Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 08-06-2011) 07-07-2011, n. 26608 Associazione per delinquere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Torre Annunziata, con sentenza del 31.1.2011, condannava B.S., C.A., C. F., C.G., C.L.e T.G. alla pena di anni quattro di reclusione ciascuno, escluse le aggravanti contestate e riconosciuta la ipotesi affermata di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 in relazione al reato di cui al D.P.R. 309/90, art. 74 per essersi associati tra loro e con persone rimaste non identificate, al fine di commettere più violazioni in materia stupefacenti, con condotta perdurante dal (OMISSIS).

La Corte d’appello di Napoli, in data 27/4/2010, in parziale riforma, dichiarava la nullità del giudizio nei confronti di C. F., confermando nel resto la sentenza impugnata.

1.1. Nelle sentenze di primo e secondo grado si dava atto che il procedimento traeva origine da una complessa attività investigativa – svolta nell’ambito delle indagini relative all’omicidio di F. G., imprenditore di (OMISSIS) – fondata prevalentemente su operazioni di intercettazione dell’utenza mobile intestata a C.A., figlia di M. già tratto in arresto per violazioni in materia di stupefacenti. Le attività di captazione si svolgevano dal (OMISSIS), quando i Carabinieri di (OMISSIS) procedevano alla perquisizione delle abitazioni di C.F. e di B.S., rinvenendo sostanza stupefacente del tipo hashish e procedendo all’arresto dei predetti; anche nell’abitazione di C. A. veniva rinvenuto un significativo quantitativo di hashish ed attrezzatura per il confezionamento, tuttavia la predetta riusciva ad evitare l’arresto.

La responsabilità degli imputati veniva tratta dal contenuto delle conversazioni intercettate sull’utenza mobile della C. nelle quali gli imputati ricorrevano a linguaggio criptico ed usavano espressioni allusive e metaforiche; dagli esiti dei predetti sequestri; dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria a conforto del contenuto delle conversazioni intercettate.

Ad avviso dei giudici di merito, da tali elementi emergeva l’esistenza di un’organizzazione di persone, su base prevalentemente familiare, dedita all’attività di spaccio dì hashish al minuto, con una ripartizione dei ruoli sostanzialmente fungibili, tipica del carattere familiare dell’impresa e sviluppata secondo uno schema orizzontale in cui C.N., più che rivestire un ruolo apicale, era la componente particolarmente attiva.

2. Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati di seguito indicati.

2.1. Con un unico atto hanno proposto ricorso C.A. e C.G., personalmente, deducendo l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla prova della sussistenza del reato associativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e della partecipazione delle ricorrenti al sodalizio.

In specie, si afferma l’insussistenza di elementi idonei tali da configurare, sulla base dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità, il reato associativo in contestazione piuttosto che mere ipotesi di cessione di stupefacenti, peraltro, nel caso di specie, limitati a pochi episodi. Si lamenta, in particolare, che la Corte territoriale ha fondato la prova essenzialmente sulla base delle conversazioni intercettate dal contenuto tutt’altro che univoco e, quindi, suscettibile di interpretazioni molteplici.

Con specifico riferimento alla posizione di C.A. si contesta che il contenuto delle conversazioni captate possa far ritenere la predetta inserita in un sodalizio piuttosto che partecipe, a titolo di concorso, dell’attività di cessione di stupefacenti commessa il (OMISSIS), fatto per il quale la ricorrente è stata giudicata con sentenza del 14/2/2002, divenuta irrevocabile, con conseguente violazione dell’art. 649 cod. proc. pen., come contestato con l’atto di appello.

La condotta emersa a carico di C.G., invece, è limitata alla mera connivenza dovendosi escludere che dalle Intercettazioni emergano consapevoli apporti causali alla associazione criminale a carico della ricorrente.

2.2. A mezzo del difensore di fiducia hanno proposto ricorso con un unico atto B.S. ed C.L..

Con il primo motivo si contesta la sussistenza del reato associativo rilevando che, se è vero che la struttura familiare non è di per sè incompatibile con un sodalizio criminale, tuttavia è necessario trarre da elementi concreti la prova che i rapporti familiari siano prevalentemente destinati ad un accordo criminale finalizzato alla commercializzazione di sostanza stupefacente, tale da escludere che si tratti di mera connivenza non punibile.

Anche i suddetti ricorrenti lamentano che la Corte territoriale ha fondato la prova essenzialmente sulla base delle conversazioni intercettate dal contenuto tutt’altro che univoco e, quindi, suscettibile di interpretazioni molteplici.

Si deduce, quindi, che la partecipazione del B. viene ritenuta esclusivamente sulla base del sequestro di sostanza stupefacente eseguito a carico del predetto, senza tenere adeguatamente conto del fatto che questi – come si afferma nella stessa sentenza impugnata – aveva contrastato l’attività spaccio della compagna C. G..

Quanto a C.L., la prova della partecipazione al sodalizio viene desunta dal fatto che la figlia utilizzava la dimora paterna per l’attività di spaccio. Invero, la condotta del ricorrente è limitata ad occasionali interventi finalizzati a tutelare le figlie che all’evidenza non integrano la condotta di partecipazione al sodalizio ma, al più, il favoreggiamento personale o il concorso dell’attività di spaccio.

I ricorrenti censurano, inoltre, l’illogicità e la carenza della motivazione in ordine alle argomentazioni difensive relative alla circostanza che essi fossero stabilmente residenti in altri luoghi e che in ordine al sequestro di sostanza stupefacente avvenuto il (OMISSIS) il B. era stato definitivamente assolto.

2.3. T.G. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia articolando due distinti motivi.

Con il primo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla prova della partecipazione del ricorrente al sodalizio di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Si contesta, in particolare, che le conversazioni captate poste a fondamento della responsabilità del ricorrente dalla Corte di merito abbiano un contenuto rilevante ai fini della attribuibilita del fatto al T. e della individuazione del ruolo di venditore e procacciatore dallo stesso svolto quale componente esterno al gruppo familiare.

Inoltre, si rileva che il contenuto delle medesime conversazioni è già stato valutato con la sentenza del gip del tribunale di Torre Annunziata, acquisita agli atti e divenuta irrevocabile, nella quale è stato affermato che si trattava di condotte autonome rispetto a quelle ascritte al B. ed a C.A., qualificate come attività di cessione di modesti quantitativi di stupefacenti.

Nè, invero, è stato chiarito il contributo causale fornito al sodalizio dal T. ai fini della realizzazione del programma criminoso e non è ravvisabile alcun elemento attestante la volontà del ricorrente di aderire al programma comune.

Con il secondo motivo di ricorso si censura la determinazione dell’entità della pena nella quale la Corte di merito non si è attenuta nè si ha adeguatamente esplicitati i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.. Invero, la pena inflitta, prossima al massimo, deve ritenersi eccessiva e sproporzionata, tenuto conto sia della riconosciuta ipotesi affermata di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 sia del ruolo attribuito al ricorrente. Il giudice di merito non ha adempiuto all’obbligo di motivazione essendosi limitato a richiamare la citata disposizione di legge.

Motivi della decisione

1. Le contestazioni mosse dai ricorrenti in ordine alla configurabiiità del reato associativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 sono manifestamente infondate.

Sul punto, la Corte osserva che l’associazione per delinquere finalizzata al commercio di sostanze stupefacenti è identificabile nell’accordo stabile, posto in essere da tre o più persone, aventi consapevolezza di parteciparvi, destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti della stessa specie, preordinati alla cessione o al traffico di droga, con la particolarità che per la configurazione del reato associativo non è richiesta la presenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose con il contributo degli associati (Sez. 1, 23/12/1999, n. 14578, Calzolaio, rv. 216124; Sez. 5, 17/9/2001, n. 33717, Cantatore, rv. 219921). Inoltre, è noto che, verificata la sussistenza dei requisiti richiesti per la configurabiiità del reato associativo desumibili dalla continuità e sistematicità dello spaccio e dalla predisposizione di una struttura operativa stabile, la costituzione del sodalizio criminoso non è esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più intorno a componenti della stessa famiglia perchè, al contrario, i rapporti parentali o coniugali, sommandosi al vincolo associativo, lo rendono ancora più pericoloso (Sez. 6, n. 2772, 09/01/1995, Lacedra, rv. 201353).

Anche l’attività di vendita ai consumatori, quando sia effettuata valendosi continuativamente e consapevolmente delle risorse dell’organizzazione e con la coscienza di farne, perciò, parte costituisce un volontario apporto causale al raggiungimento del fine di profitto dell’organizzazione medesima (Sez. 6, n. 856, 25/1/2000, Campanella, rv. 216657).

La sentenza impugnata ha adeguatamente illustrato, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, la sussistenza degli elementi costitutivi in precedenza analizzati premettendo che: il contenuto delle conversazioni non si presta ad interpretazioni alternative considerato che tutti i conversanti fanno riferimento espresso al "fumo", alla "roba" o all’"ambasciata", nonchè, alla quantità di "pezzi" da acquistare o vendere, ai grammi da vendere; spesso si descrive in tempo reale l’andamento delle vendite, indicando le persone che di volta in volta partecipano all’attività; i componenti della famiglia C. indicano espressamente la necessità di confezionare e dividere la sostanza stupefacente, ovvero parlano di consegne nei trasferimenti. L’esplicitazione dei significati delle espressioni usate è stata resa poi palese a seguito del sequestro di stupefacenti rinvenuti nella disponibilità B.S., C.F. e C.A., nonchè, dagli spostamenti e movimenti dei soggetti interessati e dalla continuità dei loro rapporti come risultati dall’attività di osservazione degli investigatori.

