Cass. civ. Sez. II, Sent., 25-11-2011, n. 24980

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 24-5-2000 F.L., premesso che l’istante ed P.A. erano comproprietari per la quota di una metà ed usufruttuari per la quota dell’altra metà di una casa familiare con fabbricato accessorio e piscina in (OMISSIS), e di un appartamento al secondo piano di un edificio condominiale in (OMISSIS), e che inoltre i predetti erano comproprietari, per la quota di una metà ciascuno, di una casa di civile abitazione in (OMISSIS), con annessi terreni agricoli, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Udine, sezione distaccata di Cividale del Friuli, il P. chiedendo disporsi lo scioglimento della suddetta comunione immobiliare, se del caso anche mediante vendita all’incanto dei beni predetti, e successiva ripartizione, secondo le rispettive quote, del ricavato.

Costituendosi in giudizio il convenuto chiedeva il rigetto della domanda attrice asserendo che i cespiti immobiliari erano stati acquistati con denaro proprio ed intestati alla F. solo in ragione del rapporto affettivo all’epoca esistente tra i due.

Successivamente intervenivano in giudizio la s.p.a. Cassamarca, che successivamente rinunciava agli atti, la Banca Popolare Friuladria e la Banca di Credito Cooperativo di Manzano quali creditori ipotecari della F..

Il Tribunale adito con sentenza del 30-1-2007 pronunciava lo scioglimento della comunione, e per l’effetto assegnava gli immobili predetti in proprietà esclusiva al P., condannava la F. al rilascio dei beni, assegnava a quest’ultima la somma di Euro 702.500,00 quale controvalore dei suoi diritti, e condannava il P. a versare detto importo su libretto bancario infruttifero da depositare presso la cancelleria, sul quale dichiarava trasferiti i vincoli ipotecari di spettanza degli istituti di credito intervenuti.

La F. proponeva gravame cui resisteva il P.; si costituivano in giudizio altresì la s.r.l. Castello Gestione Crediti, a sua volta mandataria con rappresentanza della Banca Popolare Friuladria, nonchè la Banca di Credito Cooperativo di Manzano, le quali chiedevano, in ipotesi di riforma dell’impugnata sentenza, emanarsi le statuizioni previste dall’art. 2825 c.c., mentre veniva dichiarata la contumacia della s.p.a Cassamarca.

La Corte di Appello di Trieste con sentenza del 12-2-2009 ha rigettato l’impugnazione.

Per la cassazione di tale sentenza la F. ha proposto un ricorso affidato a due motivi cui il P. ha resistito, depositando successivamente una memoria; le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso la F., denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., ed omessa motivazione, censura la sentenza impugnata per aver affermato che l’esponente non aveva svolto contestazioni per l’intero arco della trattazione di primo grado in ordine al valore dei cespiti immobiliari principali quali le case di (OMISSIS) e l’appartamento di Udine; in realtà non era vero che la F. fosse stata acquiescente alla CTU ed al conseguente piano di riparto proposto nè che il comportamento processuale tenuto dalla ricorrente potesse aver integrato una forma di decadenza processuale non prevista dall’ordinamento, considerato che non esisteva nei verbali di udienza una approvazione formale del piano di riparto; la F. inoltre sostiene che il giudice di appello non ha offerto alcuna argomentazione in ordine al rigetto dell’istanza di rinnovazione della prova con riferimento agli elementi offerti dall’appellante nell’atto di appello.

La ricorrente ha quindi formulato il seguente quesito: "La motivazione di una sentenza è omessa e dunque suscettibile di annullamento ex art. 360 c.p.c., n. 5, allorchè contenga affermazioni meramente presuntive contrarie a quelle che sono state le reali condotte delle parti ed allorchè in conseguenza di ciò contenga un errore di logica giuridica che ne infici il ragionamento.

Errore che può consistere anche nella ingiustificata pretermissione di un nuovo accertamento peritale in sostituzione di un altro rivelatosi nullo nel corso di un giudizio di divisione".

La censura è infondata.

