Corte Costituzionale sentenza n. 314 SENTENZA 10 – 17 dicembre 2013

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SENTENZA

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 35, comma
3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in
materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n.
35, promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, nel
procedimento vertente tra Esposito Andrea Pietro e il Ministero della
giustizia ed altro, con ordinanza del 22 marzo 2013, iscritta al n.
134 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice
relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un giudizio amministrativo – proposto da un
magistrato ordinario, che ha impugnato la delibera del 7 febbraio
2013 (con cui il Consiglio superiore della magistratura ha pubblicato
le sedi vacanti ai fini della procedura di trasferimento),
chiedendone l’annullamento della lettera a), in cui e’ stabilito il
termine del decorso di un triennio di servizio nel posto ricoperto
quale requisito di legittimazione al trasferimento per tutti gli
aspiranti senza distinzioni – il Tribunale amministrativo regionale
del Lazio (sospeso l’atto impugnato, ma non esaurita la fase
cautelare), con ordinanza emessa il 22 marzo 2013, ha sollevato
questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 35, comma 3, del
decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia
di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35, che dispone
che l’art. 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento
giudiziario), «si interpreta nel senso che il rispetto del termine
ivi previsto e’ richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di
funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei
magistrati ordinari». Secondo il rimettente, il censurato art. 35 si
pone in contrasto con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della
Costituzione, «nella parte in cui esso rende l’art. 194 del R.d. n.
12 del 1941 applicabile ai magistrati (tra cui il ricorrente)
trasferiti d’ufficio a sede disagiata, ai sensi della legge n. 133
del 1998, prima dell’entrata in vigore della norma impugnata».
Premette, in fatto, il Tar che il ricorrente ha prestato servizio
in una tale sede per un periodo superiore a due anni alla data di
deliberazione e pubblicazione del bando, e che ha percio’ maturato il
requisito della permanenza biennale nell’ufficio, in virtu’ di quanto
previsto (ove la legge non stabilisca diversamente), dal paragrafo V,
punto 20, della circolare del Consiglio superiore della magistratura,
terza commissione, 8 giugno 2009, n. 12046; e ritiene che il bando
impugnato (del 7 febbraio 2013), nello stabilire (alla lettera a) che
«il termine di legittimazione per tutti gli aspiranti e’ quello
triennale», escluda che il magistrato proveniente da sede disagiata
possa sottrarsi a tale previsione. E che quindi – nonostante che,
all’epoca della assegnazione a sede disagiata, al ricorrente si
potesse opporre, per tale profilo, esclusivamente il limite di
permanenza biennale discrezionalmente introdotto dal Consiglio per i
trasferimenti d’ufficio, con la menzionata circolare n. 12046 del
2009 – l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, come autenticamente
interpretato dalla norma censurata, impone oggi di affermare che il
requisito di permanenza triennale ivi indicato trovi applicazione
ogni qual volta il magistrato venga trasferito, e percio’ anche a chi
sia stato trasferito d’ufficio a seguito di consenso o
disponibilita’.
Il rimettente precisa che il dubbio di costituzionalita’ non
riguarda affatto la scelta "a regime" del legislatore di applicare
anche al magistrato in sede disagiata il limite indicato dal citato
art. 194, ma la investe per la sola parte in cui tale scelta pretende
di applicarsi anche a chi fosse stato assegnato d’ufficio a tale sede
prima dell’entrata in vigore della norma impugnata. Da cio’, la
rilevanza della questione giacche’, in applicazione della norma
censurata, la domanda giudiziale proposta dal ricorrente dovrebbe
essere rigettata, essendo egli soggetto all’art. 194 dell’ordinamento
giudiziario; al contrario, la domanda dovrebbe essere accolta,
qualora fosse dichiarata l’illegittimita’ costituzionale della norma
medesima in parte qua.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione – premesse
ampie ed articolate argomentazioni circa la natura, caratteri ed
effetti della normazione interpretativa, nonche’ circa la sua
coerenza con l’impianto costituzionale – il rimettente rileva che,
«quale che sia l’approccio piu’ convincente sul piano teorico, […]
in ogni caso la autoqualificazione in termini interpretativi della
legge non e’ priva di conseguenze normative», essendo «noto, infatti,
che un limite alla retroattivita’ della legge e’ stato enucleato
dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento alla tutela
dell’affidamento che i consociati riponevano in un certo assetto
normativo, quando il legislatore pretenda invece di alterarlo anche
per il passato».
