Cass. civ. Sez. II, Sent., 02-12-2011, n. 25828

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 2.3.92 C.V. ed V.A., comproprietari del fondo sito in (OMISSIS), convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Como, C.M. A. ed G.A., comproprietari del fondo confinante, lamentando che i convenuti avevano fatto erigere sul loro fondo un fabbricato difforme dalla concessione edilizia, in violazione della distanza legale e con parziale sconfinamento nel fondo degli attori;

gli stesso chiedevano, quindi, la condanna dei convenuti alla demolizione dell’edificio ed al risarcimento dei danni.

Si costituivano in giudizio i coniugi C. – G. chiedendo il rigetto della domanda o, in subordine, l’attribuzione, ex art. 938 c.c., del suolo eventualmente occupato con pagamento del doppio del relativo valore. Espletate tre C.T.U., il Tribunale, dichiarava che l’immobile dei convenuti era stato edificato in difformità dalla licenza edilizia, in violazione delle distanze dal confine e con sconfinamento nella proprietà degli attori; condannava i convenuti all’abbattimento, a loro spese, della parte di costruzione sconfinante sul suolo degli attori e per una fascia di quattro metri lungo la linea di confine, rigettando la domanda riconvenzionale dei convenuti che condannava al pagamento delle spese processuali.

I soccombenti C. – G. proponevano appello cui resistevano gli appellati.

Con sentenza in data 15.12.2004 la Corte di Appello di Milano dichiarava la nullità della statuizione di primo grado, relativa alla difformità della costruzione rispetto alla licenza edilizia del 30.6.72 rilasciata dal Sindaco del Comune di Maslianico; dichiarava la nullità di quanto disposto al capo 4) del dispositivo della sentenza impugnata, concernente l’ordine di tutte le annotazioni e/o trascrizioni presso gli Uffici competenti, impartito con la riserva "se del caso";

dichiarava che il confine tra le proprietà delle parti era quella risultante dalla tavola planimetrica recante la data 6.9.72;

respingeva la domanda di accertamento di sconfinamento ai danni degli appellati;

condannava gli appellanti ad arretrare, a loro spese, la parte dell’edificio di loro proprietà, posta a distanza inferiore di quattro metri dal confine, sino a rispettare tale prescritta distanza e li condannava, inoltre, a corrispondere agli appellati, a titolo di risarcimento danni, la somma di Euro 500,00 oltre interessi;

compensava fra le parto le spese di entrambi i gradi del giudizio.

Rilevava, in particolare, la Corte di merito che la tavola del progetto 6.9.72, presentata al Comune di Maslianico per il rilascio della licenza edilizia, recando la sottoscrizione delle parti in causa, costituiva "atto contenente la comune volontà" delle parti che, quindi, concordemente avevano determinato la linea di demarcazione tra le rispettive proprietà; non sussisteva, di conseguenza, alcuno sconfinamento nella proprietà vicina, ma doveva essere eliminata solo la sporgenza dell’edificio oltre la linea dei prescritti 4 mt. di distanza dal confine.

Avverso tale sentenza C.M.A. e G.A. propongono ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Resistono con controricorso le controparti.

Motivi della decisione

I ricorrenti deducono:

1) violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3 dell’art. 100 c.p.c., nonchè erronea o insufficiente motivazione in relazione alla sussistenza dell’interesse ad agire ed alla legittimazione attiva degli appellati;

la Corte di appello aveva disatteso l’eccezione di carenza di legittimazione attiva, sollevata dagli appellanti con il secondo motivo di impugnazione, affermando che l’azione per la rimessa in pristino non compete soltanto "per la tutela reciproca dei fabbricati che si fronteggiano" , ma anche per la tutela delle distanze legali delle costruzioni dai confini, in contrasto con la giurisprudenza della S.C., secondo cui la normativa sulle distanze e le relative norme integrative devono applicarsi esclusivamente agli edifici frontistanti, sicchè l’azione di ripristino può essere esperita unicamente dai proprietari di tali edifici e non già da qualunque terzo estraneo; 2) violazione e falsa applicazione degli artt. 874- 875-877 c.c., in tema di diritto di prevenzione, nonchè erronea o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia;

