Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-11-2011, n. 25558 Responsabilità civile responsabilità del conducente

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 23 gennaio 2009 la Corte di appello di Napoli, su gravame della Progress Assicurazioni s.p.a. (già Mapfre Progress s.p.a.), ha confermato la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata del 6 agosto 2004, che aveva affermato la responsabilità esclusiva del conducente dell’autovettura P.G. per l’incidente del (OMISSIS) in cui perdeva la vita P.C. e accoglieva la domanda risarcitoria proposta da A.A.M. e P.A., in proprio e quali eredi della vittima, a favore dei quali liquidava il complessivo importo di Euro 1.160.780,99, oltre interessi legali dal fatto illecito al soddisfo.

Avverso siffatta decisione propone ricorso per cassazione la Progress Assicurazioni, affidandosi a quattro motivi.

Nessuna attività difensiva risulta espletata dagli altri intimati.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (omessa motivazione per travisamento su di un fatto controverso, decisivo per il giudizio: uso o non uso delle cinture di sicurezza) e con il secondo che affronta la tematica del mancato utilizzo delle cinture di sicurezza sotto il profilo della insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo ai fini del giudizio, ovvero le conseguenze dell’asserito mancato utilizzo, in estrema sintesi, la società ricorrente deduce che il giudice dell’appello abbia travisato palesemente le risultanze istruttorie "poichè avrebbe affermato in modo erroneo che non vi erano elementi per affermare che le cinture di sicurezza non erano state usate nè dalla P. nè dagli altri occupanti della vettura, in quanto non aveva rinvenuto alcun elemento utile nè dal rapporto della Polizia stradale, nè da tutti gli altri atti acquisiti al giudizio", tra cui la CTU, che non sarebbe stata letta con la dovuta attenzione.

Ed, inoltre, la asserzione dell’ausiliario sarebbe totalmente infondata, poichè, a suo avviso, contrasterebbe con le risultanze del rapporto delle autorità di Polizia che parlavano di verosimiglianza di non uso delle cinture di sicurezza ed evidenzia quale sua fonte il signor P.A., che in realtà è l’attore dell’intero giudizio (peraltro anche presente al sinistro) e, quindi, ogni sua dichiarazione è priva di valenza processuale e probatoria.

La ricorrente pone, poi, in rilievo che la affermazione da parte del giudice dell’appello circa l’incidenza solo ipotetica del mancato utilizzo delle cinture stante la gravità intensa e la molteplicità della lesioni subite, per cui non si sarebbe neppure potuto ipotizzare una sopravvivenza della P., se le avesse adottate, sarebbe una affermazione apodittica, in contrasto con le risultanze della CTU, dalle quali emergerebbe con chiarezza che l’uso della cintura avrebbe trattenuto la vittima ancorata al sedile impedendole sia che venisse proiettata verso il parabrezza, sia che impattasse contro le strutture rigide poste all’interno dell’abitacolo.

Osserva il Collegio che queste censure sono inammissibili.

La prima, perchè deduce un travisamento del fatto ed insiste su di esso, anche nella sua stesura, ovvero concreta la possibilità di un errore revocatorio, non di competenza di questa Corte di legittimità.

La seconda, perchè manca del necessario momento di sintesi così come richiesto dall’art. 366 bis c.p.c., stante la sua formulazione.

Ciò posto, il Collegio, data la gravità dell’oggetto del giudizio, ritiene che esse debbano essere disattese, perchè non conferenti all’argomentare del giudice dell’ appello, che si è fatto carico di esaminare gli atti processuali comunque acquisiti e con motivazione appagante sotto ogni profilo ha avuto modo di statuire quanto segue.

Il giudice dell’appello ha evidenziato una certezza, ovvero che il P.G., padre della vittima, ad elevata velocità, noncurante della strada bagnata e resa viscida dalla pioggia, in un tratto di curva e con i pneumatici in pessimo stato d’uso, aveva perso il controllo della vettura, che dopo essere urtata violentemente e ripetutamente contro il guard-rail, strisciava per alcuni metri contro la barriera di protezione, la scavalcava, ponendosi tra l’aiuola spartitraffico e il guard rail fino a ruotare su se stessa più volte.

I rilievi della Polstrada e l’esame dei danni della vettura non lasciavano dubbi sulla dinamica del sinistro nè, quindi, sulla responsabilità del conducente.

Ciò premesso, ed ormai nessuna contestazione è su questa dinamica, circa il mancato uso delle cinture di sicurezza, che, a dire della ricorrente, quantomeno avrebbero attenuato l’impatto e, quindi, la gravità delle lesioni, che condussero dopo oltre venti giorni alla morte di P.C., il giudice a quo ha escluso "con certezza" che il mancato uso delle cinture abbia determinato un concorso di colpa della vittima, potendosi solo presumere (in maniera del tutto ipotetica) che l’uso del dispositivo di sicurezza avrebbe attenuato le gravissime lesioni subite dalla ragazza".

