Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-12-2011, n. 25803 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

F.D. adiva il Giudice del lavoro di Viterbo chiedendo la dichiarazione nei confronti della Simas s.r.l. dell’illegittimità del licenziamento intimatogli il 19.5.2000 a causa della pretesa inidoneità al lavoro.

Il Tribunale del lavoro di Viterbo con sentenza n. 386/2006 rigettava la domanda: la Corte di appello di Roma con sentenza del 24.10.2007 rigettava l’appello del F..

La Corte territoriale rilevava che, circa la dedotta idoneità del ricorrente a svolgere tutte le mansioni compatibili con l’inquadramento in epoca precedente il recesso per intervenuta guarigione, il giudizio di inidoneità formulato dell’ASL e posto a base del recesso era stato confermato dalla disposta CTU che, nell’attestare l’avvenuta guarigione si riferiva all’poca degli accertamenti peritali, compiuti ben quattro anni dopo il recesso, mentre confermava la pregressa inidoneità. Circa la possibile adibizione ad altri incarichi comportanti lo spostamento di pesi non superiori ai dieci chili, la società aveva dedotto l’inesistenza di posizioni lavorative compatibili con tale condizione e il lavoratore non aveva contestato tale affermazione, se non con l’atto di appello, quindi tardivamente.

Ricorre il F. con due motivi, resiste la Simas con controricorso. Il F. ha depositato memoria difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si deduce la violazione falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. La società convenuta in primo grado aveva solo contestato l’obbligo di adibire il F. a mansioni compatibili con il suo stato fisico, non aveva dedotto l’inesistenza di posizioni lavorative del genere; quindi non si poteva poi imputare al lavoratore di non avere indicato quali mansioni era in concreto disponibili.

Il motivo appare infondato. Pur essendo stato formulato il previsto quesito di diritto, il motivo non è rispettoso del principio di autosufficienza del ricorso in quanto non si richiama espressamente ed in modo completo la comparsa di costituzione in primo grado onde provare ex actis che la società non abbia dedotto tempestivamente che non vi erano posizioni compatibili con la situazione medica del F.. Pertanto non emerge che vi sia stata la dedotta violazione, posto che dalla sentenza impugnato emerge che la deduzione di parte datoriale è stata tempestiva e non è stato provato il contrario.

Con il secondo motivo si allega l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. La disposta CTU dimostrava che era intervenuta guarigione prima del recesso a seguito degli interventi medici effettuati e che, comunque, esistevano mansioni compatibili con il grado di abilità residuo come accertato dall’ASL. Il secondo motivo è infondato contemplando censure di merito. I giudici dei primi due gradi del giudizio hanno affermato che la consulenza ha stabilito che era intervenuta la guarigione, ma con riferimento alla data degli accertamenti peritali intervenuti quattro anni dopo il recesso, mentre sussisteva lo stato di inabilità accertato anche dalla ASL al momento del recesso. Le censure appaiono generiche e di mero fatto; sul punto la sentenza impugnata appare congruamente e logicamente motivata così come in ordine all’altro punto contestato e cioè la presenza di altre posizioni lavorative compatibili con quanto accertato dall’ASL, questione che la Corte di appello ha osservato essere stata sollevata solo in appello dopo che il lavoratore non aveva contestato l’affermazione datoriale secondo cui tali posizioni non erano in concreto disponibili. Va anche osservato che neppure con il presente ricorso si indicano in specifico quali siano queste posizioni (e da chi fossero all’epoca occupate) e se siano anche coerenti con il livello di inquadramento del ricorrente (avendo la Corte territoriale osservato che il F. non ha comunque mai dichiarato la sua disponibilità ad accettare un inquadramento minore, pur di salvaguardare il posto di lavoro).

Si deve conseguentemente rigettare il proposto appello: le spese di lite – liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che si liquidano in Euro 30,00 per esborsi nonchè in Euro 2.000,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *