T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 19-07-2011, n. 6442 Espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I. La società ricorrente è proprietaria di un’area di mq 293,940, sita in Roma (nei pressi di Via della Bufalotta n.663), distinta in Catasto al foglio 137, allegato 594, particelle 33/p, 36, 1342/p, 1345/p, 448, 449, 450, 451.

Il precedente PRG del 1965, approvato con DPR 16.12.1965, aveva attribuito all’area, in parte la destinazione G4 ("case con orto e giardino"), in parte la destinazione H2 ("costruzioni necessarie per la conduzione agricola"), in parte la destinazione M1 ("servizi generali pubblici o gestiti da enti pubblici") ed in parte la destinazione a "verde pubblico".

Con l’adozione del nuovo PRG, il Comune di Roma ha ricompreso parte dell’area nel c.d. "Ambito di Trasformazione Ordinaria" (ATO), con destinazione prevalentemente residenziale ("R29"); ed altra parte nel c.d. "Piano Integrato n.2", attribuendole destinazione in parte a "Verde pubblico" e per il resto a "Servizi pubblici di livello urbano".

Avverso tali determinazioni la ricorrente ha tempestivamente proposto osservazioni.

In pendenza del procedimento volto all’approvazione del nuovo PRG, con istanza del 26.5.2005 la ricorrente ha chiesto al Comune di Roma di applicare nell’area soggetta a destinazione "R29" (ricadente, come visto, nell’Ambito di Trasformazione Ordinaria) l’istituto della "compensazione" di cui all’art.3, punto 21, delle N.T.A. del "Piano delle Certezze".

Con Delibera n.33 del 19/20.3.2003 il Consiglio Comunale di Roma ha adottato il nuovo PRG.

Con il ricorso in esame la ricorrente la ha impugnata, e ne chiede l’annullamento per le conseguenti statuizioni di condanna.

Con deliberazione di CC n.64 del 2122.3.2006 il Comune ha formulato le controdeduzioni alle osservazioni al PRG.

Successivamente, a seguito dell’invio alla Regione Lazio della deliberazione (n.33/2003) di adozione del PRG, il Sindaco di Roma – previa intesa con il Presidente della Regione – ha convocato, ai sensi dell’art.66 bis, comma 2, della L. reg. n.38 del 1999, la c.d. "Conferenza di Copianificazione" (tra i Dirigenti delle strutture tecniche competenti del Comune di Roma, della Regione Lazio e della Provincia di Roma), al fine di verificare la possibilità di concludere l’Accordo di Pianificazione.

A conclusione dei lavori, la predetta Conferenza di Copianificazione ha adottato, nella seduta del 4/5.2.2008, uno schema di Accordo di Pianificazione.

In data 6.2.2008, il Presidente della Regione Lazio ed il Sindaco di Roma, sentito il Presidente della Provincia, hanno sottoscritto – ai sensi del citato art.66 bis, comma 6, della L. reg. n.38 del 1999 – l’Accordo di Pianificazione che ha recepito lo schema di accordo sopra richiamato.

L’Accordo di Pianificazione – con cui è stato contestualmente approvato il nuovo PRG – è stato ratificato dalla Regione Lazio con deliberazione di GR n.80 dell’8.2.2008, e dal Comune di Roma con deliberazione di CC n.18 del 12.2.2008,.

Con avviso pubblicato nel B.U.R.L. n.10 del 14.3.2008, il Comune di Roma ha comunicato che il nuovo PRG è stato approvato con la delibera di CC n.18/2008.

Secondo la tesi della ricorrente, il PRG così approvato risulta "radicalmente diverso, soprattutto nelle Norme tecniche di attuazione (N.T.A.), da quello adottato nel 2003", e la pregiudica in quanto il c.d. "Ambito di Trasformazione Ordinaria" con destinazione residenziale (R29) è stato eliminato, mentre la parte di sua proprietà che vi ricadeva è stata destinata a c.d. "Verde privato della città consolidata", il che precluderebbe – a suo avviso – qualsiasi facoltà edificatoria.

La ricorrente lamenta che, posto che l’altra parte di area di sua proprietà era stata ricompresa nel c.d. "Piano Integrato n.2" – con destinazione in parte a "Verde pubblico" e per il resto a "Servizi pubblici di livello urbano" – tutta la sua proprietà è risultata, infine, inedificabile.

Con ricorso per motivi aggiunti l’interessata ha pertanto impugnato gli atti, meglio indicati in epigrafe, che hanno condotto alla definitiva approvazione del nuovo P.R.G.

Ritualmente costituitasi, l’Amministrazione comunale ha eccepito l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del ricorso chiedendone il rigetto con vittoria di spese.

All’udienza del 21.4.2011, uditi i Difensori delle parti, la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è solamente in parte fondato; e va accolto nei sensi e nei limiti di seguito indicati.

1.1. La domanda volta ad ottenere l’annullamento delle delibere impugnate, nelle parti in cui hanno reiterato "vincoli di zona" comportanti l’inedificabilità assoluta (o lo svuotamento del diritto di proprietà), introdotti ed imposti fin dal P.R.G del 1965 (e via via reiterati, da oltre quarant’anni), è fondata (nei limiti e nei sensi che si passa ad esporre); e per essa il ricorso merita parziale accoglimento.

