una fase depressiva reattiva nell’ambito di un disturbo della personalità riconosciuto nelle perizie in atti.

Aveva però ritenuto ostativo al giudizio di prevalenza solo la oggettiva gravità di un fatto commesso con crudeltà e raccapricciante violenza, senza considerare che entravano in comparazione due circostanze attenuanti rispetto a una sola aggravante, peraltro debole, e che tra le attenuanti doveva essere considerato anche l’avvenuto risarcimento del danno, che costituisce una significativa espressione del ravvedimento del colpevole.

Del tutto carente era la motivazione della sentenza impugnata anche con riguardo ai criteri utilizzati per determinare la pena, essendosi inflitto il massimo della pena prevista per il delitto di cui all’art. 575 c.p., solo con riferimento alla gravità del fatto, omettendo ogni considerazione in ordine ai parametri di cui all’art. 133 c.p., comma 2 i quali tutti militavano in senso favorevole all’imputato.

Con un ulteriore motivo è stata contestata la decisione della Corte di assise di appello di ritenere ammissibile il ricorso per cassazione del Pubblico Ministero – convertito in appello – avverso la sentenza di primo grado.

Il ricorso era palesemente inammissibile in quanto il Pubblico Ministero, anzichè denunciare le eventuali carenze logiche della sentenza di primo grado circa l’erronea valutazione dell’aggravante della premeditazione, si era limitato a fornire rilievi totalmente disancorati dalla motivazione del provvedimento impugnato, elaborando un’autonoma ed alternativa ricostruzione dei fatti.

La Corte di assise di appello aveva illegittimamente anteposto un’interpretazione di quanto enunciato in fatto dal Pubblico Ministero alla valutazione secca di inammissibilità per insussistenza dei requisiti essenziali che tipicizzano normativamente l’atto di impugnazione.

Motivi della decisione

Il motivo con il quale il ricorrente ha contestato la decisione della Corte di assise di appello di ritenere ammissibile il ricorso per cassazione – convertito in appello – del Pubblico Ministero, oltre ad essere infondato per le ragioni indicate nella sentenza impugnata, è inammissibile per carenza di interesse, in quanto la predetta Corte non ha accolto la tesi del Pubblico Ministero, con la quale si era sostenuta la sussistenza dell’aggravante della premeditazione.

La Corte di assise di appello ha ritenuto che l’imputato avesse agito con crudeltà, dopo aver ricostruito il fatto attraverso i seguenti passaggi:

– l’imputato non aveva agito con dolo d’impeto, in preda ad un raptus omicida, ma con dolo di proposito, dopo una notte agitata, non accettando la decisione della B. di separarsi da lui;

– l’esecuzione del delitto non era avvenuta al buio, avendo l’imputato raccolto e utilizzato più armi con le quali aveva colpito la vittima che gli stava di fronte;

– B.L. era stata colpita, con inaudita violenza, con le armi bianche trovate sul luogo del delitto (una spada katana, due bisturi, un coltello a serramanico e uno a ventaglio) per trenta volte;

– la B. era stata colpita mentre si rendeva conto della furiosa azione dell’imputato contro di lei, come si doveva evincere e dal fatto che aveva invocato aiuto e dal fatto che sul suo corpo erano state riscontrate lesioni da difesa;

– il corpo della vittima era stato martoriato e reso quasi irriconoscibile dalle devastanti ferite cagionate con le suddette armi.

La suddetta ricostruzione resiste a tutte le critiche e contestazioni contenute nei motivi di ricorso, in quanto sorretta su ogni punto da adeguata motivazione, nella quale non è dato rilevare alcun vizio logico giuridico.

Secondo il ricorrente, l’imputato avrebbe agito in preda ad un autentico raptus emotivo, come si dovrebbe desumere dalla reiterazione dei colpi e dalla loro direzione sconnessa, la Corte di assise di appello ha, invece, escluso che l’imputato avesse agito in preda a un raptus omicida, basando la propria convinzione sui risultati della perizia pschiatrica, che aveva escluso che D. S.N. avesse agito a seguito di una crisi catatimica; sul comportamento dell’imputato prima, durante e subito dopo il fatto;

sulla assenza di cause scatenanti la furia dell’imputato; sulle dichiarazioni dello stesso, poichè non aveva mai affermato di essere stato colto da un raptus omicida.

Le persone che per prime erano entrate nella stanza dove si era svolto il fatto avevano trovato il locale immerso nel buio e i due corpi distesi nel letto.

