Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 24-06-2011) 14-07-2011, n. 27651

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- All’esito di giudizio ordinario il Tribunale di Trieste con sentenza in data 8.5.2009 ha dichiarato T.F. colpevole del delitto di calunnia, condannandola alla pena di tre anni di reclusione ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile C.R.. Reato commesso dalla T. per avere, con atto di denuncia-querela presentato l’11.2.2004 presso il commissariato di polizia di Rozzol Melara (Trieste), falsamente accusato C.R., dimorante nel suo stesso condominio, di reati di molestia ( art. 660 c.p.) e di ingiuria, indicandolo come la persona che la sera dell'(OMISSIS) aveva ripetutamente battuto sulla porta d’ingresso del suo appartamento, graffiandola e imbrattandola con dello stereo, e -sorpreso dalla T. nell’allontanarsi dallo stabile condominiale- le aveva rivolto pesanti frasi ingiuriose.

Reati per entrambi i quali il C. ha subito due separati procedimenti penali, nei quali è stato assolto con ampie formule liberatorie: l’uno (Tribunale di Trieste) per la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., dalla quale è stato assolto per insussistenza del fatto; l’altro (Giudice di Pace di Trieste) per i reati di ingiuria, danneggiamento e imbrattamento di cose altrui, dai quali è stato assolto per non aver commesso i fatti.

Il Tribunale, evidenziata l’esistenza di una situazione di animosità per motivi condominiali tra la T. e il C. sfociata anche in altri procedimenti penali, ha ritenuto la calunniosità della denuncia dell’imputata sulla base delle circostanze emerse nel processo per molestie nei confronti del C. e segnatamente della validità del c.d. "alibi" da costui delineato e riscontrato da tre testimoni, in virtù del quale egli non avrebbe potuto trovarsi presso l’edificio condominiale teatro dei fatti denunciati dalla T. nell’orario in cui essi sarebbero avvenuti (ore 19,15 circa dell'(OMISSIS)). In quello stesso orario egli, speleologo dilettante, aveva ultimato l’ispezione di una grotta di recente scoperta nell’area carsica e si accingeva a recarsi, insieme ai tre amici con cui aveva ispezionato la grotta e che hanno asseverato l’episodio, ad una cena collettiva di festeggiamento senza passare per casa. Sicchè non avrebbe potuto commettere i fatti oggetto delle accuse rivoltegli dalla T..

Il Tribunale, in sintesi, ha ritenuto la responsabilità della T. in base agli esiti dell’istruttoria svolta nel procedimento per molestie contro il C., alla stregua della "incompatibilità logica" tra gli eventi denunciati dalla T. e le deposizioni dei tre testimoni a discarico del C., la cui credibilità (corroborata dalla annotazione sul registro dell’associazione amatoriale, di cui sono membri insieme al C., della avvenuta ispezione della grotta nel giorno dei fatti) renderebbe implausibile la verificazione dell’episodio denunciato, sì da potersi concludere che quest’ultimo "non sia mai avvenuto". A ciò aggiungendosi, nella ricostruzione del Tribunale che ha giudicato il C., la non piena attendibilità della stessa T., laddove sostiene di aver riconosciuto dal balcone del suo appartamento il C. uscire dallo stabile subito dopo aver danneggiato la sua porta di ingresso.

2.- Adita dall’impugnazione della T., la Corte di Appello di Trieste con la sentenza in data 18.11.2010, richiamata in epigrafe, ha confermato il giudizio di colpevolezza dell’appellante, condividendo al riguardo la ricostruzione storica e valutativa sviluppata dal giudice di primo grado, ma ha ritenuto la T. meritevole delle circostanze attenuanti generiche (negate in primo grado) e per l’effetto ha ridotto la pena inflittale ad un anno e otto mesi di reclusione.

Sul merito della regiudicanda i giudici di secondo grado hanno dedicato ampio spazio al vaglio della sostanziale impossibilità – data per ammessa e riscontrata dai testimoni la partecipazione di C. alla esplorazione della grotta – per il C. di fare ritorno a casa nell’orario in cui (ore 19.15 circa dell'(OMISSIS)) la T. assume essere avvenuti i fatti di molestia ed ingiuria a lui attribuiti nella denuncia presentata in commissariato. In tale ottica ha altresì rilevato l’incongruenza della tesi difensiva dell’appellante che, dopo aver denunciato la scarsa credibilità dei testimoni favorevoli al C. (suoi amici personali), segnalandone alcune discrasie narrative, ha finito per fare leva proprio su una di tali testimonianze, quella dell’escursionista D.P.F., l’unico che asserisce essere terminata la visita della grotta intorno alle ore 19.00. Circostanza considerata in definitiva dalla Corte di Appello del tutto inconferente, perchè le autovetture degli esploratori speleologi si trovavano non all’uscita dalla grotta, ma ad una discreta distanza da essa, sì da richiedere non meno di una ventina di minuti per raggiungerle. Con la conseguenza che giammai il C., ove mai fosse ripassato per casa prima di andare alla programmata cena con gli amici, avrebbe avuto la possibilità di trovarsi presso il condominio di (OMISSIS) nell’ora indicata dalla T..