Con il primo mezzo di gravame, la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.2 della L.n.1187 del 1968, nonché eccesso di potere per difetto di motivazione, e contrasto con i principii enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.179 del 1999, deducendo che l’Amministrazione:

– ha reiterato, per una porzione di terreno, la destinazione a "verde pubblico" già introdotta dal PRG del 1965 e mai mutata; destinazione, questa, foriera di condizionamenti e vincoli che comportano, in buona sostanza ed in concreto, la inedificabilità assoluta del terreno, e comunque la impossibilità di trarne qualsiasi utilità economica;

– e così agendo ha svuotato di ogni effettivo contenuto, in mancanza di qualsiasi procedimento espropriativo e di giusto indennizzo, il suo diritto di proprietà.

La doglianza merita condivisione.

Con le delibere impugnate (e, nella specie, con quelle strumentali e/o relative all’approvazione del Nuovo PRG) l’Amministrazione ha reiterato – ancora una volta – la destinazione a "verde pubblico" di una porzione dell’area di proprietà della società ricorrente; destinazione che era stata già impressa dal PRG del 1965 e mai mutata da oltre quarant’anni, non ostante la mancata realizzazione di qualsiasi opera pubblica atta a dare concretezza al progetto urbanistico pubblicistico.

Ora, ben vero è:

– che la giurisprudenza amministrativa afferma che l’operazione di "zonizzazione" non può essere considerata in sé e per sé alla stregua di una vera e propria azione ablatoria; e ciò in quanto la possibilità che il diritto di proprietà subisca limitazioni, in ragione dell’interesse pubblico (ed al fine di conformarlo alla funzione sociale che è chiamato a svolgere), costituisce un rischio fisiologico ben prevedibile e intrinsecamente connesso al regime costituzionale che connota l’istituto in questione (C.S., IV^, 10.8.2004 n.5490; TAR Abruzzo – Pescara, 28.8.2006 n.445; TAR Puglia Lecce, I^, 2.12.2004 n.8394);

– e che pertanto le cc.dd. limitazioni legali derivanti dalla "zonizzazione" non sono indennizzabili e men che mai risarcibili.

Ma è altrettanto vero:

– che nell’esercizio del potere di "conformare" il diritto di proprietà all’interesse pubblico mediante l’introduzione di limitazioni legali atte a comprimere, senza indennizzo, facoltà inerenti al suo esercizio, l’Amministrazione non può giungere fino a "svuotarlo" di ogni contenuto e valore patrimoniale (Corte Cost. n.55/1968);

– che l’introduzione di vincoli che impediscano di utilizzare un bene oggetto di proprietà privata per fini personali privati e di sfruttarlo per fini produttivi, costituisce (e va considerato alla stregua di) un limite che ne svuota oltre misura il suo contenuto tipico; e che pertanto si concreta in una sostanziale (quanto illegittima) espropriazione;

– che secondo l’art. 42 della Costituzione, l’espropriazione del diritto di proprietà (o il suo concreto svuotamento) non può avvenire in mancanza di un legittimo procedimento volto a determinare il formale trasferimento del bene; e/o in mancanza della liquidazione e corresponsione di un giusto indennizzo all’espropriato;

– che, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la reiterazione del vincolo, ormai scaduto, preordinato all’espropriazione, è tendenzialmente illegittima "in quanto va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio" (C.S., Ad. Pl., 24.5.2007 n.7; Corte Cost. n.179/1999; Id. nn.55/1968, 92/1982 e 575/1989);

– che, come ancora affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, "il provvedimento con cui il Comune dispone la reiterazione dei vincoli urbanistici preordinati all’espropriazione decaduti… necessita della previsione generica di indennizzo" (C.S., Ad. Pl. 22.12.1999 n.24);

– che, secondo un principio giurisprudenziale ormai pacifico, "dopo la scadenza del termine quinquennale di durata dei vincoli di inedificabilità previsti da un piano regolatore generale, alle aree rimaste prive di destinazione si applica la disciplina dettata dalla legge per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (art.4, ultimo comma, della L. 28.1.1977 n.10)" (CS AD.PL. n.7/1984; inoltre: CS, 3.3.2003 n.1172; TAR Lazio, I^, 17.4.2003 n.3533);

– e che l’art.9 del TU sull’espropriazione ( DPR 8.6.2001 n.327) ha ormai espressamente stabilito, recependo il pacifico orientamento della giurisprudenza sopra evidenziato, che "se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall’art.9 del testo unico in materia edilizia approvato con D.P.R. 6.6.2001 n.380".

Sicchè, per conciliare l’affermazione di principio secondo cui la zonizzazione non costituisce, almeno di regola, un’azione realmente ablatoria (come tale indennizzabile), ma una manifestazione del potere di conformare il diritto di proprietà all’interesse pubblico rendendolo compatibile con la funzione sociale che è chiamato a svolgere, con le ulteriori – ed apparentemente contrastanti – affermazioni in ultimo riportate, secondo le quali il diritto di proprietà non può essere svuotato di ogni contenuto economico né comunque espropriato "di fatto", senza un giusto procedimento e senza indennizzo (e secondo cui la mera reiterazione di un vincolo decaduto preordinato all’espropriazione, o comunque comportante l’inedificabilità assoluta, si connota come attività amministrativa illegittima), occorre chiarire ed affermare che la "zonizzazione" va considerata effettivamente tale (e dunque legittima ancorché produttiva di effetti riduttivi della potenzialità edificatoria), solamente se e nella misura in cui:

– non si risolva, in concreto, in una forma occulta ed indiretta di illegittima espropriazione de facto;

– non si concreti – cioè – in un espediente surrettiziamente volto a svuotare del tutto, sine die e senza indennizzo, il contenuto del diritto di proprietà.