Il rimettente denuncia quindi la norma interpretativa,
innanzitutto, per violazione degli artt. 3, 102 e 111, primo comma,
Cost. dubitando, «in termini generali, che il legislatore possa
pretendere di dettare una norma per il passato, e nel contempo di
escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in forza della
natura interpretativa che le viene conferita (e cio’ a prescindere
dal fatto che l’intervento in oggetto sia davvero interpretativo, o
sia solo camuffato come tale)»; nonche’ dubitando che «la funzione
legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiche’
essa e’ riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art. 102
Cost.), che la esercita in forma diffusa, recependo e conferendo
forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti sul significato
da attribuire alle norme». Secondo il rimettente – mentre con la
legge retroattiva «il legislatore persegue gli obiettivi di certezza
del diritto e di uguaglianza innanzi alla legge, forte della propria
prerogativa di dettare norme per il passato, e con cio’ si assoggetta
ai limiti costituzionali imposti alle norme retroattive» – con la
legge interpretativa, invece, egli «cerca illegittimamente di
aggirare quei limiti, finendo non per rafforzare la certezza del
diritto, ma piuttosto per indebolirla», giacche’, «a processo in
corso, o comunque fino a che la fattispecie e’ potenzialmente
assoggettabile alla giurisdizione in caso di lite, i consociati sono
privati delle aspettative che ragionevolmente potevano riporre su di
un favorevole esito giudiziale, per venire invece assoggettati ad una
decisione prodotta secondo i ben diversi criteri di opportunita’
politica del legislatore, e dunque inevitabilmente imprevedibile, ma
ugualmente somministrata "in via interpretativa"», cosi’ assorbendo
la potestas iudicandi nella funzione legislativa.
Ove la Corte ritenesse che la Costituzione ammetta in termini
generali la figura della legge di interpretazione autentica, il
rimettente denuncia la medesima normativa anche per violazione
dell’art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha attribuito
all’art. 194 dell’ordinamento giudiziario una portata che esso non
poteva avere quando la disposizione impugnata e’ entrata in vigore,
non trovando essa applicazione nei confronti dei magistrati gia’
trasferiti d’ufficio a sede disagiata. Ricostruita l’evoluzione
normativa che ha fatto si’ che la norma interpretata fosse resa
compatibile con i soli trasferimenti a domanda, ovvero presso una
sede «chiesta» dal magistrato, il rimettente rileva che – quand’anche
si ritenesse che il legislatore fosse partito invece dall’intento di
uniformare la disciplina del trasferimento a domanda e del
trasferimento d’ufficio sotto la comune previsione dell’art. 194 – in
ogni caso andrebbe rilevato che tale operazione non si e’ sviluppata
adeguatamente sul piano normativo. A suo avviso, infatti, la sola
conclusione oggettivamente traibile da tale quadro normativo, e su
cui il magistrato poteva riporre affidamento quando aveva accettato
il trasferimento d’ufficio verso la sede disagiata, e’ che, venuta
meno un’espressa previsione di legge, trovasse applicazione solo la
disciplina suppletiva promanante dal CSM in tema di legittimazione a
seguito di trasferimento d’ufficio (il rimettente richiama la
precedente circolare sui tramutamenti del 30 novembre 1993, n. 15098,
il cui paragrafo V, punto 22, gia’ stabiliva quanto oggi e’ ribadito
dal vigente paragrafo V, punto 20, della indicata circolare n. 12046
del 2009, nonche’ la prassi seguita dal Consiglio nei precedenti
bandi di concorso.