3.- Contro la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell’imputata, formulando le seguenti quattro articolate censure per violazione o erronea applicazione dell’art. 368 c.p. e per insufficienza e manifesta illogicità della motivazione.

1. La Corte di Appello ha espresso un giudizio di responsabilità della T., sia escludendo che C. abbia potuto commettere i fatti attribuitigli dalla ricorrente, sia escludendo che costei possa essere stata in buona fede nel supporre che il C. sia stato l’autore dei fatti da lei denunciati. Ma così ragionando ha eluso ogni indagine sull’elemento soggettivo del reato di calunnia e delle sue componenti in termini di intenzionalità dell’incolpazione e di certa consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato. Soprattutto perchè al giudizio di colpevolezza la Corte territoriale e prima il Tribunale sono pervenuti in base alla acritica accettazione degli esiti del primo processo svoltosi nei confronti del C., quello davanti al Tribunale di Trieste per il reato di molestie, non compiendo alcun ulteriore approfondimento conoscitivo. Senza tacere che rimangono oscuri i motivi per cui nessun credito sia stato riconosciuto alla omologa sentenza liberatoria del giudice di pace di Trieste nel processo per ingiuria ed altro, concernente i fatti dell'(OMISSIS), nel quale – assolto il C. – il giudice ha ritenuto verosimile la possibilità di un errore di persona da parte della T.. Possibilità che la Corte di Appello non ammette, assumendo che la T. avrebbe riconosciuto (secondo la sua denuncia) anche la "voce" del C., evenienza mai riferita dall’imputata.

2. Il dato singolare che pervade entrambe le decisioni di merito, rendendo non logica la sentenza di appello impugnata, è costituito dall’evenienza che non vi è alcuna prova, nè la pubblica accusa si data cura di offrire dimostrazione del contrario, che i fatti denunciati dalla T. non siano mai accaduti, argomentandosi la presunta falsità di tali fatti dalla altrettanto presunta consapevolezza della falsità delle accuse rivolte in denuncia al C.. Sia il Tribunale che la decisione di appello annettono un non irrilevante peso al fatto che nel (OMISSIS) la stessa T. abbia presentato una analoga denuncia contro il C. per un episodio di molestie (danneggiamento della porta di ingresso del suo appartamento) pressochè identico a quello oggetto dell’odierno ricorso. Tratta a giudizio per rispondere di calunnia anche per tale ulteriore o seconda denuncia, la T. è stata assolta con la formula del fatto non costituente reato per ritenuto difetto del dolo del delitto di calunnia (sentenza del Tribunale di Trieste 20.10.2010, versata in atti), proprio perchè è stata riconosciuta piena dignità valutativa al possibile errore di persona della donna.

Conclusione che potrebbe e dovrebbe, simmetricamente, trasporsi anche nell’odierna vicenda per cui è ricorso.

3. Nel giudizio di appello sono stati violati i diritti di difesa dell’imputata, la Corte giuliana non avendo ritenuto di ammettere l’invocata parziale rinnovazione dell’istruttoria, ai sensi dell’art. 603 c.p.p., per procedere all’esame della testimone Ca. (una condomina dello stabile abitato dal C. e dalla T.), che avrebbe potuto riferire come all’epoca dei fatti ((OMISSIS)) il C. facesse uso di una vettura Peugeot nera, analoga a quella sulla quale la T. aveva visto il C. o chi per lui allontanarsi dallo stabile la sera dell'(OMISSIS).

4 La sentenza impugnata ha, infine, travisato i motivi di appello dell’imputata, individuandovi una contraddittorietà inesistente, dal momento che con l’impugnazione della sentenza di primo grado non si è sostenuto che fosse dimostrabile o dimostrato che C. avesse compiuto i reati, dai quali era stato separatamente assolto in via definitiva, ma piuttosto e soltanto che le prove raccolte in quei separati processi erano incongruenti e incomplete per escludere del tutto che C. avesse potuto commettere quei reati e non avrebbero potuto essere adottate come cardine del giudizio di colpevolezza della ricorrente.

