Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 06-04-2011) 08-07-2011, n. 27013 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 12.11.2010, il Tribunale della Libertà di Milano rigettava l’istanza di riesame proposta da C.C. A. avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere emessa nei suoi confronti dal gip del Tribunale di Milano per i reati di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies e art. 353 c.p., entrambi aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7. Il Tribunale ricordava che all’imputato, persona già sottoposta a misura di prevenzione, e tuttavia titolare di incarichi pubblici di rilievo, essendo stato, da ultimo, fino al suo arresto, direttore sanitario della ASL di Pavia, era stata in precedenza applicata con ordinanza del gip di Milano del 5.7.2010, la medesima misura cautelare personale per il reato di cui agli artt. 110 e 416 bis, in quanto ritenuto concorrente esterno in una delle articolazione lombarde dell’associazione mafiosa denominata "ndrangheta", la cd. locale di Pavia, e molto vicino a due esponenti di primo piano dell’organizzazione criminale, N.G. e B.C.. Il ruolo del C. all’interno del gruppo criminale si era esplicato, secondo l’imputazione associati va, in un’attività di illecito condizionamento di competizioni elettorali a favore di candidati vicini alla cosca, e più in generale in un’opera di mediazione tra il ceto politico pavese ed esponenti della ndrangheta, con reciproci vantaggi per entrambi.

2. Quanto alle nuove contestazioni cautelari, quella D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 quinquies riguardava beni di varia natura, tra i quali le quote di due società la PFP s.r.l., e la PFP sas formalmente intestate a terzi, e numerosissimi immobili, urbani o agricoli, intestati a società o persone fisiche, in ogni caso ritenute prestanome dell’imputato.

I giudici del riesame sottolineavano che per gli immobili intestati alla figlia del C., E., lo stesso imputato aveva formulato sostanziali ammissioni circa le false attribuzioni di titolarità, pur spiegandole con ragioni diverse da quelle ipotizzate dall’accusa (egli non sarebbe stato mosso dalla preoccupazione di eventuali misure patrimoniali ma soltanto dall’intento di "sistemare" la figlia, e abbandonare i propri interessi in Italia per trasferirsi definitivamente in un paese caraibico); e ricordavano le indicazioni emerse a proposito di altri intestatari di beni ritenuti riconducibili all’imputato, come Z.L. e S.R.D. E., prive di qualunque reddito proprio, o come P. S., formalmente amministratore della PFB srl, ma in realtà per sua stessa ammissione persona a libro paga del C. e semplice prestanome dell’imputato; citavano, infine, quanto ad una delle società coinvolte nell’imputazione di intestazione fittizia, la Caribean International Society srl, il contenuto di una conversazione telefonica intercettata, nel corso della quale il C. avrebbe in sostanza esplicitamente rivelato di essere l’effettivo dominus della stessa società.

Circa la sussistenza del dolo specifico del reato di intestazione fittizia, i giudici del riesame rilevavano che già nell’autunno del 2009 il C. aveva saputo di indagini nei suoi confronti, come risultava dal contenuto della conversazione intercettata in ambiente il 16.11.2009, e svalutavano, al contrario, il contenuto di altre conversazioni nel corso delle quali l’imputato aveva dichiarato l’intento di cedere i propri beni alla figlia e di trasferirsi all’estero. Ma sottolineavano, anche, il particolare grado di consapevolezza dell’imputato in ordine agli strumenti repressivi attivabili contro particolari forme di pericolosità sociale, ricordando la precedente sottoposizione dell’imputato a procedimento di prevenzione. Nel quadro di una risalente "maturità" criminale refluente nella valutazione degli scopi reali delle dismissioni patrimoniali oggetto di contestazione, il Tribunale della Libertà inseriva anche i precedenti giudiziari dell’imputato per il reato di estorsione, e la sua vanteria di essere in passato scampato alla giustizia per un tentato omicidio (ambientale del 24.1.2009).

3. il reato di cui all’art. 353 c.p., comma 2 era stato attribuito al C. in concorso con V.G., all’epoca dei fatti sindaco del comune di Borgarello, in relazione all’alterazione del risultato della gara di appalto indetta per l’assegnazione in diritto di superficie del lotto del piano di zona per l’edilizia economica e popolare dello stesso comune; la turbativa, secondo l’accusa, era stata orchestrata al fine di consentire l’aggiudicazione dell’appalto alla PFP srl, società alla quale era interessato C.C. A..