Infatti, le predette lesioni furono tali e tante e di così intensa gravità, che non può neppure con certezza ipotizzarsi la sopravvivenza della P. alle stesse, posto che questa subì un politrauma che interessò non solo la testa e il torace, ma che compresse tutti gli organi vitali, riducendo al minimo la possibilità di sopravvivenza (p. 3-4 sentenza impugnata).

Ne consegue, dal punto di vista della valutazione delle censure, che esse risultano contraddette dall’incisivo argomentare del giudice dell’appello, che nell’esaminare le doglianze già in quella sede proposte, ha operato una valutazione logica e coerente dei fatti o meglio della causa dell’evento mortale, che per la eccessiva imprudenza del conducente era tale che si concretizzasse in quel modo, escludendo ogni efficienza causale all’eventuale non uso delle cinture di sicurezza da parte della vittima.

In altri termini, la esclusività della condotta del P. G., peraltro padre della vittima, che viaggiava a velocità elevata su tratti di strada resi viscidi dalla pioggia, con pneumatici posteriori in pessimo stato, e, in buona sostanza, la dinamica dell’incidente sono stati ritenuti elementi più che univoci ad escludere una qualsiasi ipotesi astratta di concorso di colpa della vittima alla propria morte.

A fronte di ciò la società ricorrente oppone un argomentare che non scalfisce la decisione e sembra ignorare la premessa fattuale della dinamica e la deduzione logica da essa, in relazione ai postumi dell’incidente, operata dal giudice a quo.

2. – Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione delle norme di diritto: art. 329 c.p.c.) la società ricorrente, in estrema sintesi, deduce che, applicando per la liquidazione del danno biologico da morte fatto valere jure hereditatis il criterio della vita effettivamente vissuta e non della vita media futura presumibile, il principio sarebbe stato enunciato solo in via accademica, ma non sarebbe stato applicato perchè la Progress non avrebbe impugnato nè il criterio di calcolo seguito dal Tribunale nè il risultato di calcolo, facendo, quindi acquiescenza alla somma liquidata a titolo risarcitorio in favore degli eredi della giovane deceduta nel sinistro.

In realtà, come si evincerebbe dal secondo motivo di appello "illegittima ed errata liquidazione del danno biologico" nessuna acquiescenza sarebbe stata fatta, perchè non si può avere acquiescenza sul quantum se si è impugnato l’an e formula il relativo quesito di diritto.

Al riguardo, osserva il Collegio che se l’assunto della ricorrente, anche dalla comparsa conclusionale in appello, diligentemente allegata, merita di essere condiviso, tuttavia la sentenza può essere confermata, per il semplice motivo che nella specie andava applicato e va applicato l’ius receptum di questa Corte che il giudice a quo invece ha ritenuto esporre solo per completezza.

In altri termini, effettivamente la società ricorrente ebbe a contestare l’an debeatur dell’attribuzione del danno biologico, e, quindi, non poteva fare acquiescenza ai criteri di calcolo seguiti dal Tribunale, ma è anche vero che il Tribunale, e poi il giudice dell’appello poterono affermare che contrariamente all’assunto dell’attuale ricorrente e cioè che la vittima fosse da considerarsi morta all’atto delle lesioni perchè tenuta in vita per oltre venti giorni in stato farmacologico, come attestato dalla CTU, hanno correttamente disatteso questa deduzione, in quanto anche dallo stato farmacologico si può uscire e comunque la vita in stato farmacologico non equivale a decesso.

Quindi, dal punto di vista giuridico il motivo non coglie nel segno.

La P.C. è vissuta oltre venti giorni dall’incidente e questo è quello che conta.

In questi sensi, correggendo la motivazione, il motivo va respinto.

3. – Con il quarto motivo, (violazione e falsa applicazione di norme di diritto – art. 112 c.p.c.) e che reitera quello proposto in appello , la società ricorrente deduce che il giudice dell’appello nel rigettare la censura proposta non avrebbe ben inteso il secondo motivo del gravame.

A suo avviso essa non si lamentava della ripartizione tra i due eredi, ma che ad essi sarebbe stata riconosciuta anche la quota del terzo erede il P.G., per cui ad essi andavano liquidati solo i 2/3 per il danno biologico e lo stesso discorso varrebbe per il danno morale.

Osserva il Collegio che il motivo è inammissibile perchè manca del relativo quesito di diritto, e, peraltro, è assolutamente infondato in quanto la liquidazione è avvenuta solo per gli originari attori, non essendo mai intervenuto nel giudizio P.G., terzo erede e la somma è stata solo ad essi attribuita.

Conclusivamente il ricorso va respinto, ma nulla va disposto per le spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla dispone per le spese.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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