Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 27-06-2011) 12-07-2011, n. 27197 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

R.S., Ri.Fi., N.F. e L. S. ricorrono a mezzo dei loro difensori, avverso l’ordinanza 24 febbraio 2011 del Tribunale del riesame di Napoli (che, ha per loro confermato l’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal GIP del Tribunale di Napoli, in data 31 gennaio 2011, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p.) deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1.) l’accusa associativa del capo A) ed il provvedimento impugnato.

R.C., R.S., R.A. nato l'(OMISSIS), Re.An. nato il (OMISSIS), N. G., Ra.Ma., Ri.Fi., N. F. e L.S. hanno proposto richiesta di riesame avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal GIP del Tribunale di Napoli in data 31 gennaio 2011, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., contestato al capo A) della provvisoria imputazione, per aver preso parte all’associazione a delinquere di tipo mafioso, denominata clan Reale, operante nell’area orientale della città di Napoli, quartiere di San Giovanni a Teduccio, specificamente al Rione Pazzigno, e zone limitrofe, con condotta contestata fino al giugno del 2010, rivestendo " R.C. il ruolo di capo, promotore, organizzatore; R.A. e L.S. quello di "capozona" ed addetti al controllo del territorio ed al controllo degli affari del gruppo camorristico, nel periodo in cui il capo dell’organizzazione R.C. era detenuto; gli altri quali partecipi.

Il Tribunale del riesame, con ordinanza 24 febbraio 201, ha dichiarato inammissibile l’istanza di riesame proposta da R. C.; ha annullato l’ordinanza del G.I.P. con riferimento ai due R.A., N.G. e Ra.Ma. per i quali ha disposto l’immediata liberazione. Ha invece confermato il provvedimento impugnato nei confronti di R.S., L. S., Ri.Fi. (moglie di R.C.) e N.F. (moglie di R.S.).

Risulta dal provvedimento impugnato che la vicenda cautelare consegue ad una mirata attività d’indagine, posta in essere all’indomani dell’omicidio di R.P., fratello di R.C., considerato uno degli esponenti apicali dell’omonimo clan camorrista.

Successivamente a tale episodio criminoso, risalente all’1 ottobre 2009, si è proceduto ad attività di intercettazione, protrattasi sino al giugno del 2010, per individuare gli autori del grave fatto di sangue, attività questa che consentiva di raccogliere elementi di prova sulla perdurante operatività del clan Reale, nonostante lo stato di detenzione dei suoi esponenti apicali.

Le indagini si puntualizzavano sul monitoraggio delle vicende del gruppo criminale, e venivano attivate intercettazioni ambientali dei colloqui in carcere a carico dei capi del clan detenuti: in tal modo si sono verificate in tempo reale, le reazioni degli affiliati alla vicenda omicidiaria, e si è tratta conferma della vigenza dell’associazione e del permanere della storica contrapposizione del clan Reale con il clan D’Amico, attivo nella medesima zona territoriale.

Per il Tribunale del riesame il segmento temporale che ha interessato le indagini, confluite nell’ordinanza, corrisponde ad un momento di difficoltà del clan Reale, il quale, all’indomani degli intervenuti arresti dei suoi principali esponenti e dell’omicidio di R. P., unico tra i capi ad avere libertà di movimento dopo un lungo periodo di detenzione, si trovava a dover attingere alle forze residue per presidiare il territorio (il Rione Pazzigno di S. Giovanni a Teduccio) e conservare la propria affermazione, sia pure in maniera stentata, onde evitare il sopravvento delle organizzazioni criminali storicamente rivali, in particolare quelle dei D’Amico e dei Mazzarella.

In tale quadro, per il riesame, i contributi probatori sono stati espressi, in primis, dal tenore delle conversazioni intrattenute dagli affiliati detenuti con i propri congiunti, i quali nella consapevolezza di essere intercettati, e pur usando un linguaggio criptico, hanno fornito elementi indicativi delle dinamiche tipiche di un’associazione camorrista, quale è, appunto, il clan Reale, in un frangente di criticità.