Le modalità della turbativa si sarebbero esplicate:

a) Con la presentazione, da parte della PFP s.r.l. di due offerte di importo diverso, della quale era stata protocollata solo quella di importo minore, destinata ad esse sostituita dall’altra qualora avessero partecipato alla gara altre imprese;

b) con l’allontanamento della gara di altra impresa facente capo all’assessore B.;

c) con la insufficiente pubblicità procurata al bando di gara, in modo da limitare la possibilità di partecipazione di imprese concorrenti;

d) con l’anticipata comunicazione, rispetto alla scadenza del termine di presentazione delle offerte, al formale titolare della PFP, P.S., che non erano ancora pervenute domande di partecipazione alla gara;

e) con la garanzia assicurata alla PFP che dopo l’aggiudicazione l’area interessata sarebbe passata in proprietà piena all’impresa vincitrice predestinata.

Il tribunale formulava il giudizio di gravità indiziaria sulla base del contenuto di alcune intercettazioni telefoniche che avrebbero tra l’altro evidenziato i contatti tra il C. e il coimputato V.G. diretti alla turbativa della gara attraverso la realizzazione delle condotte descritte nel capo di imputazione.

I giudici territoriali ritenevano poi che le condotte di turbativa descritte dall’accusa corrispondessero al paradigma della norma incriminatrice, e integrassero la forma consumata del reato di cui all’art. 353 c.p., ravvisabile quante volte sia dato di rilevare una condotta finalizzata a ottenere una irregolare aggiudicazione della gara, mediante l’allontanamento di altri concorrenti e in ogni caso con ogni comportamento diretto a influenzare la libera concorrenza della gara. (Corte di Cassazione 11/11/2005, SEZ. 1, RIC. P.G. in proc. Castiglione ed altri, citata nel provvedimento).

Con riferimento all’aggravante contestata ex art. 353 c.p., comma 2, il tribunale rilevava il ruolo essenziale avuto dal V. nella procedura di gara, ricordando i principi affermati in materia dalla giurisprudenza in tema di reato di turbata libertà degli incanti. In particolare, i giudici territoriali citavano Cass. Sez. 6^ 24.4.2007, PG in processo (OMISSIS), dove la precisazione che la qualità di preposto alla gara spetta a chiunque, in un qualsiasi momento dell’ iter procedurale, e senza limitazione al momento terminale della celebrazione della gara, assuma e svolga, anche di fatto, funzioni essenziali ai fini della realizzazione dell’obiettivo finale del pubblico incanto o della licitazione privata, in modo che, a cagione della sua condotta, risulti comunque pregiudicato il principio della libera concorrenza che costituisce il bene protetto dalla norma incriminatrice.

Alla stregua dell’indirizzo di legittimità condiviso dal Tribunale, in sostanza, agli effetti dell’aggravante in questione sarebbe rilevante l’effettivo esercizio di compiti pubblici (anche se eccedenti quelli formalmente spettanti), cui si accompagni l’acquiescenza o la tolleranza o il consenso anche tacito della pubblica amministrazione. Peraltro, la deliberazione a contrarre assunta con atto n. 107 dell’1.12.2009 dalla giunta comunale presieduta dal V., si configurava essa stessa come atto gestionale rilevante e risultava, inoltre, che l’imputato si era quasi sostituito al funzionario comunale responsabile dell’Area Tecnica nel promuovere gli atti amministrativi prodromici della gara.

4. Ricorre il difensore, che articola i seguenti motivi:

4.1 Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza di gravi indizi di reità in ordine al delitto di intestazione fittizia di beni, inb particolare con riguardo al dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice. Dal compendio probatorio in atti si trarrebbero indicazioni del timore del C. di essere indagato per il reato di cui all’art. 378 c.p., non per il reato di associazione mafiosa; le motivazioni del trasferimento dei vari beni sequestrati sarebbero del tutto diverse da quelle ipotizzate dall’accusa; l’indagato non avrebbe cioè agito al fine di eludere eventuali misure di prevenzione patrimoniale, ma perseguendo un radicale mutamento della propria vita. Egli aveva infatti manifestato l’intenzione di trasferirsi all’estero liquidando le sua attività in Italia, mentre le cessioni a favore della figlia avrebbero obbedito, in sostanza, anche al sentimento paterno. Per quel che riguarda le dismissioni societarie, il ricorso indugia sulle dichiarazioni del P., che offrirebbero una ricostruzione dei rapporti societari tra i due incompatibile con l’ipotesi accusatoria;