Infine, in terzo luogo, il rimettente denuncia la violazione
dell’art. 3 Cost., poiche’ se, in linea di principio, negare che il
legislatore possa interpretare la legge non equivale a privarlo della
diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme
retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni
imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento e’
affidato alla discrezionalita’ legislativa -tuttavia, vi sono
interessi di rilievo costituzionale che non possono venire
pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento
«quale principio connaturato allo Stato di diritto». E, secondo il
Tar, il periodo minimo di permanenza nella sede, assicurato
dall’ordinamento giuridico al tempo in cui essa viene accettata,
«costituisce una componente essenziale e costitutiva della
fattispecie legale alla quale si chiede adesione da parte del
pubblico dipendente», non essendo «negabile che l’estensione
dell’arco temporale di servizio presso quest’ultima sia fattore
determinante per la scelta, non meno degli incentivi economici e di
carriera».
2.- E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
eccependo preliminarmente l’inammissibilita’ per irrilevanza della
sollevata questione: da un lato, in ragione del fatto che il
magistrato ricorrente nel giudizio a quo non ha maturato il termine
biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata
in vigore della normativa censurata; e, dall’altro lato, in quanto
l’interpretazione fornita dalla norma censurata e’ considerata, da
una parte della giurisprudenza amministrativa, l’unica corretta gia’
sotto il vigore dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, tanto che
la richiesta "eliminazione" della norma interpretativa sarebbe
tamquam non esset.
Nel merito, l’Avvocatura deduce la manifesta infondatezza della
questione con riferimento a tutti i parametri evocati, affermando in
primo luogo che la norma censurata e’ sopravvenuta in un contesto in
cui la prassi del CSM era gia’ nel senso di affermare che il termine
triennale di permanenza nel posto (sancito dall’art. 194) costituisse
requisito generale per la mobilita’ di sede, ritenendolo applicabile
ad ogni genere di trasferimento, quale ne fosse l’origine e la causa,
senza distinguere tra trasferimenti volontari ed officiosi, cosi’
assegnando alla disposizione interpretata un significato
riconoscibile come una delle sue possibili letture. Ne’, in senso
contrario, vale il riferimento alla previsione vigente di cui al
paragrafo V, punto 20, della richiamata circolare n. 12046 del 2009,
non potendosi non considerare che, venuta meno la copertura di
legislazione primaria, la disposizione della circolare non potrebbe
da sola (stante la riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.)
rappresentare la disciplina esclusiva dei limiti alla mobilita’ dei
magistrati.
Infine, con riferimento alla retroattivita’ della norma ed alla
connessa denunciata lesione dell’affidamento, la difesa dello Stato
esclude che la norma di interpretazione autentica, in quanto
retroattiva, non sia compatibile con l’assetto costituzionale, non
interferendo necessariamente con la sfera del potere giudiziario; ed
osserva che, nella specie, sono agevolmente rinvenibili motivi
imperativi di interesse generale (connessi alla gestione della
mobilita’ generale della magistratura, coerente con l’obiettivo di
una congrua stabilita’ funzionale minima dell’organizzazione degli
uffici giudiziari) ovvero principi di preminente interesse
costituzionale (posto che la continuita’ nell’esercizio della
funzione giudiziaria garantita dal generalizzato termine triennale
risponde alle esigenze di buona organizzazione della macchina
giudiziaria, ai sensi degli artt. 97 e 107 Cost.) sottesi al
censurato intervento normativo e giustificativi dello stesso.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio censura
l’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5
(Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4
aprile 2012, n. 35. La disposizione prevede che l’art. 194 del regio
decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) – secondo
cui «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di
funzioni, ad una sede da lui chiesta, non puo’ essere trasferito ad
altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre anni dal giorno
in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che
ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o
di famiglia» – «si interpreta nel senso che il rispetto del termine
ivi previsto e’ richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di
funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei
magistrati ordinari».