La Corte di merito, inoltre, precisava che doveva essere attribuita unità di prova piena al contenuto delle conversazioni captate trattandosi di conversazioni nelle quali veniva riportata la realtà vissuta e manifestata senza alcuna riserva la determinazione della rappresentazione degli avvenimenti in corso.

Quindi, rilevava che indiscutibilmente la casa paterna dei C. era stabilmente destinata alla gestione del commercio dello stupefacente, mentre la contigua abitazione di N. fungeva da basse per il deposito e la preparazione della merce, come dimostra la circostanza del ritrovamento del bruciatore a gas. Le energie umane stabilmente destinate all’attività di vendita erano molteplici e caratterizzate da continue operazioni di cessione poste in essere non soltanto dalle sorelle C., ma anche dal B. e dal T. i quali ultimi, peraltro, all’occorrenza svolgevano anche il ruolo di mediatori per l’acquisto e di confezionatori dello stupefacente.

Si precisava, inoltre, nella sentenza impugnata che la continuità dei contratti tra gli imputati, per quanto emerge dalle intercettazioni, è sempre determinata dall’attività di vendita dello stupefacente in prossimità dell’abitazione di C. L. (indicata dal consociati come "(OMISSIS)") ove il commercio continuava durante i mesi dell’indagine ininterrottamente dalla mattina fino alla tarda serata.

Pertanto, ribaditi i limiti del sindacato in sede di legittimità sul discorso giustificativo nel quale non è consentita la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, manifestamente infondate devono ritenersi le censure dei ricorrenti – in gran parte generiche – in ordine alla sussistenza del reato associativo contestato.

Tanto precisato relativamente alle doglianze comuni, di seguito vengono esaminati i motivi di ricorso che attengono alla posizione dei singoli imputati.

2. Manifestamente infondati sono i motivi di ricorso proposti da C.A. e G..

Del tutto generica è, invero, la doglianza relativa alla equivocità del contenuto delle conversazioni intercettate; le ricorrenti, inoltre, ripropongono questioni già oggetto di appello, esaminate e compiutamente valutate dalla Corte territoriale con motivazione logica e coerente quanto alla partecipazione delle predette al sodalizio.

Avuto riguardo a C.G. la Corte rilevava, infatti, che la stessa è direttamente incaricata dalla sorella N. di ritirare una partita di droga (conv. n. 621 del 14.6.2001); è preposta alla custodia ed al controllo delle consegne in casa (conv. n. 156 del 4.6.2001); la ricorrente, nonostante la contrarietà del compagno e coimputato B., si occupa in alcune occasioni direttamente dello spaccio ed in genere tiene i contratti con il fratello M. ristretto in carcere.

La responsabilità ed il ruolo nel sodalizio di C.A. vengono ricondotti dal giudice di merito alle molteplici emergenze tratte da numerosissime conversazioni Intercettate nelle quali risulta evidente che la ricorrente è dedita ininterrottamente alla vendita di hashish; dispone presso il suo domicilio di attrezzi per Il confezionamento ed il taglio dello stupefacente; utilizza come base logistica l’abitazione paterna; è in contatto con il B. ed il T. per le operazioni di acquisto e di confezionamento;

tiene contatti con il fratello detenuto. Anche con riferimento alla violazione del principio del ne bis in idem la Corte territoriale ha compiutamente motivato evidenziando che, la ritenuta sussistenza del reato associativo contestato la cui autonomia ontologica è indiscussa, al di là del mero concorso degli imputati nelle accertate singole fattispecie di detenzione e cessione dello stupefacente, esclude che ricorra il bis in idem.

3. B.S. e C.L. ripropongono in sostanza le censure mosse con l’atto di appello sulle quali la Corte di merito ha adeguatamente motivato.

Nel caso di specie e nei limiti propri del sindacato riservato a questa Corte, i vizi denunziati sono insussistenti, in quanto i giudici di secondo grado, richiamando anche la sentenza di primo grado, hanno illustrato, con motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici, gli elementi di prova su cui hanno fondato l’affermazione della penale responsabilità degli imputati.