Ciò che certamente accade nel caso in cui, mediante l’operazione di zonizzazione, l’Amministrazione:

– imprima ad un’area la destinazione di "verde pubblico" senza procedere – nel corso del periodo di efficacia dello strumento urbanistico – all’adozione degli atti consequenziali e prodromici alla realizzazione delle strutture e delle attrezzature necessarie per rendere l’area localizzata effettivamente "pubblica" (id est, se le parole hanno un oggettivo senso comune: demaniale o di proprietà pubblica), realmente "verde" e concretamente "fruibile dal pubblico" (e cioè sufficientemente dotata di servizi che la rendano utilizzabile e godibile in situazione di sicurezza);

– e pretenda, poi – dopo aver infruttuosamente lasciato decorrere (decadere) i termini per l’attuazione (rectius: il periodo di efficacia) dello strumento urbanistico – di reiterare inopinatamente la predetta destinazione (a verde pubblico) e con esse i vincoli che ne derivano, senza contestualmente adottare alcun atto che possa assicurare l’effettiva attuazione delle reiterate disposizioni pianificatorie.

E’ agevole osservare, infatti, che in ipotesi di tal genere l’intervento dell’Amministrazione si risolve nell’apposizione di un "vincolo" che finisce per sottrarre al privato, sine die, ogni possibilità sia di utilizzare il bene per qualsiasi scopo produttivo (anche soltanto tendenzialmente incompatibile con l’ipotetico uso pubblico che l’Amministrazione prima o poi decidesse di farne), sia di trarne utilità anche a scopo di godimento personale sfruttando il seppur basso indice di edificabilità previsto per le zone agricole (indice che nel caso di zonizzazione a verde pubblico risulta, infatti, inoperante).

D’altro canto appare evidente che la destinazione di un’area a "verde pubblico" implica – diversamente da quanto potrebbe accadere nell’ipotesi di destinazione "a verde privato" – che essa debba (lo si sottolinea: necessariamente) essere espropriata per realizzare le strutture pubbliche che la rendano puntualmente conforme alla zonizzazione prevista (id est: alla funzione pubblicistica impressale).

Sicchè, delle due l’una:

– o alla predetta zonizzazione imprimente destinazione a "verde pubblico" segue, coerentemente, l’avvio (s’intenda: entro il periodo di efficacia dello strumento urbanistico che ha impresso la destinazione all’area) del correlativo procedimento di espropriazione;

– ovvero, in assenza di ciò, la reiterazione del "vincolo di destinazione" in costanza di ulteriore inerzia in ordine agli atti consequenziali, si configura come patologica cristallizzazione di un vincolo di inedificabilità assoluta (solo virtualmente e dunque surrettiziamente preordinato all’espropriazione), che tende perciostesso a connotarsi come illegittima espropriazione di fatto.

Diversamente opinando, del resto, tutta la giurisprudenza volta a stigmatizzare come illegittimi i provvedimenti di mera reiterazione di vincoli scaduti preordinati all’espropriazione – giurisprudenza volta ad evitare che il potere ablatorio del diritto di proprietà venga esercitato illegittimamente – si ridurrebbe ad un impercettibile "flatus voci".

I principii affermati da tale giurisprudenza potrebbero, infatti, agevolmente venire elusi dall’Amministrazione, la quale – per evitare di assoggettarsi ai termini perentori ed alle regole certe del procedimento espropriativo – ben potrebbe, facendo uso distorto del suo potere di "zonizzazione" (e, in ultima analisi, del potere di conformazione del diritto di proprietà), imprimere a vaste aree la destinazione di "verde pubblico" al solo fine di riservarsene – come fosse titolare di una sorta di inedito "diritto di opzione" (autoritativamente ed unilateralmente costituito) – la futura ed eventuale acquisizione, svuotandole nel frattempo – e, ciò che è peggio, sine die e senza ristoro per il proprietario – di ogni capacità edificatoria e di ogni valore economico (e precostituendosi, per di più, l’ulteriore vantaggio della eventualità di un successivo esproprio "a buon mercato").

E poiché non è seriamente sostenibile che l’azione pubblica volta a comprimere il diritto di proprietà fino al suo sostanziale svuotamento, sia da considerare illegittima se effettuata mediante un uso distorto del potere espropriativo, ma non parimenti illegittima se effettuata mediante un uso parimenti distorto del potere pianificatorio – risolvendosi tale argomentazione in un evidente sofisma – occorre affermare con chiarezza che la "zonizzazione a verde pubblico":

– non può essere utilizzata per "costringere" il privato proprietario, senza alcun indennizzo, ad asservire il suo terreno ad un regime totalmente pubblicistico (o a comportarsi come se fosse una Pubblica Amministrazione);

– né per qualificare come "giardini pubblici attrezzati", aree che in realtà – in assenza di un’azione volta alla effettiva realizzazione dei necessari lavori pubblici – sono destinate all’inutilizzazione e, in ultima analisi, all’abbandono.

