Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 23-06-2011) 14-07-2011, n. 27741

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.P. e D.R. ricorrono avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, li ha riconosciuti colpevoli, in concorso tra loro, del reato di furto pluriaggravato utilizzo del mezzo fraudolento; danno patrimoniale di ingente entità; abuso delle relazioni di prestazioni d’opera, che si sarebbe sostanziato nell’impossessamento di una somma di Euro 50.000, derivante da un rimborso dell’erario alla legittima proprietaria Villa Marti srl, che gli imputati avrebbero fraudolentemente ottenuto, mediante il rilascio di assegni circolari, dalla banca ove detta somma era depositata, in un contesto temporale in cui il D. aveva già perso la qualità di amministratore della società, nelle more venduta, pur avvalendosi di tale sua pregressa posizione per il compimento dell’operazione.

La Corte di appello, pur dando atto della complessità della vicenda, anche in relazione alla sottostante vicenda della compravendita della società, riteneva di condividere la ricostruzione del primo giudice, confermativa dell’accusa, attraverso il richiamo anche per relationem di alcuni argomenti sviluppati nella prima decisione ed attraverso l’analisi degli elementi probatori ritenuti decisivi: una serie di documenti prodotti dalla parte civile, relativi alla cessione della società e alle vicende bancarie che hanno qualificato la sottrazione sub iudice; nonchè le dichiarazioni rese dalla all’epoca direttrice della banca utilizzata per l’operazione, a loro volta analizzate già nel primo giudizio in uno con i documenti che ne confermavano l’attendibilità.

Per l’effetto, la Corte di merito riteneva di respingere tutte le doglianze delle difese: quelle sulla sussistenza dell’addebito; sulla qualificazione dello stesso e sulla sussistenza delle aggravanti contestate; sulla non ricorrenza dei presupposti per la sospensione della condanna al pagamento della provvisionale doglianza quest’ultima proposta solo dal C..

Con il ricorso si articolano diversi motivi.

Per il C., con un primo motivo ci si duole della illogicità della motivazione della sentenza che si sostiene acriticamente adesiva all’impostazione del primo giudice.

Si sostiene che nessuna certezza probatoria sarebbe stata raggiunta circa l’altruità della somma incassata dagli imputati.

Le acquisizioni probatorie non consentivano di pervenire alla conclusione raggiunta in sede di merito.

In termini diversi doveva essere letta la deposizione della direttrice della banca.

Inaccettabili, ancora, doveva ritenersi la argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado a proposito della scelta degli imputati di non sottoporsi all’esame dibattimentale, limitando il proprio apporto alle memorie difensive.

Con un secondo motivo si contesta l’affermata sussistenza dell’aggravante dell’art. 61 c.p., n. 7, che, si sostiene, non poteva configurarsi rispetto ad una somma 50.000 Euro che rappresentava appena l’I,59 % del totale della complessiva operazione economica della compravendita della società. L’aggravante, infatti, doveva valutarsi nello specifico e non in assoluto.

Con un terzo motivo ci si duole della conferma delle decisioni civili e del diniego della sospensione dell’esecuzione della provvisionale.

Quanto a tale ultimo profilo, si sostiene che il diniego di sospensione sarebbe non condivisibile a fronte dell’affermato stato di liquidazione della società costituitasi parte civile, tale da rendere improbabile il recupero della somma.

Il D. con un primo motivo ripropone le doglianze già sviluppate con il gravame di merito, sostenendo che a tale gravame la corte non avrebbe risposto. Si ripropongono gli argomenti in fatto che dovevano portare ad escludere l’addebito.

Con un secondo motivo si duole del riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 7, con argomenti analoghi a quelli già sviluppati dall’altro ricorrente.

Con un terzo motivo si censura il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, che doveva essere esclusa perchè la prestazione d’opera del D. non era, all’epoca, più attuale, onde non poteva fondarsi su di essa l’abuso rilevante.

Con un quarto motivo si duole del fatto che le generiche sarebbero state concesse con giudizio di solo equivalenza, come per il coimputato, pur essendo questo recidivo.

Motivi della decisione

I ricorsi sono manifestamente infondati.

Quanto alle doglianze sul merito della responsabilità è già sufficiente ricordare che, in tema di ricorso per cassazione, allorquando si prospetti il difetto di motivazione, l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di legittimità una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori.

Sotto questo profilo non è certo possibile richiamare i documenti e le testimonianze raccolte in sede di merito per fornirne una diversa lettura interpretativa e pretendere che la Corte di legittimità si trasformi, da giudice della motivazione, in un ennesimo giudice del fatto.

A ciò dovendosi aggiungere che la diversa, opinabile lettura fornita nei ricorsi in contrasto con la doppia lettura confermo dei giudici di merito non è analiticamente corredata neppure dalla spiegazione in forza della quale l’opzione interpretativa adottata sia autonomamente dotata di una forza esplicativa o dimostrativa tale da disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante.

Ciò valendo anche in relazione all’unico passaggio veramente non convincente sviluppato nella sentenza di primo grado, quello che ha portato quel giudice a leggere in termini negativi la insindacabile scelta degli imputati di non sottoporsi all’esame. E’ argomento Infelice che peraltro il giudice di secondo grado si è limitato solo a riportare in sede di ricostruzione della vicenda, ma che risulta nel complesso del tutto non significativo per contrastare la tenuta logica complessiva della decisione di condanna, risultando argomento di assolutamente generico contorno, utilizzato solo per confermare la complessità della vicenda sottostante e la asserita utilità della diretta chiarificazione da parte dei protagonisti.

