Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 23-06-2011) 15-07-2011, n. 27920 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con sentenza emessa il 20 dicembre 2007, B.A. veniva condannato dal Tribunale di Nola, concesse le attenuanti generiche, alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa, per violazione dell’art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 per aver coltivato, in concorso con A.S. (posizione definita ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) 25 piante di cannabis indica (fatto accertato in (OMISSIS)).

Avverso la decisione interponeva appello il prevenuto, chiedendo l’assoluzione, in subordine la qualificazione del fatto come reato di favoreggiamento ex art. 378 c.p. ed in ulteriore subordine la riduzione della pena. La Corte d’appello di Napoli disattendeva tutte le richieste dell’appellante e dava conto del proprio convincimento, richiamando "per relationem" la motivazione della sentenza di primo grado ed osservando specificamente che: 1) non appariva configurabile il meno grave delitto di favoreggiamento, in quanto l’imputato, in primo luogo, era consapevole della illecita coltivazione – essendo a lui noto non solo che le piante si trovavano sul terrazzo dell’abitazione, ma anche che queste erano opportunamente celate da un telo -e, in secondo luogo, intendeva cooperare nella illecita coltivazione, avendo immediatamente compreso il segnale che il codetentore gli aveva fatto con una semplice occhiata al sopraggiungere dei CC, tant’è che si era immediatamente portato sul terrazzo per sottrarre le piante al controllo della Polizia Giudiziaria; al riguardo, i giudici di seconda istanza richiamavano la giurisprudenza di questa Corte secondo cui "il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento al delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente, in costanza di detta detenzione, atteso che nei reati permanenti qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve inevitabilmente in un concorso, quanto meno a carattere morale"; 2) quanto al trattamento sanzionatorio, la pena inflitta dal Tribunale appariva addirittura fin troppo mite, avuto anche riguardo ai parametri di cui all’art. 133 c.p..

Ricorre per cassazione il B., per il tramite del difensore deducendo violazione di legge e vizio di motivazione con argomentazioni che possono così riassumersi: 1) avrebbe errato la Corte distrettuale nel valorizzare la "semplice occhiata" tra l’ A. ed il B., posto che avrebbe dovuto tener conto, viceversa, della provenienza del B., in quel frangente, dalla propria abitazione, diversa da quella ove erano collocate le piante, nonchè della circostanza che il B. era sopraggiunto dopo l’intervento dei Carabinieri ed al solo fine di favorire la dispersione della sostanza attraverso il lancio dei vasi; tant’è, aggiunge il ricorrente, che il Giudice di prime cure lo aveva mandato assolto dalla codentenzione di altra sostanza rinvenuta in un barattolo di vetro all’interno della camera da letto dell’ A.;

2) omessa valutazione dei motivi di appello relativi all’asserita destinazione della sostanza ad uso personale ed alla configurabilità dell’ipotesi lieve di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Motivi della decisione

Come da provvedimento di cui al verbale di udienza, è stata rigettata – su conforme parere del Procuratore Generale – l’istanza del difensore del ricorrente di rinvio per l’adesione all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria; al riguardo ci si richiama al detto verbale, evidenziando altresì che l’esigenza della trattazione del ricorso deve ritenersi riconducibile al termine di prescrizione del reato, in relazione alla data di accertamento del reato stesso, ed alla necessità di effettuare compiutamente e collegialmente il controllo degli atti circa eventuali periodi di sospensione del decorso del termine prescrizionale, tenuto altresì conto del rispetto del principio della ragionevole durata del processo e dell’obbligo di immediata declaratoria dell’estinzione del reato per prescrizione (se non preclusa dall’inammissibilità originaria del ricorso: valutazione, questa, ovviamente possibile solo in sede di decisione collegiale del ricorso in camera di consiglio).

Ciò posto, rileva il Collegio che alla data odierna – avuto riguardo alla data di accertamento del reato, al titolo del reato medesimo, ed alla pena edittale per lo stesso prevista – risulta interamente decorso il termine massimo di prescrizione.