E del resto non sono mancate pronunce nelle quali il problema è stato avvertito, pur se non affrontato direttamente, né a fondo.

Di fronte ad operazioni "avvertite" come indirettamente ablatorie o eccessivamente conformative, ed all’evidente scopo di frenare i relativi abusi, il Consiglio di Stato ha infatti sentito l’esigenza di affermare, pur se timidamente:

– che in caso di destinazione a verde pubblico, al privato proprietario assoggettato al relativo vincolo deve comunque essere "consentita, anche a sua iniziativa, la realizzazione di opere e strutture intese all’effettivo godimento del verde; circostanza (…) che esclude la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo, comunque, la utilizzabilità dell’area rispetto alla sua destinazione naturale". Affermazione, questa, che – evidentemente – apre un nuovo dibattito in ordine alle modalità mediante le quali un’area destinata a "verde pubblico" possa effettivamente continuare ad offrire al proprietario il godimento esclusivo di facoltà (se non di tutte almeno di alcune) inerenti al suo diritto (e cioè in ordine al contenuto sostanziale che l’espressione "verde pubblico" deve assumere nel corrente linguaggio del diritto urbanistico per evitarne un uso improprio);

– e che "la facoltà di regolare l’uso di un bene di interesse storico ed artistico, attribuita al ministro per i beni culturali dall’art. 11 ss. 1 giugno 1939 n. 1089, se da un lato può legittimamente estrinsecarsi in limitazioni al godimento dei beni tutelati da parte dei proprietari, dall’altro non può giustificare l’imposizione di una destinazione pubblica ai beni stessi, che si risolva nello svuotamento integrale del contenuto del diritto di proprietà e concreti una fattispecie sostanzialmente espropriativa" (C.S., V^, 14.5.1986 n.255). Affermazione, questa, che, seppur riferita ad un diverso caso di "ablazione conformativa", ben si attaglia – analogicamente – al caso dedotto in giudizio, in quanto evidenzia il disagio del Supremo Giudice Amministrativo di fronte a provvedimenti amministrativi atti (o volti) ad assoggettare la "proprietà privata" al medesimo regime che disciplina quella "pubblica"; o – ciò che esprime lo stesso concetto – la preoccupazione della giurisprudenza di fronte alla intrinseca contraddittorietà (e tendenziale abnormità) di provvedimenti volti ad attrarre totalmente il privato proprietario e la "sua" proprietà nella sfera, e nell’ottica, del diritto pubblico, svuotandola in tal modo dei contenuti tipici che la connotano, tradizionalmente, "secundum nostrae civitatis jura".

In altri termini:

– se appare difficilmente comprensibile il fenomeno giuridico per cui una "proprietà privata" – pur restando formalmente tale – possa essere qualificata "verde pubblico" (e regolata come se lo fosse);

– ancor più incomprensibile appare il fenomeno giuridico per cui tale qualificazione costituisca obblighi esclusivamente a carico del privato, ma non anche della PA (ovvero: obblighi – e nessun diritto – per il privato; e diritti o poteri – ma nessun onere o dovere – per l’Amministrazione).

Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio, l’Amministrazione ha impresso alla porzione di terreno di cui trattasi – di proprietà della società ricorrente – già una prima volta, nel lontano 1965, la destinazione di "zona a verde pubblico".

Non ha però adottato, nei successivi quarant’anni, alcun conseguente atto o provvedimento volto a concretizzare (rectius: ad attuare) la pianificazione di zona illo tempore formulata.

La zona è dunque rimasta "verde", ma quest’ultimo non è mai divenuto "pubblico" (id est: di proprietà pubblica), né comunque è stato attratto al regime pubblicistico (e dunque dotato di servizi a disposizione del pubblico, organizzati e finanziati dalla PA).

Il terreno è rimasto, cioè, formalmente "privato", ma – ciò che è paradossale – inutilizzabile dal privato finanche in conformità alla sua virtuale destinazione.

In altri termini, la ricorrente si è vista bloccare – lo si sottolinea nuovamente: per ben otto lustri – ogni concreta possibilità non soltanto di sfruttare anche al minimo (e cioè entro il limite dello 0,003 mc x mq) la potenzialità edificatoria del terreno, ma (in mancanza di un qualsiasi strumento attuativo) anche di sfruttarne le potenzialità più specificamente connesse alla destinazione (pubblicistica) formalmente (e purtroppo soltanto virtualmente) ad esso impressa.

Infine, nel 2008, con la delibera di approvazione del Nuovo PRG, l’Amministrazione ha puramente e semplicemente reiterato la destinazione della porzione della zona in questione (a verde pubblico), e ciò:

– senza motivare in ordine alle ragioni che hanno impedito l’adozione dei provvedimenti e l’avvio dei lavori necessari per rendere effettivamente pubblica o comunque effettivamente fruibile al pubblico l’area assoggettata al vincolo di destinazione;

– senza aver contestualmente adottato alcun atto volto ad evitare che la situazione si riproponga;

– e senza neanche aver previsto alcun indennizzo finalizzato a ristorare la ricorrente per la sostanziale espoliazione che ha subito e che, ad avviso della PA, dovrebbe continuare a subire.

