Cons. Stato Sez. VI, Sent., 12-07-2011, n. 4196 Bellezze naturali e tutela paesaggistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La soc. F. I. s.p.a. riferisce di essere risultata aggiudicataria nel corso del 1996 dell’appalto pubblico per la realizzazione di un termovalorizzatore al servizio dei Comuni della Provincia di Lucca.

Fra il 1997 e il 2000, la società appellante propose cinque ricorsi dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Toscana per sentir pronunciare l’annullamento degli atti con cui il Comune di Capannori (sul cui territorio avrebbe dovuto essere realizzato l’impianto), la Regione Toscana e il Ministero per i beni e le attività culturali (e, per esso, la competente Soprintendenza) avevano nel corso degli anni adottato atti e provvedimenti tali da rendere definitivamente impossibile la realizzazione dell’impianto in parola.

In particolare:

Con un primo ricorso (recante il n. 3860/97) l’odierna appellante aveva chiesto l’annullamento: a) del Decreto Ministeriale del 3 giugno 1997 del Sottosegretario di Stato delegato dal Ministro per i beni culturali ed ambientali con il quale l’area dell’ex lago di Bientina, ricadente nei Comuni di Capannori Porcari ed Altopascio nella Provincia di Lucca e di Bientina e Castelfranco di Sotto nella Provincia di Pisa, era stata ricompresa tra le zone di interesse archeologico indicate nell’art. 1, lett. m) della legge 8 agosto 1985 n. 431; b) del decreto del Direttore generale del Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni ambientali e paesaggistici, del 23 luglio 1997, con il quale erano stati inibiti i lavori finalizzati alla realizzazione di un impianto di smaltimento rifiuti in località Casa del Lupo, nel Comune di Capannori.

Con un secondo ricorso (recante il n. 662/08), l’odierna appellante aveva chiesto l’annullamento del decreto ministeriale del 31 ottobre 1997 del Direttore generale del Ministero per i beni culturali e ambientali – Ufficio centrale per i beni archeologici architettonici artistici e storici, con il quale era stato posto il vincolo archeologico ai sensi della legge n. 1089 del 1939 sull’area destinata alla realizzazione dell’impianto di cui sopra.

Con un terzo ricorso (recante il n. 2557/98) la soc. F. I. aveva chiesto l’annullamento del provvedimento del Ministero per i beni culturali e ambientali, Soprintendenza archeologica di Firenze in data 30 gennaio 1998, con il quale era stato negato il nulla osta ex lege n. 1089 del 1939 ed espresso parere negativo ai fini ambientali, con riferimento al vincolo ex lege n. 431 del 1985, in merito al richiamato progetto.

Con un quarto ricorso (recante il n. 709/99) l’odierna appellante aveva chiesto l’annullamento della deliberazione della Giunta municipale del Comune di Capannori, n. 757 del 2 dicembre 1998, con la quale erano stati annullati e/o revocati tutti gli atti della serie procedimentale relativa alla realizzazione dell’impianto all’origine dei fatti di causa e, segnatamente:

– il decreto del Coordinatore del Dipartimento ambiente della Regione Toscana n. 5128 dell’8 novembre 1995, di approvazione del progetto dell’impianto di smaltimento di rifiuti a seguito del parere espresso dalla Conferenza regionale e dal Comitato tecnico, ai sensi dell’art. 3bis della legge n. 441 del 1987;

– il decreto del Coordinatore del Dipartimento ambiente della Regione Toscana n. 5128 dell’8 novembre 1995, di approvazione del progetto esecutivo dell’impianto di smaltimento di rifiuti, a seguito della gara di appalto espletata dal Commissario straordinario, anche agli effetti della procedura espropriativa e di occupazione d’urgenza;

– il decreto del Commissario straordinario n. 29 del 18 ottobre 1996, con il quale era stata disposta l’attuazione dei lavori e a tal fine attivata la procedura di espropriazione ed occupazione d’urgenza.

Con il ricorso in questione, poi, la soc. F. I. aveva chiesto che le amministrazioni intimate fossero condannate al ristoro dei danni patrimoniali subiti a causa della complessiva vicenda.

Con un quinto ricorso (recante il n. 1702/00) l’odierna appellante aveva chiesto l’annullamento della deliberazione del Consiglio regionale della Regione Toscana n. 133 del 1° marzo 2000 ed avente ad oggetto "destinazione finanziamento lire 24.863.000.000 – ex l. n. 441/1987 da impianto integrato di smaltimento rifiuti in località Casa del Lupo Comune di Capannori – Provincia di Lucca, ad impianto della Versilia Comune di Massarosa".