Per il reato contestato al B., in relazione al "tempus commissi delicti", è stabilita la pena della reclusione da due a sei anni.

In base alla L. n. 251 del 2005, il termine di prescrizione per il reato "de quo" è di 6 anni, aumentato di un quarto (quindi termine massimo pari a sette anni e sei mesi) in caso di interruzioni.

La citata L. n. 251 del 2005 era già entrata in vigore (8 dicembre 2005) alla data della pronuncia della sentenza di primo grado (20 dicembre 2007): di tal che, , risultando più brevi i termini di prescrizione previsti dalla legge in parola rispetto a quelli del previdente art. 157 c.p., mpm v’è dubbio alcuno – avuto riguardo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 393 del 2006 e tenuto conto dell’indirizzo interpretativo quale delineatosi nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., "ex plurimis", Sez. 5, n. 2076 del 05/12/2008 Ud. – dep. 20/01/2009 – Rv. 242362) -che nella concreta fattispecie deve trovare applicazione il termine di prescrizione previsto dall’art. 157 c.p. come novellato con la L. n. 251 del 2005, vale a dire sei anni, con un massimo di sette anni e sei mesi, non ricorrendo alcuna delle eccezioni previste in relazione al titolo del reato.

Dunque, la prescrizione del reato ascritto al B. è cronologicamente maturata alla data del 25 marzo 2011 (sette anni e sei mesi dal 15 settembre 2003), nè dall’esame degli atti a disposizione di questo ufficio si rilevano periodi di sospensione del decorso de termine di prescrizione.

Tanto premesso, occorre adesso verificare se, avuto riguardo ai motivi dedotti dal ricorrente in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello di Napoli nell’impugnata sentenza, il ricorso presenti profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perchè basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).

Orbene il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate. Per quanto attiene al primo motivo di ricorso, con lo stesso il ricorrente ha inteso richiedere a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto al percorso motivazionale, congruo e logico, seguito dai giudici del merito, così risolvendosi in un difetto di correlazione con i contenuti della decisione impugnata, formulando prospettazioni in fatto alternative, dunque inammissibili in sede di legittimità.

In specie, la proposizione di soluzioni giuridiche diverse rispetto a quelle correttamente praticate dal Giudice di seconda istanza (conformemente a quanto peraltro già sostenuto dal primo giudice) è infatti preceduta da ricostruzioni in fatto – alternative rispetto a quelle ragionevolmente scelte dalla Corte distrettuale – che costituiscono il presupposto della tesi difensiva sostenuta con il ricorso; con l’effetto che è irrilevante soffermarsi su tali prospettazioni alternative in diritto posto che esse sono poggiate su una ricostruzione in fatto – che in quanto tale non può trovare ingresso nel giudizio di cassazione – quale la versione del mero favoreggiamento che il B. avrebbe assunto nei confronti del coimputato, Al.Sa.: versione del favoreggiamento che, con argomenti adeguati e logici – nonchè giuridicamente ineccepibili – entrambe le decisioni di merito hanno smentito indicando gli elementi indizianti del mendacio del B. laddove questi ha negato la sua effettiva partecipazione al reato. Nel caso di specie, la Corte di merito (e con essa la decisione di primo grado) ha correttamente tenuto presente che il contributo causale del concorrente (anche morale) può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa, nè ha omesso di motivare sulla prova logico-indiziaria dell’esistenza di una reale partecipazione del ricorrente nel reato, e neppure ha mancato di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con l’attività posta in essere dall’altro concorrente.

Giova, al riguardo, ricordare il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui in tema di concorso di persone nel reato, anche "la sola presenza sul luogo del delitto può costituire concorso allorchè l’agente correo abbia la coscienza e la volontà dell’evento cagionato da altro o altri coimputati ed abbia in qualche modo partecipato all’azione o comunque facilitato consapevolmente l’esecuzione della stessa" (Sez. 1, n. 112 del 12/01/1990 – Ud.