E non appare revocabile in dubbio che ciò sia ingiusto, oltrecchè certamente illegittimo.

Nella parte che dispone tale reiterazione, la predetta delibera va pertanto annullata, con la conseguenza che l’area in questione deve ritenersi, come affermato costantemente dalla giurisprudenza in precedenti analoghi (CS Ad.Pl. n.7/1984; CS, 3.3.2003 n.1172; TAR Lazio, I^, 17.4.2003 n.3533), in atto assoggettata alla "disciplina dettata dalla legge per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (art.4, ultimo comma, della L. 28.1.1977 n.10)"; e ferma restando l’efficacia dei vincoli (a tutela del paesaggio e/o dell’ambiente) non direttamente derivanti dallo strumento urbanistico e dalla zonizzazione con esso effettuata.

Analoghe osservazioni non valgono, invece, per la zona destinata a c.d. "verde privato", che ai sensi degli artt. 86 ed 87 delle NTA mantiene determinate capacità edificatorie e potenzialità di sfruttamento a fini economici.

1.2. Con il quarto mezzo di cui al ricorso per motivi aggiunti – che può essere trattato con precedenza in considerazione del suo carattere parzialmente assorbente (in quanto il suo accoglimento renderebbe inutile la trattazione di una serie di altri motivi) – la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 9 e 10 della L. n.1150 del 1942 e dell’art.66 bis della L.R. n.38 del 1999, degli artt.23, 41, 42, 117 e 119 della Costituzione, degli artt. 39 e seguenti del Trattato CE, dell’art.3 della L. 212 del 2000, dell’art.16 del TU dell’edilizia (DPR n.380/2001), ed eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, deducendo:

– che la possibilità di edificare, nelle aree per cui è causa, è subordinata al versamento del c.d. "contributo straordinario di urbanizzazione" (previsto dall’art.20 delle NTA); e che la richiesta di tale contributo si risolve in una "prestazione imposta", introdotta nell’Ordinamento in mancanza di un’apposita legge, in sostanziale violazione della riserva di legge stabilita dall’art.23 della Costituzione;

– che, in ogni caso, la possibilità di richiedere tale contributo straordinario, introdotto dalle NTA, non era prevista nel PRG.

La doglianza è fondata sotto il primo profilo, e (anche) per essa il ricorso merita parziale accoglimento.

Il Collegio concorda con l’orientamento giurisprudenziale (Cfr. TAR Lazio, II^ bis, 17.2.2010 n.2386) secondo cui il contributo straordinario introdotto dalle NTU, non ha natura di imposta, non essendo un tipico "tributo".

E ciò non ostante la stessa Amministrazione abbia qualificato – al 4° comma dell’art.20 – la relativa azione acquisitiva alla stregua di un vero e proprio "intervento tributario".

Se lo fosse, il contributo in questione dovrebbe – invero – poter essere riscosso autoritativamente ed indipendentemente dalla fruizione di un servizio.

Cionondimeno, esso ha certamente natura di "controprestazione imposta".

Il contributo straordinario in questione si concreta, infatti, in una prestazione imposta (unilateralmente) al privatoproprietario di un’area, in occasione (rectius: a causa) del rilascio di una concessione (rectius: di un permesso di costruire), per consentire all’Amministrazione di affrontare i costi relativi ad attività edificatorie – atte a migliorare la fruibilità del tessuto territoriale connesso – che quest’ultima conduce nell’esercizio dei suoi poteri di regolamentazione urbanistica.

In tal senso esso è in qualche modo assimilabile ad una sorta di "tassa", intendendosi con tale termine tecnico (nella teoria classica della scienza delle finanze) il contributo obbligatorio richiesto dalla PA al cittadino che fruisce di un servizio settoriale (o che si avvantaggia di strutture pubbliche determinanti vantaggi settoriali o "speciali")

Risolvendosi – dunque – in una "prestazione imposta", l’introduzione del contributo in questione è comunque assoggettata alla disciplina prescritta dall’art.23 della Costituzione che introduce, al riguardo, una "riserva di legge".

Ai sensi della predetta norma costituzionale nessuna prestazione può essere imposta se non in base ad una legge che definisca i termini sostanziali ed i limiti del potere impositivo.

Il che significa che nessuna prestazione imponibile – poco importa che si tratti di vero e proprio "tributo", o di un "tassa", o anche di una semplice controprestazione di natura pubblicistica (id est: se trattasi, come nel caso di specie, del corrispettivo liquidato autoritativamente dalla PA per un’attività che la stessa svolge a favore dell’obbligato) – può essere disciplinata esclusivamente da uno o più atti amministrativi, pur se di natura (o di rango) regolamentare.

E poiché nel caso dedotto in giudizio, la prestazione per cui è causa non è stata istituita da alcuna norma di legge, la norma pianificatoria (regolamentare) impugnata non resiste alla censura.

Né potrebbe sostenersi che il potere regolamentare necessario per introdurre la prestazione in questione, si fonda sugli artt.28 della LU e 16 del TU Edilizia.