benchè il Piano di fabbricazione, adottato dal Comune di Maslianico nel 1962, prevedesse una distanza minima dalle pareti finestrate degli edifici, pari a m. 4 dal confine e una distanza minima tra le pareti degli edifici eretti nei fondi confinanti, pari a m. 8, doveva escludersi l’obbligo di osservare una distanza minima assoluta dai confini, posto che detto P.d.f. aveva utilizzato un grafico riferito a due edifici frontistanti e non aveva escluso il diritto di prevenzione, espressamente ritenuto valido nel successivo Pdf del 1975, vigente nel momento in cui gli attuali ricorrenti avevano ultimato i lavori ed ottenuto l’abitabilità; ne conseguiva che non poteva, comunque, disporsi la demolizione degli edifici, se pure originariamente illeciti, alla stregua della normativa sopravvenuta, meno restrittiva; peraltro, l’attuale piano regolatore, già in vigore al momento della pronuncia della sentenza di appello, all’art. 19, riconosceva il criterio della prevenzione; tali strumenti urbanistici ben potevano essere prodotti per la prima volta in sede di legittimità, trattandosi di documenti che riguardavano l’esistenza di norme che il Giudice è tenuto a conoscere; trovava, quindi, applicazione, nella specie, la giurisprudenza della S.C. secondo cui il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 c.c., è derogato dagli strumenti urbanistici locali, nel caso in cui fissino senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine e non anche quando "pur prevedendo tale metodo di misurazione, si consenta anche la costruzione in aderenza"; 3) violazione dell’art. 872 c.c., ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5;

dall’infondatezza della condanna alla demolizione di una porzione dell’immobile dei ricorrenti, derivava l’infondatezza della condanna al risarcimento del danno in favore degli odierni resistenti, per la presunta violazione della normativa sulle distanze. Il ricorso è infondato.

La prima doglianza è stata già disattesa dalla Corte territoriale con corretta e logica motivazione, aderente alla consolidata giurisprudenza citata in sentenza(Cass. n. 7384/2001; n. 10935/96).

In particolare,è stato evidenziato dal giudice di appello che l’azione per la rimessa in pristino non compete solo per la tutela reciproca dei fabbricati che si fronteggiano, ma anche per la tutela delle distanze legali delle costruzioni dai confini e "se i regolamenti edilizi stabiliscono di rispettare determinate distanze dal confine, vietando la costruzione sullo stesso, non può trovare applicazione il principio della prevenzione e chi edifica, anche in assenza di costruzioni sul fondo del vicino, prospicienti il tratto di confine corrispondente, è tenuto a rispettare la distanza da esso imposta dal regolamento comunale", senza che possa operare il principio della prevenzione poichè la distanza dal confine è assoluta e va rispettata anche se il fondo del vicino sia inedificato (Cass. n. 4199/2007; n. 11899/02; n. 4985/2002).

I regolamenti locali richiamati dall’art. 873 c.c., i quali stabiliscono una distanza maggiore di tre metri per la costruzione sul confine, sono, peraltro, norme integrative dell’art. 873 c.c., onde la loro violazione comporta la condanna alla riduzione in pristino(rv 437981; rv 44944). Nella specie la Corte di merito ha rilevato che, in forza dello strumento urbanistico, vigente all’epoca della costruzione dell’edificio dei ricorrenti, era stabilita per le pareti, finestrate e non degli edifici, una distanza minima dal confine pari a mt. 4 sicchè, essendo stato accertato che un piccolo tratto dello spigolo nord-est dell’edificio dei signori C. – G. distava dal confine poco più di tre metri, sussisteva la violazione di detta distanza minima di 4 metri, da rispettarsi per ogni parte dell’edificio stesso.

La seconda censura, fondata sullo "ius superveniens", attiene ad una questione nuova, non prospettata in appello e, come tale, esulante dal sindacato del giudizio di legittimità.

L’ultima doglianza rimane superata da quanto già rilevato.

Il ricorso va, dunque, rigettato.

Consegue, secondo il principio della soccombenza, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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