Con la pronuncia oggetto del presente gravame, il Tribunale adìto, previa riunione dei ricorsi in questione, in parte li dichiarava inammissibili e in parte li respingeva.

La pronuncia in questione veniva gravata in sede di appello dalla società F. I. la quale ne chiedeva l’integrale riforma articolando sedici motivi di doglianze, peraltro spesso ripetitive.

Si costituiva in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali il quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.

Si costituiva, altresì, in giudizio il Comune di Capannori il quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.

Si costituiva, infine, in giudizio la Regione Toscana la quale concludeva a propria volta nel senso della reiezione del gravame.

All’udienza pubblica del 15 febbraio 2011 la causa veniva trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da una società attiva nel settore della realizzazione di termovalorizzatori avverso la sentenza del T.A.R. per la Toscana con cui è stato dichiarato in parte inammissibile e in parte infondato (anche in relazione alla domanda risarcitoria) il ricorso proposto avverso gli atti con cui il Ministero per i Beni e le Attività culturali, la Regione e il Comune di Capannori avevano determinato la giuridica impossibilità di realizzare un termovalorizzatore (per quanto concerne l’impianto in questione, la gara era stata espletata e vinta dall’odierna appellante, ma il contratto non era stato stipulato per essere stato medio tempore apposto il vincolo archeologico sull’area).

2. Innanzitutto, occorre esaminare l’eccezione sollevata dalla difesa del Comune di Capannori, secondo cui il ricorso in appello sarebbe inammissibile per essere stato irritualmente notificato presso lo studio dell’avvocato difensore e non presso il domicilio eletto dal Comune (ossia, presso lo studio dell’avvocato Colzi in Firenze).

L’eccezione deve essere disattesa, dovendosi piuttosto riconoscere effetto sanante ex tunc dell’irrituale notifica la circostanza dell’avvenuta costituzione in giudizio da parte del Comune.

Si è condivisibilmente osservato al riguardo che nel processo amministrativo, mentre la notificazione del ricorso deve ritenersi inesistente quando manchi del tutto ovvero sia stata effettuata in un luogo o con riguardo a persona che non abbiano alcun riferimento con il destinatario della notificazione stessa (risultando a costui del tutto estranea), al contrario è affetta da nullità, ma sanabile con effetto ex tunc a seguito della costituzione del convenuto quando, pur eseguita mediante consegna a persona o in luogo diversi da quello stabilito dalla legge, un collegamento risulti tuttavia ravvisabile, così da rendere possibile che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario (Cons. Stato, V, 29 dicembre 2009, n. 8970).

Il che è puntualmente avvenuto nel caso di specie, atteso che la notifica è stata bensì effettuata presso un domicilio comunque riferibile al Comune appellato (si tratta dello studio dell’avvocato difensore del civico Ente).

3. Ancora in via preliminare, occorre esaminare la questione relativa alla sussistenza in capo alla società odierna appellante della legittimazione e dell’interesse ad agire in sede giurisdizionale per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti i quali, avendo impresso vincoli sull’area destinata ad accogliere l’impianto all’origine dei fatti di causa (area, questa, non di proprietà dell’appellante), avevano determinato l’impossibilità fattuale e giuridica di realizzare le opere di cui alla gara di appalto che la soc. F. I. si era vista aggiudicare già dall’ottobre del 1996.

Come si è esposto in narrativa, i primi Giudici hanno fornito alla questione risposta negativa (e affermato l’inammissibilità dei ricorsi proposti in primo grado), facendo essenzialmente leva sulla circostanza per cui l’area di sedime del realizzando impianto non fosse di proprietà della società aggiudicataria (secondo il T.A.R., infatti, "la società ricorrente, quale soggetto non proprietario delle aree in questione, non vede manifestarsi quell’interesse diretto alla rimozione degli atti impugnati che solo può sostenere, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., la legittimazione all’impugnazione degli stessi").

3.1. Ad avviso del Collegio, la pronuncia oggetto di gravame merita in parte qua di essere riformata.

Non ignora il Collegio il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, nella diversa materia dell’imposizione di vincoli di carattere urbanistico, spetta solo al proprietario dell’area (e non anche – ad es. – al locatario o ad altri soggetti i cui interessi siano comunque collegati al bene) la legittimazione ad agire avverso i provvedimenti impositivi del vincolo, dovendosi riconoscere alla seconda categoria di soggetti un interesse di carattere soltanto mediato e indiretto all’impugnativa (sul punto -ex plurimis -: Cons. Stato, IV, 5 febbraio 2009, n. 656).