Il contributo straordinario introdotto dalle NTA è, infatti, un contributo "aggiuntivo"; che, proprio in quanto tale, deborda dai limiti stabiliti dalla legislazione vigente in materia di oneri di urbanizzazione.

Trattasi, dunque, di un "ulteriore" onere di urbanizzazione.

Perciostesso:

– concettualmente nuovo e dunque diverso da quello già esistente;

– non disciplinato da alcuna legge ed introdotto non ostante non fosse previsto da alcuna legge;

– gravante oltre i limiti fissati dalla legislazione vigente in materia e dunque in sostanziale deroga alla stessa.

Ragioni, queste, per le quali l’art.20 delle NTA, che lo ha introdotto e disciplinato nel modo sopra descritto, va annullato.

1.3. Con il primo motivo aggiunto la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt.9 e 10 della L. n.1150 del 1942 e degli artt.7 e s della L. n.241 del 1990, deducendo:

– che in sede di approvazione (in regime di c.c. "copianificazione" ex art.66 bis della L. reg. n.38 del 1999), il PRG precedentemente adottato, è stato profondamente modificato (nel senso che sono state apportate significative e rilevanti modifiche alle classificazioni delle destinazioni d’uso, alle cc.dd. "compensazioni", alla disciplina delle "Aree naturali Protette", con introduzione dei cc.dd. "Parchi Agricoli", ed alla disciplina della c.d. "Rete Ecologica");

– e che "in tale situazione, ai sensi degli artt.9 e 10 L.U. sussisteva per il Comune l’obbligo di procedere alla ripubblicazione del piano, con conseguente riapertura dei termini per le osservazioni degli interessati…".

La doglianza è inammissibile per genericità e per carenza d’interesse.

In merito a tale questione, già sollevata in precedenti analoghi, con sentenza n.5818/2009 il Consiglio di Stato, Sez. IV^, ha affermato:

– che "da un esame comparativo delle NTA del PRG quali si presentavano a seguito delle controdeduzioni comunali alle osservazioni dei privati e quali risultanti dal lavoro della Conferenza, nonché dalla relazione tecnica predisposta da quest’ultima, emerge che sono rimaste manifestamente inalterate non solo tutte le scelte di fondo operate in sede di adozione, ma anche quelle relative alla destinazione generale dei suoli ed al rapporto quantitativo fra le varie zone individuate dal piano";

– e che "in sostanza, malgrado l’elevato numero delle modifiche apportate, le stesse hanno per lo più carattere formale, consistendo (…) in semplici "errata corrige", ovvero in riformulazioni di prescrizioni non mutate nella sostanza o in modifiche marginali intese a rendere coerenti le singole previsioni con altre norme tecniche, con quanto contro dedotto a eventuali osservazioni o anche solo con l’impianto generale del P.R.G.".

Ora, a fronte di tali rilievi operati dal supremo Giudice Amministrativo – che afferma che le linee essenziali del Piano già adottate sono rimaste inalterate (e che dunque entro tali limiti di tendenza il procedimento che ha condotto alla sua approvazione resiste alle critiche mosse) – la ricorrente avrebbe dovuto maggiormente impegnarsi nell’indicare quali sarebbero le specifiche disposizioni innovative – sulle quali non ha potuto asseritamente interloquire in sede procedimentale – che la hanno, in concreto, direttamente pregiudicata.

E poiché dal ricorso ciò non emerge, non appare sufficientemente dimostrata la sussistenza di un concreto e personale interesse a sostenere la domanda; interesse che costituisce una fondamentale (imprescindibile) condizione dell’azione.

Dal che l’inammissibilità della censura.

1.4. Con il secondo motivo aggiunto la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.66 bis della L. Reg. Lazio n.38 del 1999 e dell’art.10 della L. n.1150 del 1942, deducendo:

– che "il piano approvato all’esito della Conferenza di Copianificazione ex art.66 bis L.R. 38/1999 differisce sostanzialmente da quello adottato e contro dedotto, configurandosi come un nuovo strumento rispetto alle precedenti versioni";

– che "appare evidente che le modifiche approvate in sede di Conferenza di Copianificazione, superano ampiamente i limiti fissati dall’art.10 co 2 LU richiamato dall’art.66 bis, co 2, nonché dal comma terzo di quest’ultimo articolo";

– e che "ne consegue che le Amministrazioni partecipanti alla Conferenza di Copianificazione avrebbero dovuto restituire il piano al Comune per la sua formale riadozione, non potendo inserire d’ufficio norme modificative…".

La doglianza è inammissibile per la medesima ragione per la quale lo è quella precedente.

Ed invero, a fronte della già richiamata affermazione contenuta nella sentenza n.5818/2009 della IV^ Sezione del Consiglio di Stato, solamente una indicazione specifica e puntuale delle disposizioni innovative concretamente incidenti sulla posizione della ricorrente (ed una rigorosa dimostrazione delle ragioni fondanti il preteso pregiudizio a carico di quest’ultima), avrebbe consentito:

– di superare l’inammissibilità di una doglianza – per così dire – "sopracalibrata", in quanto inequivocabilmente volta ad ottenere la caducazione dell’intero Piano;

– ed a concentrare la direzione dell’esame e del connesso giudizio sulla possibilità di pervenire ad un eventuale annullamento in parte qua dello stesso.