A giudizio del rimettente, la denunciata disposizione di
interpretazione autentica – nella parte in cui rende il termine
triennale previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario
applicabile (in luogo dei due anni previsti, in difetto di altra
statuizione di legge, dal paragrafo V, punto 20, della circolare del
Consiglio superiore della magistratura, terza commissione, 8 giugno
2009, n. 12046) anche ai magistrati (tra cui il ricorrente)
trasferiti d’ufficio a sede disagiata prima dell’entrata in vigore
della norma impugnata (ai sensi della legge 4 maggio 1998, n. 133,
recante «Incentivi ai magistrati trasferiti d’ufficio a sedi
disagiate e introduzione delle tabelle infradistrettuali») – si pone
in contrasto: a) con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della
Costituzione, essendo dubbio, «in termini generali, che il
legislatore possa pretendere di dettare una norma per il passato, e
nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso proprio,
in forza della natura interpretativa che le viene conferita (e cio’ a
prescindere dal fatto che l’intervento in oggetto sia davvero
interpretativo, o sia solo camuffato come tale)»; nonche’ che «la
funzione legislativa possa appropriarsi della funzione
interpretativa, poiche’ essa e’ riservata dalla Costituzione al
potere giudiziario (art. 102 Cost.), che la esercita in forma
diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto tra
gli interpreti sul significato da attribuire alle norme»; b) con
l’art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha attribuito all’art.
194 dell’ordinamento giudiziario una portata che esso non poteva
avere quando la disposizione impugnata e’ entrata in vigore, non
trovando essa applicazione nei confronti dei magistrati gia’
trasferiti d’ufficio a sede disagiata; c) con l’art. 3 Cost., poiche’
se, in linea di principio, negare che il legislatore possa
interpretare la legge che ha prodotto non equivale a privarlo della
diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme
retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni
imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento e’
affidato alla discrezionalita’ legislativa -, tuttavia, vi sono
interessi di rilievo costituzionale che non possono venire
pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento
«quale principio connaturato allo Stato di diritto».
2.- Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di
inammissibilita’, per irrilevanza, delle sollevate questioni, mosse
dalla difesa dello Stato sul duplice assunto: a) della mancata
maturazione da parte del ricorrente nel giudizio a quo del termine
biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata
in vigore della normativa censurata; b) della inutilita’ della
richiesta "eliminazione" della norma censurata, la quale fornirebbe
una interpretazione dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario gia’
in precedenza considerata, da una parte della giurisprudenza
amministrativa, come l’unica corretta.
Entrambe le eccezioni sono prive di fondamento.
Da un lato, infatti, il rimettente – chiamato ad annullare la
lettera a) della delibera del 7 febbraio 2013 (con cui il CSM ha
indicato le sedi vacanti, ai fini della procedura di trasferimento),
nella parte in cui impone, quale requisito di legittimazione al
trasferimento, la permanenza nel posto per un triennio, come previsto
dall’art. 194 del regio decreto n. 12 del 1941, a tutti gli
aspiranti, e quindi anche ai magistrati gia’ assegnati d’ufficio a
sede disagiata, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 133 del 1998 –
rileva espressamente che il ricorrente (trasferito in detta sede con
delibera del 6 luglio 2010 e successiva presa di servizio in data 20
settembre 2010) ha prestato servizio a tale titolo per un periodo
superiore a due anni alla data di deliberazione e pubblicazione del
bando; e che egli ha, percio’, maturato il requisito della permanenza
biennale nell’ufficio, secondo quanto previsto (ove la legge non
stabilisca diversamente) dal paragrafo 5, punto 20, della richiamata
circolare n. 12046 del 2009 del Consiglio. E chiarisce altresi’ che,
viceversa, qualora egli fosse soggetto alla previsione dell’art. 194
dell’ordinamento giudiziario (cosi’ come interpretato), in difetto di
un effettivo esercizio della funzione presso la sede disagiata pari
ad almeno tre anni, gli verrebbe negata la legittimazione al
trasferimento.
Dall’altro lato, la dedotta inutilita’ di una pronuncia
caducatoria della disposizione censurata – in quanto attribuirebbe
alla disposizione autenticamente interpretata l’unico significato
corretto – costituisce profilo attinente al merito e non alla
ammissibilita’ delle sollevate questioni.
3.- Le quali sono, invece, inammissibili per i motivi che
seguono.
