Cons. Stato Sez. III, Sent., 11-07-2011, n. 4154 Farmacia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. L’antefatto della presente controversia è rappresentato da un atto del 1961 con il quale il Comune di Capena ha affidato alla farmacista dottoressa T. la gestione provvisoria della unica farmacia allora esistente in quel territorio comunale.

Va notato che la farmacia non era vacante, bensì, formalmente, di titolarità dello stesso Comune, quale farmacia comunale. Ma il Comune, pur mantenendo la titolarità, aveva ritenuto, nelle more del concorso per la nomina di un direttore (a quanto pare mai bandito), di nominare un gestore provvisorio nella persona della dottoressa T..

Nei decenni successivi, la dottoressa T. ha chiesto di giovarsi delle leggi "di sanatoria" emanate di tempo in tempo (a partire dalla legge n. 892/1984) che concedevano ai gestori provvisori di trasformarsi in titolari pleno iure. Si poneva, fra l’altro, il problema di stabilire se tali norme riguardassero solo i gestori provvisori di farmacie vacanti (ossia prive di titolare) o anche i gestori di farmacie di titolarità comunale (come nella specie).

Ciò ha dato luogo ad un contenzioso fra la dottoressa T. e il Comune di Capena, con vari ricorsi; da ultimo, il ricorso iscritto al T.A.R. del Lazio con il n. 9660 del 1998.

2. In pendenza di quel ricorso, fra il Comune e la dottoressa T. è stato stipulato un atto di transazione, con il quale il Comune, in buona sostanza, ha ceduto alla T. la farmacia, a titolo oneroso.

La transazione è stata approvata dal consiglio comunale di Capena con delibera 22 febbraio 2004, n. 2.

Quest’ultimo provvedimento è stato impugnato davanti al T.A.R. del Lazio (ricorso n. 5909 del 2004) dall’attuale appellante dottor C. (in proprio e quale legale rappresentante di una società in accomandita semplice). Costui – pur essendo estraneo formalmente alla controversia fra il Comune e la T. – esponeva di avere interesse, quale farmacista, a che la farmacia in questione venisse messa a pubblico concorso secondo le regole generali, anziché ceduta a trattativa privata; e a tutela di questo interesse deduceva vari motivi d’impugnazione contro la delibera consiliare..

3. Infine sono intervenuti due provvedimenti della Regione Lazio.

Con il primo (8 ottobre 2004) la Regione ha dichiarato decaduto il Comune di Capena dalla titolarità della farmacia in questione. Con il secondo (7 dicembre 2004), preso atto che la titolarità della farmacia era ormai vacante e che la dottoressa T. ne aveva la gestione provvisoria, ha applicato la più recente legge di "sanatoria" attribuendo alla stessa T. la titolarità pleno iure della farmacia.

Questi atti sono stati impugnati davanti al T.A.R. Lazio dal Comune di Capena (ricorso n. 71/2005).

4. I tre ricorsi sono stati discussi all’udienza del 7 marzo 2007 e decisi con unica decisione.

Il T.A.R. ha dichiarato inammissibile per difetto d’interesse il ricorso del Comune contro gli atti della Regione. Ha dichiarato inammissibile (rectius improcedibile per sopravvenuto difetto d’interesse) il ricorso della dottoressa T. contro il Comune in quanto la controversia era stata superata dall’atto di transazione. Ha altresì dichiarato inammissibile (rectius improcedibile per sopravvenuto difetto d’interesse) il ricorso del dottor C. contro la delibera consiliare in quanto la indizione di un pubblico concorso è ora definitivamente preclusa dall’atto regionale del 7 dicembre 2004; atto che il dottor C. non ha impugnato.

Le spese del giudizio sono state compensate.

5. La sentenza del T.A.R. è appellata unicamente dal dottor C. (il quale agisce, come già in primo grado, in proprio e quale legale rappresentante della società G.).

La prima e principale censura dell’atto di appello è rivolta contro la decisione del T.A.R. di riunire i tre ricorsi, laddove, a giudizio dell’appellante, non vi erano sufficienti ragioni di connessione e comunque non era stata data alle parti la possibilità di discutere in merito alla riunione.