4.2 Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della gravità indiziaria per i trasferimenti di beni anteriori al 16.11.1999, periodo al quale potrebbe farsi risalire la consapevolezza del ricorrente di essere indagato. Sarebbe al riguardo manifestamente illogica la valorizzazione, da parte dei giudici del riesame, della millanteria dell’indagato relativa ad un suo presunto, precedente proscioglimento da un’accusa di omicidio, commesso all’età di diciannove anni; di nessun rilievo sarebbe poi l’avviso orale di polizia ricevuto dall’imputato nel 1997 ai sensi della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, così come il contenuto della conversazione tra l’indagato e il T. dell’1.4.2010, che confermerebbe soltanto la presenza occulta del C. nella PFP s.r.l., e sarebbe pur sempre riferibile a un periodo successivo al novembre 1999. La stessa neutralità indiziaria sarebbe rilevabile poi nei rapporti tra il C. e I.A.. Nel ricorso si analizzano poi partitamente alcune operazioni immobiliari, bancarie e societarie, per sottolineare specifiche indicazioni della impossibilità di ricondurle all’area delle transazioni negoziali colpite dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies.

4.3 Difetto di motivazione in ordine alla ritenuta continuazione dei reati; il motivo si ricollega a quello relativo al discrimine temporale tra operazioni sospettabili e no oggetto delle censure sub 4.2.;

4.4 violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7; il difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul punto sarebbe tanto più censurabile in relazione all’indeterminatezza della contestata condotta "mafiosa" alla stregua dell’imputazione, che si limita in sostanza a richiamare il D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 4.5 Violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 353 c.p.. Sarebbe sfornita di prova la circostanza che al bando di gara non fosse stata fornita adeguata pubblicità; la presunta comunicazione al P. circa la mancata presentazione di offerte concorrenti e la garanzia in ordine ad un possibile, successivo mutamento del diritto di superficie in proprietà piena non avrebbero nulla a che fare con la fattispecie descritta dalla norma incriminatrice; l’invito rivolto al B. dal V. di non partecipare alla gara avrebbe tutelato la legalità amministrativa, dal momento che il B., come assessore comunale, si sarebbe trovato in conflitto di interessi rispetto alla sua carica; infine, la gara si sarebbe comunque svolta regolarmente, senza che l’iniziale espediente di consegnare al V. due buste contenenti offerte diverse, avesse avuto alcuna influenza concreta sull’esito della procedura;

4.6 violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 353 c.p., comma 2 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7. I contatti dell’imputato con il N. in relazione al progetto di insediamento edilizio nel comune di Borgarello oggetto di indagine, non sarebbero in alcun modo riferibili agli interessi criminali del N., che comunque aveva rifiutato di partecipare alla gara; quanto all’aggravante di cui all’art. 353 c.p., comma 2, al V. non potrebbe essere ascritta la qualifica i persona preposta agli incanti, ruolo peraltro concretamente e formalmente svolto dal dr. M.S..

4.7 Manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), in punto di sussistenza delle esigenze cautelari.

Le argomentazioni del tribunale apparirebbero contraddittorie già rispetto al ritardo con cui il PM aveva assunto l’iniziativa cautelare; la pericolosità sociale del ricorrente sarebbe stata impropriamente desunta dai giudici territoriali sulla base del presunto ruolo di rilievo assunto dal C. all’interno della "ndrangheta", ruolo smentito dalla contestazione del semplice concorso esterno; l’imputato avrebbe un unico e modesto precedente penale, assolutamente aspecifico, e non sarebbe stato mai sottoposto propriamente a misure di prevenzione, avendo ricevuto in passato soltanto un avviso orale del questore ai sensi della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4; il pericolo di fuga sarebbe stato affermato dal tribunale in assenza di concreti elementi significativi, non avendo peraltro i giudici territoriali considerato che le presunte disponibilità finanziarie del ricorrente, suscettibili di agevolare una sua eventuale latitanza, erano ormai assoggettate a sequestro.

Non sarebbe inoltre in alcun modo ravvisabile il pericolo di fuga, e infine, l’insussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 farebbe venire meno la presunzione di pericolosità stabilita dall’art. 275 c.p.p., comma 3.

Motivi della decisione

1. Riguardo al reato di intestazione fittizia di beni, deve ritenersi accertato, in punto di fatto, secondo le corrette valutazioni del tribunale, che le attribuzioni di proprietà immobiliari e di quote societarie alla figlia da parte dell’indagato, abbiano natura fittizia; ciò è stato ammesso dallo stesso C. con riferimento ai numerosissimi trasferimenti immobiliari, sia pure giustificati con motivazioni diverse da quelle supposte dall’accusa;

per la partecipazione della donna alla società PFP srl, poi, il tribunale ricorda (pag. 10), le indicazioni del ruolo di prestanome del padre dalla stessa assunto, confermate dal contenuto di un’ intercettazione ambientale. Sono altresì condivisibili le valutazioni dei giudici del riesame sull’analoga posizione, all’interno della stessa società, di A.L. e S.R. D., soggetti nullatenenti che non risulta abbiano mai presentato dichiarazioni fiscali. Non convincono poi le obiezioni difensive sulla posizione del P.. Si tratta di deduzioni largamente disancorate dal percorso argomentativo dell’ordinanza impugnata, che sottolinea adeguatamente anzitutto le significative ammissioni dello stesso P., ma anche il contenuto di alcune intercettazioni telefoniche relative all’operazione immobiliare di Borgarello, dalle quali emergerebbe chiaramente come il P. fosse manovrato dall’imputato. Per il resto, la difesa privilegia l’analisi di dettaglio dei singoli cespiti, che però nulla toglie alla validità della diversa metodologia argomentativa seguita dal Tribunale, incentrata sugli aspetti essenziali del reato di intestazione fittizia, cioè l’attribuzione dell’apparente titolarità di beni a soggetti che ne assicurino l’immutata disponibilità al loro dante causa. Dette valutazioni sono in generale riproducibili anche per tutti i valori societari, in quanto il gip e il tribunale del riesame abbiano rilevato le ingerenze più o meno occulte dell’imputato, e la posizione "servente" nei suoi confronti dei soci apparenti. Si vedrà subito, poi, che in questa analisi non può farsi nemmeno riferimento al discrimine temporale invocato dalla difesa, cioè l’autunno del 2009. 2. Quanto allo scopo delle attribuzioni fittizie, del tutto logicamente i giudici territoriali svalutano il contenuto delle intercettazioni del 25.11.2009 e del 16.4.2010, dalle quali risulterebbe che l’indagato aveva trasferito i propri immobili alla figlia per costituire una rendita a favore della stessa e ritirarsi in un esotico paese straniero (Cuba o Santo Domingo). Dette intercettazioni sono infatti successive a quelle in cui l’imputato rivela di essere a conoscenza delle indagini in corso nei suoi confronti "perchè venivo sospettato di essere…..quello che fa ricoverare i mafiosi" (conv. ambientale del 16.11.2009, riportata a pag. 10 dell’ordinanza), e di avere il telefono sotto controllo. E’ quindi in effetti verosimile che l’imputato nel corso delle conversazioni intercettate successivamente, abbia inteso in sostanza "anticipare" le proprie difese, architettando, nella consapevolezza di potere essere ascoltato, un contesto di prova apparentemente genuino. E’ ovvio poi che le deduzioni difensive in esame non valgano per i rapporti dell’indagato con i suoi prestanome societari ( P., Z., S., la medesima figlia E. ecc…), rispetto ai quali la stessa difesa mostra evidente imbarazzo quando rileva che "al fondo, la questione non è quella di eludere misure di prevenzione patrimoniali, ma solo la necessità di accedere al credito bancario attraverso persone che non siano considerate a rischio dal sistema creditizio", laddove non si vede quale potesse essere il rischio bancario rispetto alla invidiabile situazione patrimoniale del ricorrente, che quindi doveva nutrire timori non per la propria credibilità finanziaria, ma per ragioni ben diverse, che non illogicamente, il tribunale ricollega al suo vissuto criminale.