Si ritiene, tuttavia, che in una vicenda quale quella all’origine dei fatti di causa, non possa negarsi in capo alla società appellante la sussistenza della legittimazione sostanziale (legitimatio ad causam) intesa – secondo la tradizionale impostazione – come titolarità in senso non mediato del rapporto controverso, la quale costituisce condizione stessa dell’azione.

Ed infatti, l’adozione degli atti oggetto di impugnativa nell’ambito del primo giudizio (e, in particolare, l’imposizione di vincoli sostanzialmente impeditivi alla realizzazione di un’opera di rilevantissimo interesse economico, già oggetto di affidamento) ha determinato effetti giuridici immediati e diretti nella sfera giuridica del soggetto aggiudicatario, determinando – peraltro – riflessi economici più rilevanti nella sfera giuridica dell’aggiudicatario stesso che in quella dello stesso proprietario dell’area (ciò, in quanto il valore dell’opera da realizzare eccedeva – e di molto – il valore stesso dell’area di sedime).

3.2. In base alle ragioni sin qui esposte, deve quindi passarsi all’esame del merito della questione (ossia, alla legittimità in se dei provvedimenti con cui le Amministrazioni appellate hanno determinato l’impossibilità della realizzazione del termovalorizzatore e ai conseguenti profili risarcitori).

4. Con i motivi di ricorso numm. 5, 6, 7, 8, 9, 10 la società appellante censura sotto svariati profili (meglio descritti in narrativa) l’illegittimità: a) del decreto ministeriale in data 3 giugno 1997 con cui è stato imposto sull’area destinata alla realizzazione dell’opera il vincolo paesistico (trattandosi di "zona di interesse archeologico" ai sensi dell’art. 1, co. 5, lettera m) del dP.R. 24 luglio 1977, n. 616, come introdotto dall’art. 1 del d.l. 27 giugno 1985, n. 312, nel testo modificato dalla relativa legge di conversione); b) del conseguente decreto direttoriale in data 23 luglio 1997 con cui è stata inibita la realizzazione dei lavori di realizzazione dell’opera a cagione del particolare interesse dell’area; c) del decreto ministeriale in data 31 ottobre 1997 con cui è stato imposto sull’area il vincolo archeologico ai sensi della l. 1° giugno 1939, n. 1089; d) del provvedimento ministeriale con cui è stato negato il nullaosta ai sensi della l. 1089 del 1939 ed espresso parere negativo ai fini ambientali in relazione al vincolo di cui al d.l. 312 del 1985 (convertito in l. 431 del 1985).

4.1. Sotto tale aspetto, il ricorso in questione non può trovare accoglimento, dovendo confermarsi la legittimità dei provvedimenti con cui l’amministrazione statale ha dapprima imposto sull’area i vincoli di carattere paesistico ed archeologico e, successivamente, negato il nullaosta ai fini ambientali ed archeologici alla realizzazione dell’impianto.

Ora, dal momento che entrambi i vincoli imposti sull’area (ivi compreso, quindi, quello di carattere paesaggistico ed ambientale) rinvengono l’ubi consistam sul particolare interesse storico ed archeologico riconosciuto al sito, i motivi in questione (fatte salve le differenze su cui fra breve si tornerà) possono essere esaminati in modo congiunto.

4.2. Il Collegio ritiene in proposito che i provvedimenti impugnati in primo grado resistano alle censure sollevate, in quanto:

– la relazione prodromica all’imposizione del vincolo ha motivato in modo congruo e scevro da palesi vizi logici in ordine alle ragioni sottese;

– il decreto impositivo ha altresì motivato affermando che le indagini archeologiche svolte nella località Casa del lupo del Comune di Capannori in epoca successiva all’aggiudicazione dell’appalto, hanno svelato un’area la quale "appare prevalentemente occupata da una complessa serie di canalizzazioni antiche, che con diversa morfologia e orientamento, si inquadrano da epoca etrusca tardoarcaica ad epoca romana tardo repubblicana e successivamente tardo medievale";

– la stessa società appellante ricorda che a breve distanza dal sito di proprio interesse erano stati effettuati rilevamenti archeologici di notevole interesse (una glarea strata – o via glareata – di età etrusca, alcuni templi romani, nonché anfore, statue e altri reperti di età romana);