4.- Il ricorso di T.F. è fondato, poichè i delineati motivi di censura, depurati da profili di rivalutazione controfattuale delle emergenze probatorie, non scrutinabili in sede di legittimità, colgono discrasie e illogicità della motivazione che impongono un nuovo meditato giudizio di secondo grado. Messo da canto l’infondato rilievo in ordine alla violazione del disposto dell’art. 603 c.p.p., comma 1, per la mancata assunzione della teste Ca., che il giudice di appello è tenuto a motivare l’eventuale rinnovazione istruttoria, ma non il suo diniego (per altro nel caso di specie giustificato con una valutazione di fatto incensurabile in questa sede), il ricorso evidenzia più fondati aspetti di lacunosità e illogicità della motivazione della sentenza di appello.

1. Tale motivazione, in vero, si mostra carente sotto più convergenti aspetti, che involgono la stessa ontologica sussistenza del reato di calunnia ascritto alla T. e, di poi, una incompleta analisi dell’elemento soggettivo del reato, risultando priva di verifica la reale consapevolezza dell’imputata della falsità delle accuse mosse al C..

Attraverso l’esame delle motivazioni delle due decisioni di merito è agevole constatare che la sentenza della Corte di Appello di Trieste mutua tralaticiamente una palese distonia valutativa fatta propria dal Tribunale e pur censurata con i motivi di appello dell’imputata.

Come si è in precedenza segnalato, il Tribunale desume l’insussistenza dei fatti denunciati dalla T. e non la loro semplice non commissione da parte dell’accusato C. dagli esiti del giudizio sul presupposto reato di molestie svoltosi davanti al Tribunale. Insussistenza riveniente dalla affermata incompatibilità logica tra gli "accadimenti" riferiti dalla T. in denuncia e le credibili dichiarazioni dibattimentali dei testimoni addotti dalla difesa del C..

Tale affermazione è impropria ed erronea ed avrebbe dovuto essere riesaminata dalla Corte di Appello, che invece l’ha pedissequamente recepita, tralasciandone ogni pur necessario vaglio – nel rispetto del principio devolutivo dell’impugnazione – di congruità. L’assunto in tutta evidenza assume sul piano dialogico un valore di mera e sterile assertività e costituisce sul piano logico una palese anfibologia. Sia perchè istituisce un erroneo effetto transitivo e di inammissibile estensiva equivalenza tra la prova della non commissione di un fatto ad opera di un imputato e la prova, puramente congetturale, della non sussistenza di quel medesimo fatto. Fatto la cui falsità o inesistenza storica deve essere oggetto di prova, perchè possa definirsi integrata la materialità strutturale del delitto di calunnia. Prova di cui la sentenza di appello, come esattamente si deduce in ricorso, non fornisce traccia alcuna anche perchè nessun serio contributo in tal senso è stato offerto dall’accusa, sì che incongrua e apodittica è l’affermazione della sentenza del Tribunale, per questo verso condivisa dalla Corte di Appello, per cui la T. avrebbe "di sana pianta inventato" gli episodi denunciati.

2. Palese diviene di conseguenza l’errore di impostazione per cui la Corte di Appello e soprattutto in primo grado il Tribunale hanno istituito una sorta di diretto automatismo tra il giudizio di proscioglimento conclusosi in favore dell’accusato C. e la sicura calunniosità dei fatti riferiti dall’accusatrice.

Ciò sebbene l’ulteriore sentenza del giudice di pace per gli altri reati pure attribuiti al C. abbia assunto come reali e veritieri i fatti denunciati dalla T., mandando assolto il C. per non averli commessi e ipotizzando l’incolpevole errore di persona in cui sarebbe incorsa l’imputata. Circostanza che ricorre, altresì, nella sentenza liberatoria pronunciata dal Tribunale di Trieste nei confronti della stessa T. per la calunnia connessa alla sua seconda denuncia sporta contro il C. per un episodio simile in data 8.9.2004. Denuncia, che è a più riprese richiamata dalla sentenza del Tribunale e dalla stessa Corte di Appello, le quali -pur riconoscendone l’estraneità alla imputazione del presente processo- la valorizzano (segnatamente il Tribunale sotto il profilo dell’intensità del dolo) nell’apprezzare il complessivo comportamento dell’imputato. Ed è allora ben singolare che in detta separata sentenza di proscioglimento debba leggersi (per gli eventuali effetti di cui all’art. 238 bis c.p.p.) che la pubblica accusa (anche in quel caso) non ha minimamente dimostrato la falsità dei fatti denunciati dalla T. e che esiste una visibile "strabiliante somiglianza fisica" tra il C. e altro giovane che all’epoca era solito frequentare il condominio della T. e del C., in guisa – quindi – da rendere più che verosimile l’errore di persona in cui può essere caduta la denunciante T..