La sentenza impugnata ha spiegato che questa situazione era stata creata alcune ore dopo la commissione dell’omicidio, nel momento in cui D.S. aveva deciso di por termine anche alla sua vita.

Secondo la ricostruzione della Corte di assise di appello, la mattina vi era stato un dialogo animato tra i due giovani, durante il quale la B. aveva mantenuto ferma la sua decisione di separarsi dall’imputato; questo rifiuto di recedere dal suo proposito era stata l’ultima causa scatenante di una deliberazione già latente nella mente dell’imputato, che a quel punto aveva preso le armi bianche in suo possesso ed era passato all’azione, di fronte agli occhi terrorizzati della B. che aveva invocato aiuto e aveva cercato di difendersi dalla furia dell’imputato.

Il ricorrente sostiene che la B. era stata raggiunta da un numero inferiore di colpi, rispetto ai trenta indicati dalla sentenza impugnata, in quanto le sei lesioni da difesa e le quattro ecchimosi riscontrate sul corpo della vittima non dovrebbero essere attribuite a colpi inferti dall’imputato.

Dalla lettura della consulenza medico legale, allegata ai motivi di ricorso, si evince però che anche lesioni da difesa riscontrate sulle mani della vittima erano da porre in relazione a colpi inferti dall’imputato, avendo la B. parato colpi coprendo con le mani regioni di vitale importanza o cercato di afferrare l’arma impugnata dall’aggressore (lesioni nn. 1, 18, 19, 21, 22, e 24). Nè, alla stregua della predetta consulenza, possono essere poste fuori dall’azione omicidiaria le lesioni nn. 10 (ecchimosi alla fronte), 26 (escoriazione alla coscia destra), 28 (ecchimosi alla coscia sinistra) e 30 (ecchimosi alla gamba sinistra), in quanto il consulente ne ha attribuito la genesi a un meccanismo contusivo.

Il ricorrente sostiene anche, con argomenti invero contraddittori, che non tutte le armi sarebbero state utilizzate dall’imputato contro la B. (i due bisturi e la spada katana sarebbero stati utilizzati solo contro se stesso) e che l’utilizzo di più armi contro la vittima sarebbe dipeso dalla necessità di ricorrere ad armi integre, poichè uno dei due bisturi e la spada sarebbero divenuti inservibili durante l’esecuzione del delitto.

La tesi del ricorrente, oltre ad essere contraddittoria, contrasta con i dati riportati nella sentenza di primo e di secondo grado e con quelli che si leggono nella menzionata consulenza medico legale allegata ai motivi di ricorso.

Sul pavimento della stanza in cui è stato rinvenuto il cadavere di B.L. vi era, in prossimità del lato sinistro del letto, una estesa gora di sangue all’interno della quale erano stati rinvenuti i due bisturi, una spada katana e il coltello a serramanico; l’altro coltello con apertura a ventaglio era stato rinvenuto sotto un cuscino sul lato destro del letto.

La spada katana era stata utilizzata contro la B., poichè sulla lama sono stati riscontrati coaguli di sangue misto a capelli di colore scuro di notevole lunghezza.

Non risulta che il distacco del manico di legno dalla spada e la piegatura della lama di uno dei bisturi siano riferibili all’azione omicidiaria dell’imputato o che detti difetti abbiano reso inservibili le suddette armi.

Appare, quindi, adeguatamente motivata la sentenza impugnata, alla stregua del complesso delle risultanze, nella parte in cui ha stabilito che l’imputato aveva compiuto l’omicidio utilizzando tutte le armi bianche rinvenute nei pressi del cadavere. Non trova, invece, riscontro su dati specifici la tesi che nell’esecuzione dell’omicidio non sarebbero state utilizzate tutte le suddette armi o che il passaggio da un’arma all’altra si sarebbe reso necessario per la rottura dell’arma utilizzata.

Non può logicamente accettarsi l’affermazione del ricorrente che non sarebbe stata impressa una particolare violenza alle singole azioni lesive, sulla base del fatto che un solo colpo – la lesione al torace, penetrante e lesiva di organi vitali – era risultato mortale;

la sentenza ha, invece, correttamente dedotto la violenza dei colpi dagli effetti devastanti sul corpo della vittima, descritto – con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede – martoriato e reso quasi irriconoscibile dalle ferite subite.