Il giudice di appello ha affermato che la F. all’udienza fissata per la discussione del progetto divisionale si era limitata a chiedere il richiamo del CTU all’unico scopo di ottenere una valutazione della piscina e dei sottostanti impianti di riscaldamento, il che consentiva di concludere che non vi era stata alcuna contestazione per l’intero arco della trattazione di primo grado, compresa l’udienza della precisazione delle conclusioni, circa il valore degli immobili principali, quali le case di (OMISSIS) e l’appartamento di (OMISSIS), con l’ulteriore conseguenza che ogni doglianza in proposito doveva ritenersi ormai preclusa.

Orbene è agevole rilevare che tali affermazioni della Corte territoriale in ordine alla mancata contestazione nel corso del giudizio di primo grado da parte della F. del valore dei suddetti immobili, non oggetto di specifiche censure in questa sede, hanno logicamente condotto alla conclusione che le questioni al riguardo sollevate nel giudizio di appello erano sostanzialmente nuove in quanto non introdotte in precedenza, cosicchè, sta pure implicitamente, è stato ritenuto inammissibile l’espletamento di una nuova CTU; ed è evidente che, in proposito, a nulla rileva il fatto che l’attuale ricorrente non abbia mai formalmente approvato ti progetto divisionale (evenienza che invero avrebbe comportato la declaratoria di esecutività del progetto stesso ai sensi dell’art. 789 c.p.c., comma 3), essendo invece stato decisivo il suo inerte comportamento processuale, nei termini sopra evidenziati, riguardo alla valutazione degli immobili contenuta nel progetto elaborato dal CTU. Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 726 c.c., assume che il CTU geometra M., contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, non aveva applicato alcun criterio utile per la stima degli immobili per cui è causa, limitandosi ad esprimere al riguardo valutazioni di natura soggettiva, omettendo tra l’altro di indicare i prezzi di beni siti nelle stesse zone di quelli oggetto di indagine;

pertanto il CTU non aveva proceduto a determinare il valore venale degli immobili, non avendo acquisito tutti i dati caratterizzanti sia il mercato locale che i beni stessi, e non avendo proceduto ad un giudizio di stima per comparazione, avendo come riferimento il valore commerciale di ogni singolo bene, avuto riguardo al valore di un metro quadro di superficie commerciale.

La ricorrente formula quindi il seguente quesito: "Affermarsi che, per la rilevanza generale che assume in linea di diritto il principio, nella determinazione della stima dei beni dividendi deve necessariamente farsi riferimento (con la consequenzialità di dover comprovare e giustificare) al valore venale specifico di ciascuno degli stessi ex art. 726 c.c. e, ove ciò non accada, il motivo di doglianza, eventualmente negletto in primo grado, è sempre proponibile in sede di impugnazione ed è meritevole di accoglimento, per cui la relativa sentenza, che accetta una stima disancorata dal riferimento normativo, va cassata".

La censura è infondata.

La sentenza impugnata ha rilevato che la censura sollevata dall’appellante con riferimento alla determinazione della stima dei cespiti oggetto del giudizio di divisione si esauriva in un richiamo del tutto generico alla valutazione del proprio consulente di parte, il quale tra l’altro aveva espresso valori del tutto disancorati da oggettivi elementi di riscontro e non aveva offerto alcun concreto spunto che potesse condurre ad un diverso risultato, per esempio attraverso l’indicazione dei prezzi relativi alle vendite, in zona, di immobili similari; ha poi aggiunto che la contestazione mossa in ordine ai valore dei terreni era inammissibile per difetto di specificità, non essendo stato spiegato in alcun modo il motivo per il quale le decisione di primo grado fosse errata.

All’esito di tali argomentazioni, non oggetto di censure almeno specifiche in questa sede, si deve ritenere che la "ratio decidendi" della sentenza impugnata risiede non già nell’affermazione di un determinato principio di diritto in materia di stima dei beni oggetto di un giudizio di divisione, ma semplicemente nella ritenuta assoluta genericità delle doglianze al riguardo sollevate dall’appellante avverso le statuizioni emesse in proposito dal giudice di primo grado, genericità che ha quindi portato logicamente al rigetto anche di tale motivo di appello.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per spese e di Euro 3000,00 per onorari di avvocato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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