3. Alquanto peregrine, poi, sono le argomentazioni difensive sul titolo giuridico dei reati per i quali il C. poteva ritenere di essere sospettato o indagato. A parte che dette valutazioni interpellano insondabili atteggiamenti psicologici, quello che conta è che il ricorrente era consapevole di essere inquisito per rapporti non occasionali con soggetti mafiosi, a favore dei quali avrebbe offerto compiacenti prestazioni sanitarie. Ne poteva scaturire di tutto, sul piano delle conseguenti ricadute giudiziarie, e la stessa ipotesi di favoreggiamento sostenuta dalla difesa come termine concreto delle preoccupazioni del C., "avrebbe potuto" essere aggravata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, il che avrebbe comportato comunque il rischio di misure patrimoniali ai sensi della L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, comma 2. 4. Ma è corretta la valutazione del tribunale della sussistenza dello scopo elusivo tipico previsto dal primo comma della norma incriminatrice, e con riferimento ad un arco temporale più risalente rispetto a quello a cui si riferiscono i trasferimenti di immobili a favore della figlia, o rispetto al momento in cui il ricorrente aveva rivelato (nell’autunno del 2009), la consapevolezza di indagini in corso nei suoi confronti. La conoscenza delle indagini è infatti sopravvalutata dalla difesa come discrimine temporale e quasi come condizione imprescindibile ai fini dell’identificazione dell’elemento soggettivo del reato. Quel che conta, piuttosto, è l’indagine sulla consapevolezza "sostanziale" del ricorrente di essere ormai saldamente radicato nell’ambiente mafioso, e comunque in stili criminali di vita che lo esponevano, almeno potenzialmente, ad azioni repressive degli inquirenti e della magistratura, chiaramente ricollegabili sotto il profilo patrimoniale, ad una situazione di possidenza di non comune rilievo.

Al riguardo peraltro, giudici del riesame rilevano correttamente tanto il coinvolgimento dell’imputato in altro procedimento penale per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (che definisce non una forma "attenuata" ma una forma "diversa" di partecipazione al sodalizio criminale, rilevando peraltro in proposito il tribunale che il C. aveva guadagnato grande influenza nell’ambiente mafioso di riferimento), che i suoi precedenti "di polizia", che vanno considerati non tanto per il loro contenuto concreto, ma per la loro natura "preventiva" e come spia di una significativa attenzione degli organi inquirenti nei confronti del ricorrente, a carico del quale il tribunale valuta inoltre correttamente anche gli inquietanti precedenti giudiziari. La difesa, riguardo a questi ultimi, contesta il rilievo della presunta millanteria dell’imputato in ordine al suo coinvolgimento in un fatto di sangue, ma in ogni caso, nelle "rivendicazioni" dell’imputato è senz’altro rilevabile l’esibita adesione a modelli di vita criminale fin da epoca risalente (il ricorrente avrebbe partecipato ad un omicidio all’età di diciannove anni). Quanto, poi, al coinvolgimento dell’imputato in una vicenda estorsiva risalente al 1991, è certo che nella prospettiva di un procedimento di prevenzione potrebbero comunque valere le sue frequentazioni con esponenti malavitosi (tutti definitivamente condannati per lo stesso reato), indipendentemente dall’esito giudiziario del procedimento per lo stesso C., relativamente favorevole (egli beneficiò della prescrizione dopo ripetute condanne nei gradi di merito).

5. Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, devono quindi ritenersi infondate anche le deduzioni difensive sul limite temporale della contestazione anche ai fini della continuazione, non essendo allo stato possibile, almeno in termini di gravità indiziaria, individuare spazi temporali immuni da sospetti rispetto alla salutazione di coincidenti acquisizioni patrimoniali del ricorrente. Il percorso di vita del C., nella logica ricostruzione dei giudici territoriali, è costantemente cadenzato da interessi e frequentazioni criminali tipicamente attratte nell’orbita degli strumenti giudiziari di prevenzione del delitto, peraltro personalmente sperimentati dallo stesso ricorrente, non importa se in forma non particolarmente incisiva. Il ricorso a prestanome nelle società, poi, proprio in quanto risalente ad epoca anteriore all’autunno del 2009, conferma la costante preoccupazione del ricorrente di evitare la "visibilità" delle sue iniziative economiche, per motivi che non possono affatto essere ricondotti ad esigenze di affidabilità "bancaria", certo non soddisfatte da soci come la figlia E. o la Z. e la S..