3. L’errore metodologico nell’apprezzamento dei fatti di causa da parte dei giudici di secondo grado risiede, allora e in definitiva, nella mera trasposizione nel giudizio per il reato di calunnia degli esiti del giudizio sul reato presupposto.

Non è revocabile in dubbio che, costituendo l’innocenza dell’accusato un presupposto del delitto di calunnia, l’accertamento di essa innocenza è pregiudiziale al giudizio sulla sussistenza della calunnia, ma tale pregiudizialità inerisce precipuamente, sotto il profilo logico, al sillogismo della decisione sull’imputazione di calunnia, tanto da non richiedere necessariamente, sul piano processuale, un autonomo accertamento mediante uno specifico procedimento penale contro il calunniato affinchè risulti chiarita l’eventuale inconsistenza o infondatezza dell’accusa mossa dal calunniatore, che può e deve essere frutto di un autonomo giudizio, suscettibile di tutte le verifiche e ricognizioni del caso. In altre parole non è possibile dedurre in modo meccanicistico la sussistenza della calunnia a carico dell’accusatore dall’intervenuto proscioglimento nel merito per il reato di cui un soggetto sia stato incolpato e il giudicato, sia pure definitivo, rispetto al reato oggetto di incolpazione deve essere valutato autonomamente e liberamente nel giudizio per la calunnia (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 6,16.1.2007 n. 14096, Iaculano, rv.

236142: "Non è automaticamente configurabile il delitto di calunnia a carico dell’accusatore per effetto dell’intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento nel merito della persona ingiustamente incolpata, che va valutata autonomamente e liberamente nel giudizio per la calunnia, in quanto non esiste nell’ordinamento processuale alcuna disciplina in ordine alla efficacia del giudicato penale nell’ambito di un altro procedimento penale, a differenza di quanto avviene nei rapporti tra processo penale e giudizio civile, amministrativo e disciplinare, mentre l’art. 238 bis c.p.p. consente l’acquisizione in dibattimento di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che siano valutate a norma degli dell’art. 197 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3").

4, Ma non basta. La motivazione dell’impugnata sentenza di appello si mostra vieppiù contraddittoria o perplessa sia con riguardo alla sussistenza del reato di calunnia, sia con riguardo al connesso tema dell’elemento soggettivo del reato in riferimento alla effettiva piena consapevolezza dell’imputata di rivolgere false accuse al C.. La sentenza, come detto, indugia a lungo nel ripercorrere le emergenze del giudizio conclusosi con l’assoluzione del C. dal reato di cui all’art. 660 c.p.p. per concludere sulla implausibilità che costui possa essersi trovato presso il condominio triestino nell’ora indicata in denuncia dalla T..

Eppure è la stessa sentenza che, da un lato, con commendevole avvedutezza sgombra il campo da un erroneo assunto del Tribunale, secondo cui la T. non avrebbe potuto scorgere da casa sua una persona che uscisse dall’ingresso dello stabile, osservando, anche con il supporto della documentazione fotografica prodotta dalla difesa dell’imputata, come -invece- costei potesse ben vedere dal suo appartamento una persona nell’area del cortile condominiale deputata a parcheggio degli autoveicoli dei condomini e, quindi, anche il "molestatore" (di nessun’altra persona avendo notato la presenza nelle scale) soffermatosi a imbrattare e danneggiare la sua porta di casa. Emergenze che di certo indeboliscono il categorico e generalizzante giudizio di inattendibilità della T. espresso dal Tribunale. Ed è ancora la sentenza di appello, d’altro lato, che non manca di rilevare come esistano alcune "discrepanze"’nelle deposizioni testimoniali assunte nel giudizio per molestie svoltosi nei confronti del C.. Si tratta delle deposizioni dei testimoni "a discarico", le sole prese in considerazione dal Tribunale ai fini dell’affermazione di responsabilità della T. (testimoni F.F., D.C.B. e D.P. F.). Discrepanze ("significativa divergenza") che la sentenza riconosce afferire all’orario di uscita dalla grotta carsica esplorata dal C. e dai suoi amici, cioè ad un dato temporale reputato di assoluta rilevanza per escludere la presenza del C. presso il condominio nell’ora indicata dalla denunciante T. e ritenerlo estraneo alla commissione dei fatti denunciati nonchè traslativamente – nei descritti termini abduttivi – per affermare la falsità, storica e soggettiva, delle vicende denunciate dalla donna e dedurne la sua responsabilità per calunnia. Di tal che divengono, a tacer d’altro, contraddittorie e riduttive le semplicistiche argomentazioni con cui la sentenza di appello giustifica le ridette discrepanze e divergenze, ascrivendole al tempo trascorso dai fatti e alla ritenuta "neutralità" delle circostanze riferite dai testimoni ("…rispetto allo scarso se non nullo interesse che esse potevano presentare per costoro nel momento in cui sono accadute").