Diversamente da quanto affermato dal ricorrente, la partecipazione del B. al sodalizio, sia con riferimento alla preparazione e confezionamento che alla vendita della sostanza stupefacente, non veniva desunta esclusivamente dal rinvenimento dell’hashish in occasione dell’arresto del predetto, bensì dal tenore delle conversazioni captate e richiamate nella sentenza impugnata: n. 156 del 4.6.2001; n. 118 del 4.6.2001; n. 279 del 7.6.2001; n. 377 dell’8.6.2001.

Anche sul tenore delle conversazioni che avvalorerebbero l’estraneità del B. al sodalizio, la Corte territoriale ha espressamente rilevato come in realtà dette conversazioni non dimostrano che questi contrastasse la partecipazione all’attività della compagna G., potendosi desumere, invece, che il ricorrente, consapevole dei rischi cui era esposta la compagna, auspicava che la stessa avesse un ruolo più defilato; pertanto, le conversazioni tra i due coimputati dimostrano, all’evidenza, che il B. è consapevole e partecipe dell’organizzazione del sodalizio nel quale era pienamente inserito. Ne deriva la scarsa rilevanza della circostanza che il ricorrente sia stato definitivamente assolto in relazione allo specifico episodio del (OMISSIS) in occasione del sequestro di sostanza stupefacente.

Quanto al coinvolgimento di C.L., la Corte evidenziava lo stabile e consapevole conferimento della propria abitazione a sede delle operazioni di vendita, ma, altresì, la continuità dell’interesse del ricorrente per le sorti del commercio attraverso la predisposizione degli acquisti e la distribuzione dei ruoli dei figli, le modalità dell’intervento per sottrarre le figlie all’arresto comunicando a N. che era in corso un’operazione di polizia. La Corte, quindi, richiamava il puntuale esame operato dal giudice di primo grado delle conversazioni che interessavano il ricorrente: n. 1931, 1942 e 1956 del 7.7.2001.

Logica e coerente deve ritenersi la motivazione della Corte di merito in ordine alla circostanza che i ricorrenti B.S. e C.L. svolgessero in altra sede l’attività lavorativa lecita rilevando che il contenuto delle intercettazioni e l’esito dei sequestri dimostra ampiamente che tale circostanza non distogliesse i ricorrenti dal coinvolgimento continuo e concreto nelle sorti del sodalizio; in specie, si richiamava la conversazione n. 1782 del 5.7.2001 tra N. ed il T. dalla quale si desume che il C. si dedicava direttamente alla vendita dell’hashish in sostituzione della figlia.

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.

3. Manifestamente infondate sono, altresì, le doglianze poste a fondamento del ricorso del T..

La Corte di merito ripercorre specificamente il contenuto delle conversazioni dalle quali emergono le circostanze di fatto rilevanti ai fini della prova della partecipazione del ricorrente al sodalizio.

In particolare, quella nella quale l’imputato oltre a mostrare premura per le sorti detentive di C.M., informa N. del fatto che lo stupefacente da vendere scarseggia poichè F. si è rifiutato di eseguire l’ordine di rifornimento impartito dal padre (n. 1782 del 5.7.2001); quella in cui N. riferisce al fidanzato che il T. ha avuto in consegna delle stecche (n. 953 del 21.6.2001); quelle nelle quali emerge che il T. si interessa delle scorte proponendosi per procurare altra sostanza stupefacente in caso di carenza (n. 1972 dell’8.7.2001 e n. 1998 del 9.7.2001).

Sul punto, peraltro, il ricorso muove censure aspecifiche e sostanzialmente volte ad una valutazione alternativa degli elementi di prova. Quanto alla richiamata valutazione contenuta nella sentenza del Gip del Tribunale di Torre Annunziata che ad avviso del ricorrente sarebbe incompatibile con quella della sentenza impugnata, il ricorso non è autosufficiente in mancanza di qualsivoglia allegazione. Come è noto, il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso (Sez. 6, n. 29263, 08/07/2010, Cavanna, rv. 248192).

Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso con il quale si censura la mancanza di motivazione in ordine alla determinazione della pena inflitta al ricorrente.

Invero, deve rilevarsi che la Corte di merito – sia pure con riferimento a tutti gli imputati – ha ritenuto adeguata l’entità della pena inflitta nel giudizio di primo grado, già temperata dal riconoscimento della ipotesi affermata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 tenuto conto della gravità dei fatti, con particolare riferimento alla continuativa attività di commercio dello stupefacente, sottolineando, altresì, l’oggettiva gravità riconducibile allo stabile radicamento della compagine associativa in un territorio pervaso da fenomeni mafiosi con interessi specifici nel settore del commercio degli stupefacenti.

In conclusione il ricorso proposto dal T. deve essere dichiarato inammissibile.

4. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento in favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro 1.000,00 ciascuno, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibili I ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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