Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 18-05-2011) 14-07-2011, n. 27733

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Procuratore generale di Firenze ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe con cui il Tribunale di Lucca ha applicato a T. P.P., per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, la pena di anni uno e mesi tre di reclusione e di Euro 4000 di multa riconoscendo l’attenuante del fatto di lieve entità, la pena base veniva indicata in anni uno e mesi 11 di reclusione ed Euro 6000 di multa, ridotta poi per il rito.

Lamenta la concessione dell’attenuante del fatto di lieve entità, sul rilievo che il giudice si sarebbe limitato a valorizzare positivamente il quantitativo non elevato della droga, senza considerare che le circostanze complessive della vicenda avrebbero dovuto portare a non concedere l’attenuante, in ragione della diversità qualitativa delle sostanze e del ravvisato carattere organizzato e sistematico dell’attività di spaccio.

Lamenta la modalità di determinazione della pena: pur avendo applicata una pena non illegale, era erroneo il computo effettuato per pervenirvi, giacchè a tal riguardo si sarebbe semmai dovuti partire, quanto alla reclusione, dalla pena base di 1 anno, mesi tre e gg. 10.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

Quanto al primo motivo, basta ricordare che, per assunto condivisibile, nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, le parti (anche quella pubblica) non possono prospettare con il ricorso per cassazione questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento, in particolare afferenti le prove risultanti dagli atti del procedimento nonchè la qualificazione giuridica del fatto risultante dalla contestazione, in quanto l’accusa come giuridicamente qualificata non può essere rimessa in discussione. Ne consegue che, una volta pronunciata la sentenza che ha recepito l’accordo, sul quale il giudice ha preventivamente esercitato il suo potere di controllo, le parti (anche quella pubblica) non possono più prospettare questioni e sollevare censure con riferimento alla applicazione delle circostanze ed alla entità della pena, che non sia illegale. Nè tale doglianza può essere formulata prospettando il difetto di motivazione, in quanto, con l’accordo intervenuto tra loro, le parti hanno implicitamente esonerato il giudice dell’obbligo di rendere conto (almeno inter partes) dei punti non controversi della decisione, non potendosi pretendere l’esposizione dei motivi di un convincimento che le parti stesse hanno già fatto proprio (cfr. Sezione 4, 29 novembre 2006, Proc. gen. App. Genova in proc. Antognetti, non massimata, che, da queste premesse, ha appunto rigettato il ricorso con il quale il procuratore generale si doleva del fatto che, in sede di "patteggiamento", fosse stata riconosciuta all’imputato la circostanza attenuante del fatto di lieve entità di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, contestando, a tal fine, l’attribuita definizione come "modesto" del quantitativo della droga).

Va soggiunto, poi, per corrispondere al secondo motivo, che, nel "patteggiamento", una volta che il giudice abbia ratificato l’accordo, non è più consentito alle parti prospettare, in sede di legittimità, questioni con riferimento alla sussistenza ed alla qualificazione giuridica del fatto, alla sua attribuzione soggettiva, alla applicazione e comparazione delle circostanze, alla entità e modalità di applicazione della pena: e ciò salvo che non si versi in ipotesi di pena illegale.

Al riguardo, dovendosi precisare che nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti l’accordo si forma non tanto sulla pena inizialmente indicata e sulle eventuali operazioni con le quali essa viene determinata, bensì sul risultato finale delle operazioni stesse. Ne deriva che gli eventuali errori di calcolo commessi nel determinare la sanzione concordata ed applicata dal giudice non assumono alcuna rilevanza, purchè il risultato finale non si traduca in una pena illegale (Sezione 2, 4 novembre 2008, Dimeo, non massimata).

Nella specie, non si verte in ipotesi di pena illegale, essendosi in particolare determinata la pena della reclusione in misura superiore ai limiti minimi edittali: l’errore è stato fatto nei calcoli intermedi, segnatamente nell’indicazione della pena base da cui poi si è pervenuti a quella finale. Ma trattasi di errore che non vizia, secondo quanto sopra indicato.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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