5. Vi è di più. Perchè, creando una ulteriore smagliatura nella trama del percorso decisorio dei giudici di appello, la stessa sentenza impugnata prende atto della fragilità del dato costituito dalla annotazione dell’avvenuta esplorazione della grotta carsica, con data e nomi dei partecipanti, recata dal registro delle "uscite" dell’associazione speleologica amatoriale di cui fanno parte il C. e i menzionati testimoni, dal momento che è emerso come tali annotazioni siano eseguite sul registro dai vari soci in qualsiasi momento, anche abbastanza distante dalla data di "uscita" (il registro presenta più inversioni di date, sì che la sua compilazione non segue un rigoroso criterio cronologico). Con l’ulteriore inferenza che può dubitarsi, come si sostiene nel ricorso della T., della effettività della data (1.2.2004) della esplorazione cui avrebbe preso parte il C.. Ed altresì della correlata sostanziale irrilevanza, nelle sue implicazioni sull’elemento soggettivo del reato di calunnia, dei rilievi critici sollevati sul contegno della T., che – pur essendo un agente della polizia di Stato – non ha pensato di fotografare i danni sulla sua porta di casa e lo stereo con cui era stata imbrattata, nè di far intervenire i colleghi a constatare l’accaduto. Così come, ancora in tema di dolo di calunnia, scarso pregio assume, sul piano dei moventi della condotta calunniatrice, l’argomento dell’esistenza di risalenti dissidi e animosità tra la T. e il C. per ragioni condominiali. Argomento agevolmente reversibile per la posizione dello stesso C., come si sostiene in ricorso, che ben avrebbe potuto precostituire elementi probatori volti ad infirmare la credibilità della T., all’episodio da costei denunciato non avendo assistito alcun testimone diretto (va rilevato che la stessa sentenza impugnata constata che l’annotazione sul registro dell’associazione speleologica della esplorazione avvenuta l’1.2.2004, cui avrebbe preso parte il C., segue un’altra analoga uscita dei soci avvenuta nella successiva data dell’8.2.2004).

Ne discende, allora, una incompletezza ed una intrinseca incoerenza dell’analisi dello stesso atteggiamento psicologico della condotta della T. (dolo del reato), che meritano di essere dissolte con una nuova, diversa e non contraddittoria attenzione a tutte le emergenze processuali. Nel reato di calunnia, come affermato dalla stabile giurisprudenza di questa Corte regolatrice, ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’imputato, occorre acquisire la prova certa che costui abbia accusato la vittima, pur essendo consapevole della sua innocenza. Tale prova ben può risultare da dati indiziari e da tracce logiche, ma gli uni e gli altri non possono che fondarsi su circostanze di fatto certe e univoche, sì la consapevolezza di innocenza dell’accusato ne risulti in modo logicamente consequenziale e coerente (cfr.: Cass. Sez. 6, 24.5.2004 n. 31446, Prandelli, rv. 229271; Cass. Sez. 6, 2.4.2007 n. 17992, Parisi, rv. 236448; Cas. Sez. 6, 16.12.2008 n. 2750/09.

Aragona, rv. 242424).

Da quanto fin qui precisato discende che l’impugnata sentenza di appello è carente e non sorretta da piena logicità, nei suoi passaggi inferenziali, rispetto alle censure formulate con l’atto di appello, non facendosi carico di esperire un idoneo ed esauriente controllo, rispetto all’appellata decisione di primo grado, della consistenza e dell’efficacia dei dati probatori rappresentativi degli elementi strutturali del reato di calunnia contestato all’imputata.

La sentenza deve, per tanto, essere annullata con rinvio degli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Trieste perchè proceda a nuovo giudizio, nel quale colmerà le omissioni e le lacune valutative palesate dalla motivazione dianzi indicate, uniformandosi – per gli effetti di cui all’art. 627 c.p.p. – alle illustrate indicazioni ermeneutiche e metodologiche e ai criteri valutativi postulati dalle decisioni di legittimità sopra richiamate.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Trieste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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