1.5. Con il terzo mezzo di cui al ricorso per motivi aggiunti la ricorrente lamenta eccesso di potere per errore nei presupposti e contraddittorietà, deducendo:

– che "nell’iter di approvazione del nuovo PRG è stato eliminato l’Ambito di Trasformazione Ordinaria ATO R29, e la proprietà della ricorrente ivi compresa è stata trasformata in Verde privato della città consolidata";

– che ciò è avvenuto non ostante il Comune avesse "espressamente rigettato le osservazioni che chiedevano l’eliminazione dell’ATO 29";

– e che tale determinazione pregiudica gravemente la ricorrente.

La doglianza è parte inammissibile e per il resto infondata.

Inammissibile in quanto volta a censurare scelte di politica urbanistica che in sede di giudizio di legittimità si appalesano insindacabili.

D’altra parte la circostanza che il Comune avesse espressamente rigettato le osservazioni che chiedevano l’eliminazione dell’ATO 29 non precludeva allo stesso di ritornare, melius in re perpensa, sulla questione.

Per il resto la doglianza è infondata.

Nella ormai famosa sentenza n.55 del 1968, la Corte Costituzionale ha chiaramente affermato:

– che nell’esercizio del potere di "conformare" il diritto di proprietà all’interesse pubblico, l’Amministrazione può introdurre limitazioni legali atte a comprimere, senza indennizzo, facoltà inerenti al suo esercizio (purchè esso non risulti, alla fine, totalmente svuotato di ogni potenzialità di sfruttamento economico);

– e che l’operazione di "zonizzazione" determina una compressione del diritto di proprietà legittima e non indennizzabile.

Sulla scorta di tale orientamento del Giudice costituzionale, la Giurisprudenza amministrativa afferma costantemente:

– che l’operazione di "zonizzazione" non può essere considerata in sè e per sé alla stregua di una vera e propria azione ablatoria (atta, cioè, a neutralizzare o a comprimere una specifica posizione giuridica soggettiva consistente in un già acquisito vantaggio, producendo un danno al quale possa essere riconosciuta rilevanza giuridica);

– che la possibilità che il diritto di proprietà subisca limitazioni, in ragione dell’interesse pubblico (ed al fine di conformarlo alla funzione sociale che è chiamato a svolgere), costituisce un rischio fisiologico ben prevedibile e intrinsecamente connesso al regime costituzionale che connota l’istituto in questione (C.S., IV^, 10.8.2004 n.5490; TAR Lazio, II^, n.4122 del 14.5.2008).

Ora, quanto precedentemente osservato in ordine alla sostanziale inutilizzabilità dei terreni destinati a verde pubblico (almeno, secondo la disciplina ad essi impressa dall’art. 85 delle NTA), non può essere esteso anche ai terreni destinati a c.d. "Verde privato". La lettura degli artt.86, 87 e seguenti delle NTA (e la loro comparazione con l’art.85) consente di affermare che in capo ai proprietari degli stessi permangono una serie di facoltà (inerenti il diritto di proprietà) che ne consentono l’utilizzazione produttiva.

DIRITTO

1.6. Con il terzo motivo e con il terzo ed il quinto motivo aggiunto – che possono essere trattati congiuntamente in considerazione della loro connessione argomentativa – la ricorrente lamenta eccesso di potere per contraddittorietà, deducendo:

– che la possibilità di ricorrere al "meccanismo della compensazione" è stata – di fatto – ridotta e che ciò contrasta con l’obiettivo di alleggerire le conseguenze (in termini di in edificabilità) dell’irrigidimento (o inasprimento, in senso riduttivo della capacità edificatoria) degli standards urbanistici;

– che l’istituto della c.d. "cessione compensativa" è stato limitato alle sole aree che rientrano nei Programmi Integrati della c.d. Città da ristrutturare, e che ciò "ha avuto l’effetto di triplicare le aree a standard da acquisire tramite esproprio (…) minando la coerenza e sostenibilità economica delle previsioni del nuovo PRG e rendendolo quindi contraddittorio";

– e che illegittimamente l’art.22 delle NTA riserva l’istituto della "cessione compensativa" alle sole aree destinate a servizi pubblici e non anche a quelle destinate ad Agro Romano.

L’articolata doglianza è inammissibile e comunque infondata.

1.6.1. Nei termini in cui è prospettata, essa è volta a sindacare il merito di scelte di politica urbanistica devolute al Consiglio Comunale.