3.1.- Muovendo dal presupposto «che in ogni caso la
autoqualificazione in termini interpretativi della legge non e’ priva
di conseguenze normative», il rimettente formula la questione (da lui
ritenuta pregiudiziale rispetto alle altre) della compatibilita’ con
la Costituzione della efficacia retroattiva della censurata norma di
interpretazione. In particolare – nel contestare il contrario assunto
secondo cui la norma stessa (finalizzata a risolvere un dubbio
ermeneutico in ordine alla applicabilita’ dell’art. 194
dell’ordinamento giudiziario per il conferimento a domanda delle
funzioni direttive) non ne abbia mutato la portata di regola
destinata a disciplinare i soli trasferimenti a domanda e non anche
quelli disposti d’ufficio – il Tar osserva che la lettera della
disposizione impugnata e’ univoca nell’estendere il requisito della
permanenza triennale a «tutti i trasferimenti», per funzioni «anche»
superiori o comunque diverse da quelle ricoperte; giacche’ (a suo
dire), se il legislatore avesse voluto occuparsi delle sole
assegnazioni alle funzioni «superiori», non avrebbe avuto alcuna
necessita’ di regolare trasferimenti di altra natura, essendo
viceversa palese l’intenzione di accomunare sotto la medesima
previsione normativa ogni ipotesi di destinazione del magistrato, a
domanda o d’ufficio, per imporre in tutti i casi un periodo minimo di
permanenza pari a tre anni.
Nel contempo, peraltro, il rimettente da’ atto che, in effetti,
la posizione fatta valere dal ricorrente nel giudizio a quo trova,
allo stato, conforto in pronunce di altra sezione del medesimo Tar
(di cui cita la sentenza della sezione I, del 1° ottobre 2012, n.
8229) e del Consiglio di Stato (sezione IV, ordinanze 7 febbraio
2012, n. 528, e 22 gennaio 2013, n. 188), che negano l’applicabilita’
della norma censurata a casi simili, in ragione del fatto che «il
legislatore sarebbe intervenuto a risolvere un dubbio interpretativo
nato in giurisprudenza in ordine alla applicabilita’ dell’art. 194 ai
fini del conferimento, a domanda, delle funzioni direttive
propendendo per la soluzione positiva», per cui l’intervento
interpretativo non «potrebbe mutarne la natura di norma destinata a
disciplinare i soli trasferimenti a domanda, e giammai quelli
disposti d’ufficio».
3.2.- Questa Corte si e’ ripetutamente espressa nel senso che va
riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine
obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di
escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti
ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di
imporre a chi e’ tenuto ad applicare la disposizione considerata un
determinato significato normativo (sentenza n. 424 del 1993). Ed ha
chiarito che il legislatore puo’ adottare norme di interpretazione
autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di
una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la
scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso
del testo originario, cosi’ rendendo vincolante un significato
ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 15 del
2012, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010).
Cio’ premesso, va rilevato che il testo originario dell’art. 194
dell’ordinamento giudiziario, secondo cui: «Il magistrato destinato,
per tramutamento o per promozione, ad una sede da lui chiesta od
accettata, non puo’ essere, di regola, trasferito in altre sedi prima
di due anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso
dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute o ragioni di
servizio», e’ stato, dapprima, sostituito dall’art. 2 della legge 16
ottobre 1991, n. 321 (Interventi straordinari per la funzionalita’
degli uffici giudiziari e per il personale dell’Amministrazione della
giustizia), per il quale «Il magistrato destinato, per trasferimento
o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta od
accettata, non puo’ essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad
altre funzioni prima di quattro anni dal giorno in cui ha assunto
effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute
ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. […]», e, poi,
modificato dall’art. 2 della legge 8 novembre 1991, n. 356
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9
settembre 1991, n. 292, recante disposizioni in materia di custodia
cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di
criminalita’ organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati
per la copertura di uffici giudiziari non richiesti) con la
soppressione delle parole «od accettata». Il testo vigente del citato
art. 194 (introdotto dall’art. 4, comma 2, della legge n. 133 del
1998) prevede che «Il magistrato destinato, per trasferimento o per
conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta, non puo’ essere
trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre
anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio,
salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di
servizio o di famiglia».