In secondo luogo l’appellante deduce che non poteva essergli addebitata, in suo pregiudizio, la mancata impugnazione dell’atto regionale del 7 dicembre 2004, dal momento che questo atto non era stato da lui conosciuto.

6. Resistono all’appello la dottoressa T. e il Comune di Capena.

7. Questo Collegio osserva che le censure rivolte contro la riunione, fatta in primo grado, dei tre ricorsi sono per un verso infondate e per l’altro inammissibili.

7.1. Va premesso che la disciplina della riunione di ricorsi nel processo amministrativo era contenuta (al tempo della decisione impugnata) nell’art. 52 del regolamento di procedura approvato con regio decreto n. 642/1907.

La disposizione configura il relativo potere come latamente discrezionale ed esercitabile anche d’ufficio; inoltre parla di "connessione" senza meglio precisare tale concetto, tanto meno dandone una definizione restrittiva nel senso che siano connessi solo i ricorsi che abbiano per oggetto il medesimo atto e/o dove vi sia piena identità delle parti.

Peraltro, si può dare qui per notorio e assolutamente pacifico che la prassi, ormai ultrasecolare, sia nel senso di una interpretazione estensiva, piuttosto che restrittiva, del concetto di connessione. Così non si richiede che sia impugnato il medesimo atto, ma è sufficiente che gli atti impugnati appartengano ad una medesima vicenda di fatto, oppure che la decisione di un ricorso sia in qualche modo influenzata o condizionata dalla decisione dell’altro. Quanto alle parti, è sufficiente una coincidenza anche parziale.

7.2. Nel caso in esame, è palese che gli atti impugnati nei tre ricorsi appartenessero ad una sola vicenda sostanziale: quella originata dalla pretesa della dottoressa T. di conseguire la titolarità della farmacia. Inoltre non si può negare uno stretto rapporto di pregiudizialità: ad esempio, pare indiscutibile che la transazione, impugnata da C. col secondo ricorso, abbia fatto venir meno l’interesse alla decisione del primo ricorso; sicché, ove mai il ricorso di C. fosse stato accolto, verosimilmente avrebbe riacquistato interesse il ricorso della T.. Infine, sta di fatto che in ciascuno dei tre ricorsi erano parti la dottoressa T. e il Comune di Capena; solo nel secondo ricorso vi era, in più, un terzo contraddittore nella persona del dottor C., mentre nel terzo ricorso stava in giudizio anche la Regione.

Ciascuno di questi profili appare di per sé più che sufficiente a giustificare la decisione (discrezionale) di riunire i tre ricorsi.

7.3. A parte ciò, le censure contro la riunione dei ricorsi sono inammissibili per difetto d’interesse, in quanto in linea di principio dal fatto della riunione, in sé considerato, non derivano pregiudizi per le parti. Eventuali errores in iudicando, in ipotesi causati dalla riunione, possono e debbono essere censurati quali vizi della sentenza, restando però insindacabile la riunione in sé.

D’altra parte, le interferenze fra un atto amministrativo e l’altro, e fra le rispettive impugnazioni, sono quelle che sono e tali restano anche se i giudizi sono separati; e anche se, al limite, i giudici che emanano le sentenze sono ciascuno all’oscuro del lavoro degli altri. Se il provvedimento impugnato con un determinato ricorso viene vanificato per effetto di un diverso atto sopravvenuto, la sentenza che, in ipotesi, accolga quel ricorso (in quanto il giudice, ignorando l’atto sopravvenuto, ha creduto che l’interesse a ricorrere fosse tuttora vivo) è, comunque, inutile per chi l’ha ottenuta, e per il giudice è stata una pura perdita di tempo; cosa di cui si sente tanto meno il bisogno in un sistema che deve fare i conti con la legge Pinto. La riunione di ricorsi lato sensu connessi è un efficace strumento di razionalizzazione e di economia processuale, anche nell’interesse delle parti (a meno che il loro obiettivo sia, appunto, quello di perdere, o far perdere, tempo). Ciò spiega perché la prassi interpreti estensivamente il concetto di connessione ai fini della riunione.