La significatività delle affermazioni intercettate è stata ritenuta tanto più palese in quanto il comune denominatore di tutti i colloqui si innesta, nella quasi totalità dei casi, sul ricorrente tentativo di fornire una chiara chiave di lettura dell’omicidio di R.P., sforzandosi di scoprirne i mandanti e gli esecutori, anche disconoscendo la fedeltà di coloro che al momento dell’omicidio erano presenti sul posto (quali N.G. e Ra.Ma.) e fungevano da diretti collaboratori di R. P. nell’attività di spaccio nel terraneo di Corso Giovanni ove lo stesso aveva trovato la morte.

La difficoltà operativa dell’associazione, legata al particolare momento di crisi attraversato, è desumibile – per la gravata ordinanza – dall’esiguità delle risorse economiche disponibili, che si traduce in una sistematica penuria degli "stipendi" da distribuire, cosa che genera malcontento diffuso tra gli affiliati e preoccupazione per il futuro.

Ed è proprio su tale terreno di difficoltà dovuto alla morte di P. ed alla detenzione dei capi C. e S., che, secondo il Tribunale del riesame, hanno assunto ruoli decisivi gli odierni ricorrenti:

L.S. – quale plenipotenziario del capo clan detenuto R.C.;

Ri.Ro., moglie di R.C., che ha svolto un’attività di supplenza occupandosi personalmente delle casse dell’associazione;

N.F., coniuge di R.S. del quale ha costituito l’assiduo canale di comunicazione con l’esterno, anche sostenendo la forzata reggenza di L.S..

I gravi indizi di reità, in relazione alla contestata fattispecie associativa, sono stati desunti dalla specifica collocazione funzionale assunta dai suindicati affiliati, la quale è risultata eziologicamente collegata alle pregresse vicende del clan Reale, anche con riferimento agli organigrammi originari, nei termini conformi risultanti dalle indicazioni fornite dai collaboratori di giustizia tra cui A.F., M.S., F. M..

Le esigenze cautelari sono stati ritenute sussistenti ed attuali per la gravità dei fatti e comunque per l’operatività della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. 2.) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di questa Corte.

Vi sono in atti due distinti atti di gravame, il primo, dell’avv. Impradice per tutti e quattro i ricorrenti, il secondo degli avv.ti Abet e Cappuccio, per la sola Ri.Fi..

2.1) i ricorsi di R.S., N.F., L. S., Ri.Fi. e le ragioni della decisione della Corte di legittimità.

Con un unico motivo di impugnazione per tutti i ricorrenti si prospetta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’affermata sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. In particolare si lamenta:

a) la stringatezza del provvedimento genetico cui non sarebbe corrisposta, da parte del Tribunale del riesame, di una adeguata amplificazione delle ragioni giustificatrici dell’assunto provvedimento cautelare;

b) l’affidabilità attribuita alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non accompagnata dalla verifica della loro attendibilità intrinseca ed estrinseca;

c) la stessa sussistenza del clan Reale quale sodalizio mafioso la cui realtà è antecedente al periodo preso in considerazione dal provvedimento impugnato;

Da ciò l’impossibilità, sia pure nell’apprezzamento di una "condizione di resistenza" quale indicata dal Tribunale, di ritenere perdurante l’attività associativa: considerazione questa che vale:

oltre che per il R.S., anche per la N. il cui interesse rimane circoscritto a relazioni familiari, non essendovi prova di ordini ricevuti in carcere dal marito.

Identiche conclusioni vanno assunte per il L., "vicino alla famiglia Reale" ma non certo appartenente al clan, se ancora sussistente; nonchè per la Ri., la quale, nei colloqui intercettati "parla dei rapporti con altri soggetti, evidentemente già legati alla famiglia Reale.

Il motivo per come proposto non supera la soglia della ammissibilità.

Per consolidata giurisprudenza, in materia di misure cautelari personali, sia la scelta che la valutazione delle fonti di prova rientrano tra i compiti istituzionali del giudice di merito e sfuggono al controllo del giudice di legittimità se -come nella specie- adeguatamente motivate e immuni da errori logico-giuridici.

A tali scelte e valutazioni non può infatti opporsi, se correttamente motivate, un diverso criterio o una diversa interpretazione, anche se dotati di pari dignità (Cass. Penale sez. 6, 3000/1992, Rv. 192231 Sciortino).

In secondo luogo, nello stesso tema, il ricorso per cassazione, che deduca insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o -come nella specie- anche assenza delle esigenze cautelari è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (cfr ex plurimis: Cass. pen. sez. 5, 46124/2008, Rv.241997, Magliaro).