6. Le motivazioni del Tribunale non si prestano a censura alcuna, sotto il profilo logico-giuridico, nemmeno in ordine alla sussistenza della gravità indiziaria per il reato di turbata libertà degli incanti. I giudici territoriali ricordano le interazioni tra l’indagato e V.G. in ordine alla concertazione di iniziative inequivocabilmente dirette all’alterazione del risultato della gara, come la consegna al V., da parte del C., di due buste contenenti offerte di diverso importo, in modo da consentire al C. di concorrere con il minimo rialzo o, in alternativa, di adeguare l’offerta al maggior impegno che potesse essere richiesto dalla presenza di imprese concorrenti; sottolineano inoltre la limitata pubblicità offerta al bando di gara, espediente ritenuto dagli stessi interessati, in una conversazione intercettata, di indubbia efficacia al fine del conseguimento del risultato voluto, dovendosi peraltro rilevare che trattandosi di reato di pericolo, il delitto previsto dall’art. 353 può essere commesso con qualunque mezzo fraudolento concretamente idoneo a conseguire l’evento del reato, configurabile anche in un danno potenziale e mediato (Corte di Cassazione 40831 08/06/2010 Sez. 6 Dell’Aquila e altri) e adeguatamente rilevano, ai fini dell’aggravante di cui all’art. 353, comma 2, e, la particolare influenza di fatto assunta dal V. nello svolgimento della gara, alla stregua di un protagonismo apprezzato anche per la sua "invadenza" rispetto a competenze funzionali altrui, e anche per questo maggiormente significativo. Nè importa, come giustamente opina il tribunale, che le manovre di turbativa portarono incidentalmente all’esclusione dalla gara di un’impresa inquinata dagli interessi di un altro amministratore locale, essendo stata pur sempre limitata anche la partecipazione di altri potenziali concorrenti, ed essendo stati assicurati al C. indebiti vantaggi nella predisposizione delle offerte.

7. Le deduzioni difensive meritano invece accoglimento in ordine alla questione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Ed invero, con riguardo al reato di cui alla L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, manca nel provvedimento impugnato qualunque indagine sulla prospettiva associativa che dovrebbe essere implicata nei fatti, rispetto all’intento elusivo immediatamente rilevabile nei vari atti di trasferimento di assicurare bensì la sorte dei beni contro possibili iniziative giudiziarie, ma a garanzia degli interessi patrimoniali "individuali" del C.. Il tribunale della libertà, nella totale assenza di motivazioni sul punto, finisce con il confondere lo scopo agevolativo dell’intera associazione con la presumibile origine criminale dell’ accumulazione dei beni, in quanto in ipotesi più o meno direttamente riferibile all’inserimento del ricorrente in un’associazione mafiosa. Per quanto concerne il reato di cui all’art. 353 cod. pen., poi, il tribunale opera una singolare traslazione del movente della condotta incriminata nel passaggio dal contesto criminale "qualificato" (in senso mafioso) a favore del quale il C. aveva cercato in un primo momento di organizzare la turbativa, al nuovo contesto criminale in cui si era infine realmente collocata l’operazione, senza preoccuparsi di verificare se anche nel mutato quadro di rapporti personali e criminali, fossero autonomamente implicati gli interessi della criminalità organizzata.

8. Sotto il profilo delle esigenze cautelari, i giudici del riesame argomentano convenientemente il proprio convincimento, sottolineando soprattutto il pericolo di fuga dell’imputato, espresso dalla sua dichiarata intenzione di recarsi stabilmente in lontani paesi esteri, mentre appare alquanto apodittica l’affermazione difensiva che egli non ne avrebbe oggi i mezzi a causa del sequestro dei suoi beni, che non esclude l’esistenza di disponibilità liquide sfuggite alla misura di cautela reale. La serietà dell’intento di fuga non potrebbe sotto altro profilo ritenersi contraddetta dalla verosimile mistificazione del movente del trasferimento all’estero come una banale scelta di vita idonea a giustificare anche le dismissioni patrimoniali contestate, ben potendo lo scopo del ricorrente di sottrarsi alla giustizia residuare in termini di "verità" a concorrenti manovre di depistaggio, tanto più tenuto conto, come notano i giudici territoriali, dell’attitudine già manifestata del C., in margine al suo precedente coinvolgimento in fatti estorsivi, a porre in essere condotte intese a deviare i risultati delle indagini. La "concretezza" delle valutazioni dei giudici territoriali in punto di esigenze cautelari, esclude poi il rilievo della questione relativa alla sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7. 9. Per le considerazioni che precedono, l’ordinanza impugnata deve essere annullata limitatamente all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con rinvio per nuovo esame sul punto al tribunale di Milano. Il ricorso va nel resto rigettato.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con rinvio al Tribunale di Milano per nuovo esame sul punto; rigetta nel resto.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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