Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 28-06-2011) 07-07-2011, n. 26577

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 29 marzo 2010, la Corte di appello di Catanzaro, giudicando in sede di rinvio a seguito di annullamento pronunciato da questa Corte, ha, per quel che qui interessa, confermato la sentenza pronunciata il 23 novembre 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città, con la quale M. F. veniva dichiarato colpevole dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 e condannato alla pena di anni nove e mesi quattro di reclusione.

Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato il quale lamenta vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputato. Sottolinea in particolare il ricorrente che gli unici elementi posti a base di giudizio di responsabilità sono rappresentati dalle intercettazioni telefoniche, nelle quali, peraltro, l’imputato sarebbe stato riconosciuto in forza di elementi del tutto vaghi, quali il nome molto comune o l’attività di macellaio svolta solo occasionalmente, o l’asserito riconoscimento vocale, privo di congruenza essendo l’imputato incensurato. Del pari inconferenti sarebbero i riferimenti al linguaggio allusivo, nulla consentendo di decodificarne il significato con riferimento a sostanze stupefacenti piuttosto che ad altri argomenti, eventualmente anche illeciti. Quanto ai reti fine si ribadiscono i rilievi già dedotti in sede di merito e cioè che le conversazioni potrebbero riguardare soltanto un accordo ma non la consumazione dei reati. Si contesta, poi, la motivazione della sentenza impugnata anche per ciò che attiene alla ritenuta responsabilità in ordine al reato associativo, in quanto la Corte territoriale, pur dando atto della giurisprudenza di legittimità soffermatasi sul punto, se ne discosta in concreto, in quanto non dimostra la sussistenza del vincolo stabile fra gli associati e la durata apprezzabile del sodalizio. Si lamenta, infine, la mancata concessione delle attenuanti generiche e la eccessività della pena.

Il ricorso è palesemente inammissibile, in quanto il ricorrente si limita nella sostanza a riprodurre in termini pedissequi le stesse censure già devolute ai giudici del gravame e da questi motivatamente disattese, sulla base di un ordito argomentativo rispetto al quale i motivi di ricorso si limitano ad una contestazione meramente assertiva, senza focalizzare una critica specifica, riferita ai vizi di legittimità solo labilmente enumerati. Il tutto non senza sottolineare come i rilievi, ora nuovamente riproposti, si concentrino diffusamente su profili di fatto, tesi a sollecitare una non consentita rivalutazione del materiale di prova, già ampiamente sedimentato nel pregresso iter processuale. La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai da tempo consolidata nell’affermare che deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.

La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (Cass., Sez. 1^, 30 settembre 2004, Burzotta; Cass., Sez. 6^, 8 ottobre 2002, Notaristefano; Cass., Sez. 4^, 11 aprile 2001 Cass., Sez. 4^, 29 marzo 2000, Barone; Cass., Sez. 4^, 18 settembre 1997, Ahmetovic). E’ del tutto evidente, infatti, che la questione relativa alla identificazione dell’imputato come interlocutore delle intercettazioni che gli sono attribuite si fonda su una numerosa e variegata serie di elementi, tutti di significativo ed elevato valore indiziante, che si saldano tra loro all’interno di un coeso quadro probatorio, per nulla intaccato dai generici rilievi del ricorrente, che si risolvono in un improprio tentativo di screditamento, fondato su un apprezzamento atomistico di ciascuna acquisizione. Del pari estraneo ai vizi denunciati si rivela l’assunto teso a contrastare la "lettura" in chiave accusatoria delle intercettazioni, così come i rilievi relativi alla asserita mancanza di prova circa la consumazione dei reati – al contrario, univocamente e logicamente accreditata dai giudici del merito – mentre più che esaustiva si rivela la motivazione offerta in punto di ritenuta sussistenza della fattispecie associativa, tutt’altro che svilita dal rilievo concernente l’asserita brevità degli accertamenti che ne hanno "monitorato" l’attività. Del pari aspecifiche e comunque palesemente infondate si rivelano, infine, anche le doglianze rassegnate in punto di trattamento sanzionatorio, posto che la motivazione esibita al riguardo dai giudici a quibus si rivela palesemente immune dai vizi denunciati.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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