– in definitiva, gli atti e i provvedimenti dinanzi richiamati hanno ritenuto in modo congruo ed esente da palesi vizi valutativi la sussistenza di un interesse archeologico relativo all’area in parola e il suo inquadramento organico nell’ambito di una più vasta zona di interesse storico ed archeologico. Per le ragioni appena esposte non può trovare accoglimento l’ulteriore motivo di appello fondato sul fatto che le aree in questione sarebbero caratterizzate da un mero interesse topografico e storiografico, connesso a "modeste restituzioni di tipo stratigrafico". Ed infatti, le ragioni giustificative del vincolo risiedono in modo congruo ed adeguato sulla circostanza in sé dell’esistenza di un’area archeologica di carattere unitario, da salvaguardare in modo complessivo a prescindere dal locus puntuale dei rinvenimenti e in relazione alla probabilità di nuovi rinvenimenti, nonché – più in generale – all’interesse alla piena salvaguardia di un sito storico rimasto nel suo assetto di fondo inalterato nel corsi dei secoli ed ancora riconoscibile nei suoi tratti caratterizzanti;

– non può affermarsi la sussistenza dei vizi di difetto di istruttoria e di motivazione in relazione al fatto che l’area in parola fosse stata nel corso del tempo degradata e parzialmente urbanizzata e che le aree circostanti (nel cui ambito, pure, erano stati effettuati ritrovamenti archeologici di apprezzabile rilievo) fossero state notevolmente alterate, sì da compromettere il complessivo interesse storicoarcheologico del sistema di aree circostanti. Si è condivisibilmente affermato al riguardo che l’avvenuta edificazione di un’area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati (nonché, ai fini che qui rilevano, i valori storici e archeologici), poiché l’imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso (Cons. Stato, VI, 4 giugno 2010, n. 3556). La giurisprudenza ha, altresì, affermato che siccome la qualificazione di rilevanza paesaggisticoambientale di un sito non è determinata dal suo grado d’inquinamento – ché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela -, ne consegue che l’imposizione del relativo vincolo serve piuttosto a prevenire l’aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (Cons. Stato, VI, 27 aprile 2010, n. 2377).

Si tratta evidentemente di statuizioni che, attesa la ratio di ordine generale che le ispira, possono agevolmente essere traslate alla diversa materia (che qui viene in rilievo) della salvaguardia di valori di carattere storico ed archeologico;

Per le medesime ragioni non sussistono i lamentati vizi relativi al diniego di nullaosta ai fini archeologici (il quale risulta congruamente fondato sulla finalità di salvaguardare i beni oggetto di tutela e di prevenire, nei limiti del possibile, l’ulteriore compromissione dell’area nel suo complesso). Per ragioni in larga parte analoghe, non sussistono i lamentati vizi relativi al diniego di nullaosta ai fini paesaggistici ed ambientali (anche in questo caso, l’atto di diniego risulta comprensibilmente e adeguatamente finalizzato all’estrema salvaguardia dell’area oggetto di tutela)

– non può pervenirsi a conclusioni diverse da quelle sin qui individuate neppure laddove si enfatizzi l’ottavo motivo di appello, per la parte in cui lamenta che il Ministero avrebbe illegittimamente proceduto all’integrazione degli elenchi di cui alla l. 29 giugno 1939, n. 1497 ("protezione delle bellezze naturali") operando un intervento sostitutivo non ammesso in base alla pertinente normativa nazionale (l. 1497, cit.; l. 431 del 1985) e regionale (L.R. Toscana n. 52 del 1982; L.R. Toscana n. 74 del 1984). A tacer d’altro, si osserva che, anche nell’ipotesi in cui il motivo in questione risultasse fondato, nulla muterebbe in concreto per ciò che attiene la sussistenza di insuperabili vincoli impeditivi alla realizzazione dell’opera. Ed infatti si osserva che la realizzazione del termovalorizzatore risultava preclusa non solo in base all’imposizione di un vincolo di carattere paesaggistico ed ambientale, ma soprattutto (ed in modo autonomamente preclusivo) in base all’imposizione di un vincolo di carattere archeologico. Ebbene, si osserva che il vicolo in questione risultava ex se idoneo a precludere in modo radicale la realizzazione dell’impianto e che tale vincolo (per le ragioni dinanzi esposte) resiste alla proposizione dei motivi di censura dinanzi articolati.

4.3. Per le ragioni sin qui esposte, deve concludersi nel senso della reiezione dei motivi di ricorso proposti avverso i vincoli di carattere paesaggistico ed ambientale, nonché di carattere archeologico impugnati nell’ambito dei ricorsi al T.A.R. numm. 3860/97, 662/98 e 2557/98.

5. Occorre, a questo punto, esaminare le numerose censure di illegittimità sollevate avverso la delibera di Giunta n. 757/98 con cui il Comune di Capannori ha deciso di annullare ovvero revocare tutti gli atti della serie procedimentale relativa alla realizzazione del termovalorizzatore all’origine dei fatti di causa (ivi compresi gli atti di approvazione del progetto e le conseguenti determinazioni del Commissario straordinario) e di manifestare, in ultima analisi, la volontà di non dare attuazione al progetto in parola (si tratta dei motivi di appello n. 11, 12, 13, 14 e 15 in premessa meglio descritti).

5.1. Le censure in parola non possono trovare accoglimento.

5.2. Al riguardo il Collegio ritiene dirimente osservare che, una volta palesatasi la giuridica impossibilità di realizzare l’impianto di smaltimento e recupero di rifiuti a causa dell’adozione di provvedimenti impositivi di vincoli radicalmente ostativi alla sua realizzazione, la scelta di abbandonare il progetto si presentasse per il Comune di Capannori come sostanzialmente vincolata e tale da giustificare l’adozione della richiamata delibera di giunta.

5.3. Il carattere insuperabilmente preclusivo dei richiamati provvedimenti impositivi dei vincoli (i quali, per le ragioni dinanzi esaminate sub 4, resistono al vaglio giurisdizionale) rende irrilevante ai fini del decidere l’esame dei motivi di doglianza con cui si lamenta che l’adozione della richiamata delibera di Giunta fosse viziata dall’aprioristica contrarietà del Comune di Capannori alla realizzazione dell’impianto in questione.

5.4. Per le medesime ragioni, non può trovare accoglimento il motivo di censura fondato sulla mancata comunicazione di avvio del procedimento conclusosi con l’adozione della richiamata delibera n. 757/98.

Si osserva al riguardo che appare provato che, anche laddove l’amministrazione avesse proceduto a fornire la richiamata comunicazione di avvio, il contenuto dispositivo del provvedimento finale (e, in ultima analisi, l’esito della vicenda fattuale) non avrebbe potuto essere diverso.

5.5. La radicale impossibilità di realizzare l’opera per l’esistenza di insuperate preclusioni derivanti dai vincoli di carattere paesaggistico ed ambientale nonché di carattere archeologico insistenti sull’area, esime il Collegio dall’esaminare le ulteriori censure di illegittimità proposte avverso la delibera in questione e nella presente sede puntualmente riproposte con il quattordicesimo motivo di appello.

5.5.1. Per ragioni analoghe non può trovare accoglimento il quindicesimo motivo di appello, con cui la soc. F. I. lamenta che, all’indomani dell’imposizione del vincolo di carattere paesaggistico e ambientale sull’area, il Comune non abbia fornito risposta all’istanza finalizzata al rilascio del nullaosta ai fini ambientali.

Anche sotto tale aspetto si osserva che l’esistenza del un vincolo di carattere archeologico sull’area sortisse ex se una valenza insuperabilmente preclusiva alla realizzazione dell’impianto.

5.5.2. Per le medesime ragioni, poi, non può trovare accoglimento il sedicesimo motivo di appello, con cui si lamenta che la delibera di Consiglio regionale con cui è stato disposto il definanziamento del progetto sarebbe affetta da numerosi e rilevanti profili di illegittimità e che la delibera del Consiglio provinciale di adozione del piano regionale dei rifiuti sarebbe illegittima per violazione del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 e della L.R. 18 maggio 1998, n. 25, nonché per violazione dei princìpi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.

5.6. Una considerazione a parte merita il motivo di appello con cui si lamenta sotto altro profilo l’illegittimità della richiamata delibera comunale di annullamento e/o revoca in autotutela dell’intera serie degli atti sfociata nell’adozione dell’aggiudicazione della gara in favore dell’odierna appellante.

La soc. F. I. osserva al riguardo che il Comune non avesse competenza all’adozione del richiamato provvedimento di autotutela in quanto con la sua adozione erano stati travolti provvedimenti soggettivamente riferibili ad altre amministrazioni (in particolare: alla Regione Toscana e al Commissario straordinario dalla stessa nominato), oltretutto violando il principio – valevole in materia di adozione di atti di autotutela – del c.d. "contrarius actus’.

5.6.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

Si osserva al riguardo che, secondo quanto risulta agli atti di causa, con decreto in data 30 settembre 1997, la Regione Toscana aveva proceduto a revocare la nomina del Commissario straordinario (al quale, sin dal 1993, era stato demandato per intero lo svolgimento dei compiti e l’adozione dei provvedimenti finalizzati alla progettazione, messa a gara ed esecuzione dell’opera).

Risulta, altresì, che con la richiamata delibera regionale del settembre 1997 la Regione Toscana (titolare dei richiamati compiti e funzioni) avesse attribuito per intero il relativo esercizio al Comune di Capannori.

Pertanto, la questione che occorre risolvere è relativa al se al soggetto delegato (o, più in generale, al soggetto cui sia a vario titolo conferito l’esercizio di determinati poteri pubblici) resti preclusa l’adozione di atti di ritiro in autotutela, laddove questi ultimi vadano ad incidere su un ambito sostanziale oggettivamente ricadente nell’ambito dell’atto di delega o conferimento, ma concernano atti soggettivamente riferibili ad altri plessi organizzativi.

Ad avviso del Collegio non sussistono ragioni di ordine sistematico tali da confortare una siffatta preclusione.

Si è condivisibilmente osservato la riguardo che nell’ipotesi di delega estesa a tutto l’ambito delle funzioni proprie del titolare dell’organo, non occorre che la delega medesima contenga l’espressa menzione della sostituzione anche per l’adozione degli atti di autotutela relativi all’esercizio di tali funzioni, rientrando gli stessi in quelli di amministrazione attiva (Cons. Stato, VI, 2 ottobre 2007, n. 5086). E’ appena il caso di osservare che la pronuncia in questione è stata resa in relazione a un’ipotesi di delega interorganica, ma il principio ivi enunciato risulta certamente riferibile anche al caso – che qui viene in rilievo – di delega intersoggettiva.

5.7. In base a quanto sin qui esposto, occorre concludere nel senso che:

– i provvedimenti impositivi del vincolo paesaggistico e di quello archeologico in relazione all’area del realizzando impianto resistono alle censure formulate nei due gradi di giudizio, non essendo viziati di illegittimità. Inoltre, il complesso dei vincoli in parola aveva reso oggettivamente impossibile la realizzazione dell’impianto all’origine dei fatti di causa;

– la delibera di Giunta del dicembre 1998 con cui il Comune di Capannori aveva annullato e revocato in autotutela gli atti dell’intera serie prodromica all’affidamento della gara, dando atto dell’impossibilità di dar seguito alcuno al progetto, resiste a sua volta alle censure formulate nei due gradi di giudizio, costituendo null’altro, se non il suggello formale dell’oggettiva impossibilità di realizzare l’opera. Conseguentemente, deve ritenersi che il Comune abbia legittimamente dato atto, attraverso l’adozione della richiamata delibera, della richiamata situazione di impossibilità.

6. A questo punto, può procedersi all’esame delle questioni risarcitorie già proposte in primo grado e nella presente sede puntualmente riproposte (si tratta del primo, secondo e quarto motivo di appello).

6.1. La domanda volta ad ottenere il ristoro di cui è menzione all’art. 345 della l. 20 marzo 1865, n. 2248 – all. F (‘legge sui lavori pubblicì – in seguito: art. 134 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 -) per le ipotesi di recesso dal contratto stipulato non può trovare accoglimento.

E’ dirimente osservare al riguardo che l’odierna appellante era risultata aggiudicataria dell’appalto per la realizzazione di un termovalorizzatore nel Comune di Capannori, ma che il relativo contratto non è mai stato stipulato, in tal modo rendendo inapplicabili le richiamate disposizioni normative.

6.2. Occorre, a questo punto esaminare il capo dell’atto di appello con cui si chiede (in riforma della sentenza di primo grado) di condannare le Amministrazioni appellate al ristoro del danno patito nell’ambito della complessiva vicenda quanto meno a titolo di responsabilità precontrattuale ( art. 1337, cod. civ.).

6.2.1. La domanda è meritevole di accoglimento nei termini che seguono.

6.2.2. Come è noto,nel corso degli anni più recenti è andato formandosi un ordinamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a., non si deve tener conto della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, bensì della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell’art. 1337 c.c. (Cons. Stato, V, 7 settembre 2009, n 5245, ma – prima ancora -: Ad. Plen. 5 settembre 2005, n. 6).

L’approccio in questione (volto ad enfatizzare la necessaria salvaguardia del principio di buona fede in senso oggettivo piuttosto che l’interesse in se alla stipula del contratto) appare conforme ai più recenti orientamenti della S.C. secondo cui l’applicabilità della norma sancita dall’art. 1337 c.c. non è neppure preclusa dall’intervenuta stipulazione del contratto (cfr. Cass., sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24795; id, Sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724).

Se ciò è vero, ne risulta confermata la configurabilità della responsabilità di cui all’art. 1337 cod. civ. anche nelle ipotesi in cui la mancata stipula del contratto sia dipesa da fattori non imputabili all’amministrazione (ad es., il factum principis ovvero il radicale mutamento della situazione di fatto sottesa alla vicenda di causa – Cons. Stato, sent. 1763 del 2006, cit. -), laddove – tuttavia – l’amministrazione si sia comunque resa colpevole di un contegno non compatibile con il generale obbligo di realizzazione degli adempimenti necessari a garantire la validità, l’efficacia o l’utilità del rapporto negoziale (nonché, prima ancora, la sua stessa finalizzazione – Cons. Stato, V, 7 settembre 2009, n. 5245 -).

Anche sotto tale aspetto, l’approccio in questione appare compatibile con i più recenti arresti della Corte di cassazione, secondo cui il principio di correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore" – deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass. Civ., III, 10 novembre 2010, n. 22819).

6.2.3. Ebbene, queste essendo le coordinate sistematiche attraverso cui riguardare la vicenda di causa per ciò che attiene il versante risarcitorio, si osserva che risulta provata in atti l’esistenza di una serie di comportamenti posti in essere dalle amministrazioni intimate (in particolare: da parte del Comune di Capannori e della Regione Toscana) nel corso della fase precontrattuale, certamente in contrasto con il richiamato canone di buona fede in senso oggettivo.

In particolare:

– al Commissario straordinario della Regione Toscana (e, per esso, alla Regione intesa quale articolazione funzionale di carattere unitario) risulta imputabile la colpevole inerzia serbata all’indomani dell’aggiudicazione del contratto alla soc. F. I. (ottobre 1996) e sino alla fine del mese di settembre 1997 (allorquando la stessa Regione aveva determinato di attribuire tutte le competenze sulla realizzazione dell’impianto al Comune di Capannori). Vero è che già nei mesi di giugno e luglio del 1997 erano emerse circostanze che avrebbero potuto indurre a dubitare della possibilità stessa di concludere e, successivamente eseguire il contratto; ma è pur vero che l’amministrazione regionale (e, per essa, il Commissario straordinario, nominato appunto per superare la situazione di stallo relativa alla realizzazione dell’impianto in questione) aveva, in modo sostanzialmente ingiustificato omesso per molti mesi di realizzare quanto di propria competenza al fine di pervenire alla stipula del contratto. Né la sussistenza del richiamato profilo di responsabilità (lo si ripete, derivante dalla violazione in se del canone di buona fede in senso oggettivo) può essere negata in base alla circostanza (solo successivamente emersa) secondo cui l’opera non avrebbe comunque potuto essere realizzata per essere medio tempore emerse circostanze relative all’interesse archeologico dell’area di sedime;

– al Comune di Capannori è imputabile il colpevole ritardo con cui si è proceduto a porre nel nulla l’intera serie procedimentale conclusasi con l’aggiudicazione della gara (la delibera di annullamento in autotutela è stata adottata solo nel dicembre del 1998), nonostante fosse noto ormai dall’ottobre dell’anno precedente che sull’area gravava un vincolo di carattere archeologico e nonostante fosse noto dal gennaio del 1998 che la competente Soprintendenza aveva negato il nullaosta di cui alla l. 1089 del 1939, in tal modo rendendo, di fatto, impossibile la realizzazione stessa dell’impianto progettato.

6.2.4. Per le ragioni appena esposte, il Comune di Capannori e la Regione Toscana si sono resi colpevoli di un’ipotesi di responsabilità di carattere precontrattuale idonea a supportare la pretesa risarcitoria nella presente sede proposta.

Devono essere, invece, ritenuti esenti da qualunque profilo di responsabilità il Ministero per i beni e le attività culturali e le sue articolazioni territoriali in quanto nell’attività complessivamente posta in essere non sono ravvisabili né profili di illegittimità, né comportamenti lato sensu riferibili al paradigma di cui all’art. 1337 cod. civ.

6.2.5. Ai fini della quantificazione del danno, il Collegio ritiene di fare applicazione della previsione di cui al comma 4 dell’art. 34, c.p.a., secondo cui in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine.

A tal fine si ritiene di non poter seguire in modo integrale in tradizionale orientamento secondo cui, in caso di condanna per responsabilità di carattere precontrattuale, il quantum risarcitorio deve essere parametrato per intero all’interesse negativo rappresentato dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale allo stato prevalente, infatti, il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale da parte della pubblica Amministrazione a seguito della mancata stipula dal contratto, deve intendersi limitato:

a) al rimborso dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative svolte in vista della conclusione del contratto (danno emergente), nonché

b) al ristoro della perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione con altri di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe stato realizzato con la stipulazione e l’esecuzione del contratto (in tal senso, ex plurimis: Cons. Stato, VI, 17 dicembre 2008, n. 6264; id., Sez. IV, 6 giugno 2008, n. 2680; id., Sez. V, sent. 14 aprile 2008, n. 1667).

Tuttavia, ad avviso del Collegio, il criterio in questione può essere integralmente e proficuamente utilizzato soltanto nelle ipotesi paradigmatiche in cui fra il comportamento scorretto dell’amministrazione e la mancata stipula del contratto intercorra un nesso di conseguenzialità diretta. Al contrario, al medesimo criterio devono essere apportati dei temperamenti per le ipotesi in cui (come nel caso di specie) sussista, sì, un comportamento contrario a buona fede in senso soggettivo tenuto dall’amministrazione nel corso della fase precontrattuale, ma la mancata stipula del contratto non costituisca un effetto di tale comportamento, bensì l’effetto di fattori ulteriori autonomamente idonei, sotto il profilo causale, a determinare l’impossibilità di stipulare il contratto.

In siffatte ipotesi, l’ammontare delle spese sostenute per la partecipazione alla gara può bensì essere assunta quale parametro per la determinazione del quantum risarcitorio, ma non quale posta risarcitoria in senso proprio, bensì quale criterio di computo idoneo a riempire di contenuto concreto una determinazione in via equitativa del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1226, cod. civ.

Nel caso di specie, quindi, si ritiene congruo commisurare il quantum del risarcimento da corrispondere nella misura del quaranta per cento delle spese effettivamente sostenute ai fini della partecipazione alla gara (ivi comprese le spese di progettazione).

Non si ravvisano, invece, ragioni sistematiche o fattuali tali da indurre ad accogliere la domanda risarcitoria per ciò che attiene il preteso importo pari al 10 per cento del corrispettivo di gara.

Inoltre, non si ritiene di poter riconoscere il ristoro delle spese inutilmente sostenute nel corso delle trattative in vista del contratto non concluso, atteso che la società appellante non ha fornito alcun elemento di prova relativo ad ulteriori, possibili occasioni di stipulazione di contratti (altrettanto o maggiormente vantaggiosi rispetto a quello non concluso) i quali sarebbero stati impediti proprio dalle trattative indebitamente interrotte, in tal modo determinando l’obbligo di ristoro sotto il profilo del lucro cessante

Per quanto riguarda l’imputabilità soggettiva della condotta foriera di danno e la distribuzione del conseguente onere risarcitorio, si ritiene che la complessiva valutazione in ordine al comportamento delle amministrazioni appellate (e in ordine alla gravità dei relativi comportamenti) induca a distribuire il complessivo onere risarcitorio nella misura del 60 per cento a carico del Comune di Capannori e del 40 per cento a carico della Regione Toscana.

6.2.6. In conclusione, la domanda volta al ristoro del danno da responsabilità precontrattuale deve essere accolta in parte e per l’effetto, ai sensi del comma 4 dell’art. 4, c.p.a. deve disporsi la condanna del Comune di Capannori (nella misura del 60 per cento) e della Regione Toscana (nella misura del 40 per cento) di una somma di denaro che i debitori dovranno in concreto proporre alla società appellante entro sessanta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, determinandone l’ammontare sulla base dei seguenti criteri:

– in primo luogo, occorrerà determinare l’ammontare delle spese effettivamente sostenute per la partecipazione alla gara in questione (ivi comprese le somme per la predisposizione della documentazione di gara e del progetto, ove sussistenti e provate);

– le somme in tal modo determinate dovranno essere ridotte fino al quaranta per cento del loro ammontare complessivo;

– sul quantum risarcitorio in tal modo determinato, da intendersi quale debito di valore, dovranno essere computati gli interessi nella misura legale e la rivalutazione monetaria sino al giorno della pubblicazione della sentenza. Dovranno, inoltre, essere computati gli interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della decisione sino all’effettivo soddisfo.

7. Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in epigrafe deve essere accolto in parte, nei sensi di cui in motivazione, e per l’effetto deve essere disposta la condanna del Comune di Capannori e della Regione Toscana a proporre in favore della società appellante, entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, una somma di denaro determinata in base ai criteri di cui al punto 6.2.6. della motivazione.

Il ricorso in questione deve essere respinto sotto ogni altro profilo.

Le spese seguono la soccombenza per il Comune di Capannori, mentre la complessità delle questioni sottese alla presente decisione giustifica la compensazione delle spese di lite fra le altre parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe,

lo accoglie in parte nei sensi di cui in motivazione, e per l’effetto dispone la condanna del Comune di Capannori e della Regione Toscana a proporre in favore della società appellante, entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, una somma di denaro determinata in base ai criteri di cui al punto 6.2.6. della motivazione e lo respinge per il resto.

Condanna il Comune di Capannori alla rifusione delle spese di lite, nella misura di euro 5.000 (cinquemila) oltre gli accessori di legge.

Spese compensate per le altre parti in causa.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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