01/12/1988 -Rv. 182973, imp. Ahmetovic), come accaduto nella fattispecie; principio ribadito di recente da Sez. 4, n. 21441 del 10/04/2006 Ud. – dep. 21/06/2006 -Rv. 234569, Imp. Piscopo, secondo cui "in tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso di persone nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, nel concorso di persone è richiesto un contributo che può manifestarsi anche in forme che agevolino la detenzione, l’occultamento e il controllo della droga, assicurando all’altro concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare".

In punto di qualificazione del fatto ascritto al B., che non andrebbe ricondotto, secondo il ricorrente, all’imputazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ma a quella di cui all’art. 378 c.p.p., la tesi difensiva risulta del tutto incoerente, da un lato, rispetto alle oggettive circostanze del fatto, così come ricostruite nel complesso motivazionale di merito (e sopra ricordate nella parte narrativa), e, dall’altro, rispetto al consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui "il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento al delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente, in costanza di detta detenzione, atteso che nei reati permanenti; qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve, inevitabilmente in un concorso, quanto meno a carattere morale" (in termini, Sez. 6, n. 4927 del 17/12/2003 Ud. (dep. 06/02/2004) Rv. 227986 Imputato: P.G. in proc. Domenighini; conf. Sez. 4, Sentenza/?. 12915 del 08/03/2006 Ud. (dep. 12/04/2006) Rv. 233724 Imp. Billeci ed altro). Quanto al secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta il mancato riconoscimento della destinazione ad uso personale delle sostanze oggetto di coltivazione, lo stesso non è perspicuo. E’ sufficiente ricordare in proposito il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte – in epoca ampiamente anteriore al ricorso proposto dal B. – secondo cui "costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale" ( Sez. Un. n. 28605 del 24/04/2008 Ud. – dep. 10/07/2008 – Rv. 239920, imp. Di Salvia; conf., Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata).

Al punto 3) della seconda pagina dell’atto di ricorso, il ricorrente, oltre a formulare sintetiche argomentazioni di censura in ordini alla omessa "derubricazione in sanzione amministrativa" (evidentemente con riferimento alla tesi difensiva dell’asserita destinazione della sostanza stupefacente ad uso personale, di cui si è innanzi detto), ha poi enunciato una censura di omessa motivazione sulla richiesta del riconoscimento dell’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, evocando il motivo di gravame n. 3); orbene mette conto sottolineare che: 1) a tale enunciazione non è poi seguita alcuna formulazione argomentativa, con conseguente, ed evidente, profilo di genericità della doglianza; 2) la Corte distrettuale, nel ricordare i motivi di appello dell’imputato, ha accennato anche alle censure relative al trattamento sanzionatorio tra le quali dunque ben poteva intendersi ricompresa la questione dell’ipotesi della lieve entità del fatto che, come è noto, costituisce un’attenuante e non un’ipotesi autonoma di reato; 3) nell’esaminare la richiesta di un più favorevole trattamento sanzionatorio, la Corte stessa ha disatteso tale istanza evidenziando che la pena inflitta al B. in primo grado appariva "sin troppo mite" ed insuscettibile di diminuzione secondo i parametri di cui all’art. 133 c.p.: orbene appare di tutta evidenza che la Corte, così argomentando, ha implicitamente, ma inequivocabilmente, dimostrato di aver vagliato l’assunto difensivo e di averlo disatteso non ravvisando nel fatto alcun profilo di lieve entità.

La maturata prescrizione, dunque, non può essere dichiarata in questa sede, ostandovi l’inammissibilità del ricorso conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi dedotti alla luce di tutte le suesposte considerazioni.

Le Sezioni unite di questa Corte (Cass. S.U. 22 novembre 2000, De Luca, RV 217266) hanno, invero, affermato che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p..

Va ricordato, per concludere, che l’unica ipotesi di cognizione da parte del giudice dell’impugnazione inammissibile, rimane, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (così, ancora, Cass. S.U. 22 novembre 2000, De Luca), quella relativa all’accertamento dell’abolitip criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell’imputazione (e desumibile dall’eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale).

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00= in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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