Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 21-06-2011) 15-07-2011, n. 28039 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con decreto del 5 ottobre 2010, il Presidente del Tribunale di Foggia – Ufficio misure di prevenzione ha rigettato l’istanza avanzata da F.N., volta a ottenere l’autorizzazione ad allontanarsi temporaneamente per la sola giornata del 9 ottobre 2010 dal comune di residenza per ragioni di lavoro, ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7 bis, sul rilievo che non erano ravvisabili i presupposti di legge per consentire, senza la ricorrenza di gravi ragioni di necessità, il chiesto allontanamento, in deroga al provvedimento applicativo della misura.

2. Avverso la suddetta decisione ha proposto ricorso per cassazione in data 15 ottobre 2010, per mezzo del suo difensore di fiducia, F.N., che ne chiede l’annullamento sulla base di unico motivo, con il quale lamenta violazione della L. n. 1423 del 1956, art. 7 bis, deducendo che la chiesta autorizzazione non comporta modifica del giudizio di pericolosità a suo tempo espresso nel decreto applicativo della misura di prevenzione e, conseguentemente, dello stesso decreto, attesa la temporaneità della richiesta, e rappresentando che l’attività lavorativa e il corretto adempimento delle mansioni costituiscono gravi ragioni di necessità, idonee a giustificare l’allontanamento dal comune di residenza.

3. Il Procuratore Generale in sede ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, rilevando che il ricorrente non ha evidenziato ragioni, trascurate dal giudice di merito, di vera e propria necessità o di impellenza del chiesto temporaneo allontanamento, al di là del generico rinvio al corretto adempimento delle mansioni, che non potevano prevedere ab initio il suo spostamento; questa Corte ha affermato che l’autorizzazione può essere data per esigenze di salute gravi e temporanee e per ragioni familiari o di lavoro gravi e contingenti, nella specie non prospettate; vi è carenza di interesse del ricorrente a eliminare una situazione pregiudizievole, essendo al momento della proposizione del ricorso già trascorso il giorno cui era riferita la richiesta, e non sussistendo un interesse tutelabile all’affermazione del principio di diritto programmaticamente enunciato come destinato a operare in futuro in casi simili.

4. Con memoria depositata il 6 giugno 2011 il ricorrente ha insistito nell’accoglimento del ricorso, deducendo di lavorare presso l’esercizio "Sara abbigliamento" da data antecedente al suo assoggettamento alla misura di prevenzione personale, di avere allegato alla richiesta una dichiarazione del datore di lavoro che aveva specificato le sue mansioni, la richiesta era fondata sulla necessità dell’approvvigionamento dell’esercizio commerciale, presso cui lavorava, che rendeva indispensabile e indifferibile il chiesto allontanamento, e che è infondata la dedotta carenza di interesse, attesa la prevista impugnabilità del provvedimento di rigetto adottato nei casi di urgenza ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7 bis, tanto più che lo stesso provvedimento è stato l’ultimo di una serie di provvedimenti dello stesso tenore.

Con la stessa memoria il ricorrente ha anche lamentato la mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza delle gravi ragioni di necessità dedotte nella richiesta.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile per carenza d’interesse.

2. L’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se l’impugnazione sia idonea a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente.

Il requisito dell’interesse deve sussistere oltre che al momento della proposizione del gravame anche in quello della sua decisione e deve configurarsi in maniera immediata, concreta e attuale (tra le altre, Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, dep. 18/10/1995, Serafino, Rv. 202269; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, dep. 29/12/1995, P.M. in proc. Timpani, Rv. 203093; Sez. 1, n. 1711 del 15/03/1996, dep. 13/05/1996, Cascio, Rv. 204605; Sez. U, n. 7 del 25/06/1997, dep. 18/07/1997, Chiappetta, Rv. 208165; e, da ultimo, Sez. 3, n. 24272 del 24/03/2010, dep. 24/06/2010, Abagnale, Rv. 247685).

Consegue a tali rilievi che, quando sia denunciata una violazione di legge, la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza può essere riconosciuta, trattandosi di ricorso per cassazione, solo se, nell’eventuale giudizio di rinvio, possa raggiungersi "un risultato non solo teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole" (Sez. 1, n. 47496 del 17/10/2003, dep. 11/12/2003, P.M. in proc. Donnarumma, Rv. 226466).

3. Alla luce di questi principi, in capo al ricorrente non vi era, all’atto della proposizione del ricorso, l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione, poichè, esaurita la vicenda oggetto della pronuncia con il decorso del giorno al quale era riferita la chiesta autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di residenza, in cui era il suo obbligo di soggiorno, il gravame proposto non era più idoneo a costituire la situazione pratica vantaggiosa, attesa dal medesimo ricorrente.

Dalle deduzioni svolte con la memoria difensiva è rimasto, peraltro, confermato l’interesse del ricorrente all’affermazione da parte di questa Corte di un principio di diritto destinato a operare per casi consimili in futuro, omettendosi di rilevare che una decisione a futura memoria non è ammessa nell’ordinamento processuale vigente e che la denuncia di violazione di legge è azionabile in sede di legittimità se dalla stessa sia derivato un pregiudizio e il suo rilievo consenta di raggiungere, con l’eliminazione del provvedimento impugnato, un risultato in concreto favorevole, e non la mera affermazione del principio di diritto.

4. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – valutato il contenuto del ricorso e in difetto dell’ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione dell’impugnazione – al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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