A fronte di tale evoluzione normativa, il rimettente stesso
osserva che, fin dall’approvazione della legge n. 356 del 1991,
l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario ha limitato la propria
portata applicativa ai soli trasferimenti a domanda. E sottolinea che
siffatto ambito di efficacia (conseguente alla limitazione della
sfera di operativita’ della norma, rimasta applicabile ai soli
trasferimenti verso una sede non soltanto «accettata», ma «chiesta»
dal magistrato) non e’ mutato neanche a seguito dell’abrogazione
dell’art. 4-bis della citata legge n. 321 del 1991 (in virtu’ del
quale «I magistrati trasferiti d’ufficio a norma della presente legge
[…] non possono essere trasferiti a domanda prima di tre anni dal
giorno in cui hanno assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo
che ricorrano specifici e gravi motivi di salute») ad opera del comma
2 dell’art. 1 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143 (Interventi
urgenti in materia di funzionalita’ del sistema giudiziario),
convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181.
Cio’ in quanto a detta abrogazione non si e’ accompagnata una
parallela riscrittura dell’art. 194, capace di renderlo compatibile
anche con la fattispecie del trasferimento d’ufficio, intendendosi
come tale «ogni tramutamento della sede di servizio per il quale non
sia stata proposta domanda dal magistrato, ancorche’ egli abbia
manifestato il consenso o la disponibilita’, e che determini lo
spostamento in una delle sedi disagiate […]» (art. 1 della legge n.
133 del 1998, quale sostituito dall’art. 1, lettera b, del d.l. n.
143 del 2008).
3.3. – In questo contesto di norme, va rilevato che, da parte del
rimettente, non risulta esperito il doveroso tentativo di
sperimentare la possibilita’ di dare alla norma censurata un
significato costituzionalmente conforme, tale da renderla compatibile
con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012).
Al riguardo occorre, in primo luogo, ribadire che le leggi
interpretative «vanno definite tali in relazione al loro contenuto
normativo, nel senso che la loro natura va desunta da un rapporto fra
norme – e non fra disposizioni – tale che il sopravvenire della norma
interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e
l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo
unitario» (sentenza n. 424 del 1993). In particolare, la norma
interpretativa, isolando uno dei possibili significati gia’ presenti
nella disposizione interpretata ed escludendone gli altri (che
avrebbero snaturato la sua essenza), non ne modifica il testo.
In secondo luogo, di conseguenza, va posto in rilievo che non
risulta esplicitata ne’ congruamente motivata (in relazione
all’indicato dato letterale della norma che si autoqualifica
interpretativa) l’idoneita’ della stessa ad espungere la locuzione
«ad una sede da lui chiesta», contenuta nella disposizione
interpretata. Motivazione tanto piu’ necessaria in quanto, in difetto
di un diritto vivente in senso contrario (e non essendo decisivo il
richiamo ad una diversa ratio legis che non sia ancorata ad idonei
termini formali), solo l’esplicita elisione del richiamo ai
trasferimenti a domanda potrebbe connotare diversamente la portata
della suddetta disposizione interpretata, in modo da cambiarne
radicalmente l’ambito di operativita’ – estendendone l’applicazione a
sedi a loro tempo assegnate d’ufficio – ed attribuirle un significato
non desumibile (per stessa affermazione del rimettente) dal suo
tenore letterale.
3.4.- Pertanto, la mancata esplorazione di diverse soluzioni
ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalita’
ipotizzato (che ridonda anche in termini di insufficiente motivazione
in ordine alla rilevanza della questione: ordinanze n. 198 del 2013 e
n. 240 del 2012) rende inammissibili, sotto tutti i profili, le
sollevate questioni.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimita’
costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio
2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di
sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 4 aprile 2012, n. 35, sollevate – in riferimento agli artt. 3,
102 e 111, primo comma, della Costituzione – dal Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.

Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 2013.

F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2013.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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