Diversamente, si verrebbe impropriamente ad anticipare alla fase cautelare una decisione sulla questione di merito (Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 1992, Midolini), in un contesto in cui lo sviluppo delle indagini in corso non consente ancora una focalizzazione della imputazione e le determinazioni del pubblico ministero circa l’esercizio dell’azione penale (Cass. Penale sez. 6, 48781/2003, Girelli e Pellegrini).

Stabilire se il fatto sussiste, se l’imputato lo ha commesso, se ricorre l’elemento soggettivo del reato, se esistono eventuali cause di non punibilità, è materia del giudice del dibattimento, davanti al quale le parti possono chiedere l’ammissione delle prove a carico e a discarico nell’ambito delineato dall’art. 187 c.p.p.; nei procedimenti che transitano per l’udienza preliminare, il contraddittorio si esercita già prima del dibattimento sui materiali investigativi che si sono cristallizzati a seguito della chiusura delle indagini ( art. 421 c.p.p., comma 3), e sugli ulteriori dati derivanti dalla eventuale attività di integrazione probatoria ( artt. 421-bis e 422 c.p.p.).

Orbene, nella specie, il Tribunale del riesame ha ritenuto l’esistenza e la persistenza del clan Reale, e, all’interno di esso delle dinamiche organizzative e relazionali tra gli odierni ricorrenti, funzionali alla sopravvivenza del sodalizio in un particolare momento di criticità.

Conclusioni queste tratte con argomentate sequenze logiche dal plurimo e convergente apporto probatorio offerto: dalle conversazioni intrattenute dagli affiliati detenuti con i propri congiunti; dalle conformi indicazioni di collaboratori di giustizia quali A., M., F., persone la cui attendibilità intrinseca ed estrinseca è stata ampiamente verificata.

Si tratta di una motivazione che, per come sviluppata, in stretta aderenza con le emergenze processuali e con scansioni logiche e coerenti risulta palesemente insindacabile in sede di legittimità, con conseguente declaratoria di inammissibilità delle corrispondenti censure.

2.2) il ricorso di Ri.Fi. e le ragioni della decisione della Corte di legittimità.

Con un primo motivo di impugnazione gli avv.ti Abet e Cappuccio, deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della configurabilità dell’associazione ex art. 416 bis c.p. e della ritenuta sussistenza per la Ri., degli indizi di cui all’art. 273 c.p.p..

In particolare si sostiene: a) che, una volta affermata l’attività di supplenza della donna (à bionda) quale moglie del detenuto R. C., sarebbe mancata l’indicazione di elementi indiziari conformi; b) che il ruolo di supplente non è stato desunto dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ma solo da indiretti riferimenti in alcuni colloqui, dai quali emerge comunque che il ruolo di cassiere-distributore degli utili appare straordinario e tale da destare sorpresa negli stessi interlocutori; c) che nella specie si trattava solo di rapporti familiari; d) che è intrinsecamente illogica la considerazione che trae dalla consegna di soldi a persona non affiliata (il N.) la prova di una condotta di partecipazione ed altrettanto illogica è l’attribuzione di un ruolo così delicato alla Ri. considerato che dai colloqui emerge che la sfiducia del R.C. nei confronti dei Ri. era tale che costui aveva pensato di allontanare anche la moglie Fi., comunque accusata dal marito di un privilegiato interesse per la sua famiglia di origine; e) che lo stesso C. risulta aver ordinato ad A. che gli interessi della famiglia dovevano essere gestiti da L.; f) che non può essere in proposito valorizzato il recapito di messaggi, trattandosi di condotte prive di concretezza.

Da ciò, per il ricorso, l’affermazione della insussistenza dei gravi indizi di una condotta partecipativa.

Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge con riferimento all’art. 125 c.p.p., comma 3 versandosi nella specie in presenza di una motivazione per relationem sostenuta in ogni caso da affermazioni generiche e tautologiche.

Entrambi i motivi sono inammissibili per le medesime ragioni dianzi indicate nella disamina dell’unico motivo di ricorso redatto dall’avv. Impradice, qui integralmente da richiamarsi.

Ne consegue pertanto che le impugnazioni, nella palese verificata coerenza logico-giuridica ed adeguatezza della motivazione, quale proposta nella decisione impugnata, vanno dichiarate inammissibili.

All’inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille). Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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