La sentenza impugnata ha motivatamente ritenuto che B. L. fosse viva durante l’esecuzione del delitto, e il ricorrente non ha indicato gli elementi dai quali si dovrebbe invece dedurre che il corpo della predetta sarebbe stato colpito anche quando era ormai cadavere.

Ricostruita l’esecuzione dell’omicidio nel modo suddetto, la Corte di assise di appello ha ritenuto integrata nel comportamento dell’imputato l’aggravante di aver agito con crudeltà nei confronti della vittima, tenendo conto del numero di colpi infetti;

dell’utilizzazione di diverse armi, tra le quali una terrificante spada katana; del supplizio a cui aveva sottoposto la B., martoriandone il corpo con le suddette armi; dell’aver arrecato dolore oltre il necessario, passando da un’arma all’altra;

dell’essere ricorso a modalità esecutive eccessive e devastanti rispetto al fine da conseguire.

Ha ritenuto, quindi, che nel comportamento suddetto fosse riscontrabile un quid pluris, rispetto ai mezzi ordinari per la produzione dell’evento, rivelatore di un’ansia incontenibile di punire la vittima arrecandole dolore oltre il necessario e di una totale insensibilità ad ogni richiamo umanitario.

La motivazione con la quale è stata ritenuta sussistente l’aggravante di aver agito con crudeltà è perfettamente in linea con la lezione di questa Corte, per la quale ricorre l’aggravante in questione quando le modalità della condotta rendono obiettivamente evidente la volontà di infliggere alla vittima sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell’evento e costituiscono un quid pluris rispetto all’attività necessaria ai fini della consumazione del reato, rendendo la condotta stessa particolarmente riprovevole per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima con un’azione efferata, rivelatrice di un’indole malvagia e priva del più elementare senso di umana pietà (V. Sez. 1 sent. n. 25276 del 27.5.2008, Rv. 240908).

In tema di omicidio, la crudeltà deve essere tenuta distinta dalle sevizie, quantunque vi sia una sostanziale unitarietà tra i due concetti, la cui differenza è di carattere sostanzialmente quantitativo: le sevizie si sostanziano in sofferenze non necessarie inflitte alla vittima, con lo specifico malvagio intento di vederla maggiormente soffrire; la crudeltà concerne invece il modo dell’azione direttamente rivolta alla realizzazione dell’evento morte e si caratterizza per il mezzo usato o per le modalità della condotta che di per sè, in quanto volontari, sono rivelatori di un’indole malvagia, priva del più elementare senso di umana pietà (V. Sez. 1 sent. n. 8686 del 12.3.1976, Rv. 134320 e Sez. 1 sent. n. 747 del 6.10.1987, Rv. 177452). L’ipotesi del ricorrente che la pluralità dei colpi e il numero delle armi utilizzate fossero solo l’estrinsecazione della maldestra modalità di esecuzione del proposito omicidiario dell’imputato non è risultata suffragata da elementi di prova. Nè l’aggravante in questione, siccome ritenuta dalla Corte di assise di appello, può venir meno guardando ai sentimenti che avevano animato l’imputato, prima della decisione della separazione, ovvero guardando al suo comportamento subito dopo la commissione del delitto.

Pertanto, il motivo di ricorso con il quale si è contestata la sussistenza dell’aggravante di aver agito con crudeltà deve essere rigettato.

Parimenti da rigettare è il motivo con il quale è stata contestata la motivazione della sentenza impugnata sia nella formulazione del giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti sia nella determinazione della pena.

Dalla motivazione della sentenza impugnata, non solo nella parte riguardante il giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti e la determinazione della pena, risulta che i giudici dell’appello hanno dedicato molta cura nell’esaminare la personalità dell’imputato, le sue sofferenze, le sue contraddizioni, le ragioni per le quali, non sopportando l’idea di essere abbandonata dalla B., l’abbia uccisa con le descritte modalità.

E’ stato posto l’accento – nel modificare in favore dell’imputato il giudizio di comparazione – sugli aspetti positivi della sua personalità, mentre si è dato risalto – nella determinazione della pena – alla oggettiva gravità del fatto, commesso con crudeltà e raccapricciante violenza.

In entrambi i casi la scelta del giudice di merito appare adeguatamente motivata, poichè si è dato conto delle ragioni di fatto – non sindacabili in questa sede di legittimità – per le quali si è ritenuto di non poter accedere alla richiesta di dichiarare le attenuanti prevalenti sull’aggravante e di fissare la pena base nel massimo edittale.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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