Al riguardo la giurisprudenza (della stessa Sezione) si è già espressa (Cfr., TAR Lazio, II^, 14.5.2008 n.4122), affermando:

– che "la determinazione dell’Amministrazione di concedere la c.d. "compensazione edilizia" esclusivamente ai proprietari di aree ricadenti in determinate zone, "costituisce una scelta di politica territoriale che, non essendo intrinsecamente illogica o contraddittoria, non appare sindacabile";

– che "invero l’Amministrazione non era in alcun modo obbligata a concedere la compensazione edilizia a tutti i soggetti che avessero subìto una riduzione della potenzialità edificatoria dei propri terreni…";

– che "avendo, nondimeno – e per insindacabili scelte di opportunità politica – deciso di introdurre il predetto istituto, l’Amministrazione si è in concreto determinata nel senso di non estendere incondizionatamente la menzionata compensazione edilizia a tutti i soggetti che in qualsiasi modo fossero stati "incisi" da riduzioni di indici di edificabilità derivanti dalla nuova zonizzazione, ma di accordarla esclusivamente ai proprietari dei terreni situati nelle zone che nel precedente Piano avevano una vocazione (rectius: destinazione) spiccatamente o prettamente edificatoria (…); mentre di non accordarla ai proprietari di terreni che, a cagione della precedente zonizzazione e dei vincoli da essa derivanti, ovvero a cagione di altri vincoli, vantavano già una potenzialità edificatoria a scopo abitativo meramente marginale o addirittura del tutto eventuale (come nel caso di terreni situati in zone a vocazione agricola, o gravati da vincoli di in edificabilità assoluta o relativa per ragioni di tutela paesaggistica, ambientale o simili";

– e che "poiché una decisione di tal genere non appare intrinsecamente illogica o contraddittoria, né mirata a creare disparità di trattamento fra soggetti in posizione eguale, essa ben resiste alla censura".

1.6.2. D’altro canto la posizione della ricorrente rispetto a scelte di tal genere è quella di c.d. aspettativa di mero fatto, non sussistendo:

– alcuna norma di legge che stabilisca con precisione quale debba essere la esatta percentuale di terreno (destinando ad opere pubbliche o a servizi pubblici) da acquisire mediante cessione compensativa e quale quella da acquisire mediante espropriazione; o il preciso meccanismo per determinare tale riparto;

– né, comunque, alcuna norma di legge su cui costruire un qualche diritto soggettivo o interesse legittimo all’adozione di un PRG che consenta una maggiore edificabilità, o che estenda la possibilità di ricorrere alla c.d. cessione compensativa in luogo dell’espropriazione.

1.7. Con il secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta eccesso di potere per errore nei presupposti, travisamento dei fatti, erronea valutazione e violazione del DM n.1444 del 1969, deducendo:

– che il Nuovo PRG "basa i calcoli degli standards e quindi il dimensionamento della aree da destinare a verde e servizi su una popolazione ben superiore a quella effettiva, nonostante la popolazione di Roma stia ormai decrescendo da oltre trent’anni";

– e che tale determinazione appare immotivata.

La doglianza è divenuta improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse a coltivarla; ed è comunque infondata.

1.7.1. E’ improcedibile in quanto il parziale accoglimento della domanda giudiziale (nella specie, delle doglianza relativae alla reiterazione dei vincoli derivanti dalla zonizzazione a verde pubblico e alla introduzione del contributo), rende parzialmente edificabili le arre della ricorrente (come statuito al penultimo capoverso del capo 1.1.), facendo venir meno l’interesse alla coltivazione di una censura che mira a conseguire la caducazione dell’intero PRG.

1.7.2. La doglianza è comunque inammissibile in quanto volta a sindacare il merito di scelte di politica urbanistica devolute al Consiglio Comunale e/o alla Giunta Municipale. Non appare revocabile in dubbio, infatti, che l’estensione delle aree da destinare a verde e l’assegnazione ad ogni cittadino di spazi di verde superiori (e di standards di vivibilità più gratificanti) rispetto a quelli previsti dal DM n.1444 del 1969, costituisce una scelta che connota politicamente il Piano e che pertanto non può essere sindacata in sede di giurisdizione di legittimità.

2. In considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso va accolto in parte, con conseguente annullamento della delibera n.33 del 19/20.3.2003 con cui il Consiglio Comunale del Comune di Roma ha adottato il Nuovo PRG, dell’Accordo di Pianificazione sottoscritto in data 6.2.2008 dal Sindaco del Comune di Roma e dal Presidente della Regione Lazio, della deliberazione della Giunta Regionale del Lazio n.80 dell’8.2.2008 (di ratifica dell’Accordo di Pianificazione), della deliberazione di C.C. n.18 del 12.2.2008 (di ratifica dell’Accordo di Pianificazione e approvazione del nuovo PRG e dei suoi Allegati) e dell’avviso di approvazione del nuovo PRG del Comune di Roma (pubblicato sul B.U.R.L. n.10 del 14.3.2008), nelle sole parti relative:

– alla "zonizzazione" (e dunque: "destinazione") a verde pubblico delle aree della società ricorrente (nella specie: esclusivamente di quelle aree che erano state già assoggettate alla predetta disciplina di zona dai precedenti strumenti urbanistici scaduti);

– ed alla introduzione del "contributo straordinario di urbanizzazione" (previsto dall’art.20 delle NTA).

Si ravvisano giuste ragioni per condannare le Amministrazioni intimate al pagamento delle spese processuali in favore della ricorrente; spese che si liquidano in complessivi Euro.6.000,00, oltre IVA e CPA (da pagare suddividendo l’onere in parti eguali).

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, accoglie in parte il ricorso, nei sensi e nei limiti indicati in motivazione.

Condanna le Amministrazioni intimate al pagamento delle spese processuali con le modalità e nella misura indicate nel capo 2 della motivazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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