Nè si può sostenere, come principalmente fa la difesa del D., che la sentenza di appello risulti sommaria solo per non avere riportato tutti gli argomenti difensivi.

Vale il principio in forza del quale non è fondata la denuncia di carenza della motivazione della sentenza argomentata sulla mancanza di un’esplicita pronuncia su una qualsiasi deduzione difensiva, giacchè la regola della "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata", enunciata dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), rende non configurabile il vizio allorquando nella motivazione il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese perchè del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate. In altri termini, nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sezione 4^, 3 febbraio 2005, Mirenna).

Del resto, non va trascurato di considerare, per cogliere ulteriore argomento di infondatezza delle doglianze, che ci si trova in presenza di una "doppia conforme" decisione di condanna. Vale allora il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una "doppia conforme" e cioè ad una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asserita mente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sezione 4^, 10 febbraio 2009, Ziello ed altri). Ciò che qui è da escludere avendo le parti riproposto al giudice di secondo grado gli stessi argomenti già prospettati in primo grado. E, per vero, questi stessi argomenti ripropongono in questa sede in modo ampiamente riproduttivo, tanto da sconfinare nel vizio di genericità, che, come è noto, affligge il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendo gli stessi considerarsi non specifici (la mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità: tra le tante, Sezione 3^, 19 ottobre 2006, Moretti).

Correttamente ed incensurabilmente è stata ravvisata l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 7.

Ai fini della sussistenza della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, infatti, preliminare e decisivo è l’esame dell’oggettiva rilevanza economica del danno, desunta essenzialmente dal livello economico medio della comunità sociale nel momento storico, in cui il reato viene commesso, indipendentemente dalla consistenza patrimoniale del danneggiato:

principio che vale a fortiori in presenza di un valore economico di autoevidente oggettiva rilevanza ciò che qui risulta evidente, con assorbente rilievo rispetto anche agli argomenti basati sulla "comparazione" della somma sub iudice e il valore dell’operazione economica sottostante (cfr. Sezione feriale, 13 agosto 2009, Hudorovich ed altro).

Correttamente ed incensurabilmente è stata ravvisata l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11.

Va ricordato, infatti, che la circostanza aggravante dell’abuso di prestazione d’opera comprende tutti i casi nei quali, a qualunque titolo, taluno abbia prestato ad altri la propria opera, poichè il legislatore penale è interessato a vedere aggravato il profilo di chi utilizza una posizione di particolare fiducia da parte della vittima per commettere il reato in suo danno, dimostrando quindi una maggiore pervicacia nel profittare di una situazione di minore attenzione del soggetto passivo, determinata proprio dall’affidamento nell’opera dell’altro (Sezione 2^, 23 settembre 2005, Biagbini).

Sotto questo profilo non è di decisivo rilievo l’attualità della prestazione d’opera quando anche la pregressa attività, e la fiducia determinata dalla stessa, può ben rappresentare lo strumento abusivo utilizzato per la commissione del reato.

Ciò che qui è stato motivato in modo convincente apprezzando come il ruolo svolto dal D. nella società abbia avuto essenziale rilievo per l’operazione bancaria incriminata (non va del resto dimenticato che ai fini della sussistenza della circostanza aggravante prevista dall’art. 61 c.p., n. 11, nella particolare ipotesi dell’abuso di un rapporto di prestazione d’opera, non è affatto necessario che il rapporto interceda direttamente tra l’autore del fatto ed il soggetto passivo, ma è sufficiente che il colpevole se ne sia avvalso per commettere il reato, posto che a fondamento della maggiore pena sta, non solo e non tanto la violazione di un generico pactum fiduciae, quanto, soprattutto, la strumentalizzazione dell’ufficio ricoperto o della prestazione svolta, piegati come condizione agevolativa per la realizzazione dell’illecito in un contesto di sostanziale minorata difesa, derivante dal credito maturato in quello specifico quadro ambientale:

Sezione 2^, 24 ottobre 2003, Del Miglio).

Inaccoglibile è anche la doglianza proposta dal solo D. circa il giudizio di comparazione delle circostanze.

Il giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti non è censurabile in sede di legittimità qualora il giudice di merito abbia giustificato la soluzione adottata con la indicazione degli elementi ritenuti prevalenti ai fini del giudizio di comparazione, anche se non abbia confutato tutte le deduzioni delle parti volte a conseguire una diversa valutazione comparativa di tutte le circostanze del reato. In questa prospettiva, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’articolo 133 cod.pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sezione 6^, 8 luglio 2009, Abruzzese ed altri). Ciò che qui deve escludersi non potendosi fare discendere dalla incensuratezza del prevenuto, rispetto allo stato di recidivo del correo, l’obbligo di diversificare le posizioni, con la concessione delle attenuanti con giudizio di prevalenza, non potendosi non riconoscere al giudice di merito il potere di una vantazione complessiva dei fatti e del ruolo dei diversi protagonisti tale da portare ad un giudizio di comparazione identico (come anche ad una pena identica).

L’inaccoglibilità dei motivi sui capi penali porta con sè analogo giudizio sui motivi sui capi civili.

Quanto al diniego della sospensione dell’esecuzione della provvisionale va rilevato che trattasi di doglianza comunque ora non più attuale.

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, anorma dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00 (mille), in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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