7.4. Se, poi, si volesse sostenere che il vizio della sentenza consiste nell’aver posto a base della decisione un atto (quello della Regione) rispetto al quale il dottor C., per effetto dell’imprevista riunione, non aveva avuto modo di discutere, si dovrebbe replicare che neppure in seguito, sino a tutt’oggi, il dottor C. ha formulato alcuna critica o riserva (non importa se rituale o meno) in merito alla rilevanza di quell’atto, oppure alla sua legittimità, alla sua efficacia, etc.. Pertanto, se pure si volesse interpretare in questo senso la censura rivolta da C. contro la riunione dei ricorsi, sarebbe questa una censura manifestamente inammissibile per difetto d’interesse.

8. Passando ora alle ulteriori questioni, conviene rilevare innanzi tutto che l’appellante si duole che il proprio ricorso sia stato dichiarato inammissibile (rectius improcedibile) per sopravvenuto difetto d’interesse, ma non spende parola per spiegare come e perché il suo interesse a ricorrere permanga pur dopo l’emanazione delle determinazioni regionali dell’ottobre e dicembre 2004.

Peraltro, che l’interesse del dottor C. sia venuto meno sembra evidente e non contestabile.

Ed invero, per effetto di quei provvedimenti regionali la dottoressa T. ha conseguito ope legis la titolarità della farmacia in quanto beneficiaria (secondo l’assunto della Regione) della sanatoriadi cui all’art. 46, legge n. 3/2003.

In altre parole, la farmacia è stata sottratta al pubblico concorso (e dunque anche alle aspettative del dr. C.) per una ragione autonoma e indipendente rispetto alla transazione che la dottoressa T. aveva concluso con il Comune.

Pertanto, un eventuale annullamento della transazione (o meglio della delibera consiliare che l’ha approvata) non potrebbe portare alcun vantaggio, a questo punto, al dottor C..

E’ così confermata l’improcedibilità per sopravvenuto difetto d’interesse.

9. L’appellante, tuttavia, deduce che l’atto regionale del 7 dicembre 2004 non è stato da lui impugnato perché non ne aveva avuto conoscenza.

Ora, si può pure ammettere che il dottor C. non abbia avuto tempestivamente conoscenza di quell’atto, ma si tratta di un elemento comunque non pertinente.

Ed invero, nella sentenza impugnata non si dice che il C. fosse decaduto dalla facoltà di impugnare l’atto del 7 dicembre 2004, ma semplicemente si enuncia il dato di fatto (oggettivo) che quel provvedimento non risultava impugnato dal dottor C., e pertanto esplicava tutti i suoi effetti.

Semmai, si potrebbe ravvisare un vizio nella sentenza del T.A.R., nella parte in cui trascura di considerare che il dottor C. fosse ancora in termini per impugnare.

Ma di questo ipotetico vizio in tanto avrebbe senso discutere, in quanto il dottor C. avesse, poi, proposta quell’impugnazione che non aveva proposto prima.

Di una tale sopravvenuta impugnazione però l’appellante non fa cenno, né in seno all’atto di appello, né nella successiva memoria. Peraltro dalla pubblicazione della sentenza del T.A.R. alla data odierna sono passati quattro anni; sicché, dato e non concesso che al momento della decisione del T.A.R. la determinazione del 7 dicembre 2004 fosse ancora suscettibile d’impugnazione, oggi sicuramente non lo è più.

Conviene anche notare che l’appellante neppure in questo giudizio di appello spende parola per contestare, sotto qualsivoglia profilo, la legittimità o l’efficacia del provvedimento 7 dicembre 2004.

10. In conclusione, la sentenza va interamente confermata.

Le spese del giudizio d’appello seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) rigetta l’appello.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese legali in favore delle controparti costituite, liquidandole in Euro 2.500 per ciascuna, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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