Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 26-01-2011) 15-07-2011, n. 28046 Giudizio d’appello sentenza d’appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Genova, con sentenza del 9 marzo 2010,, confermando nel resto la sentenza del Tribunale di Savona, Sez. Dist. di Albenga, del 20 novembre 2008, dichiarando non doversi procedere per prescrizione per i reati di cui ai capi a), b) e e), ha ridotto la pena inflitta a M.A., limitatamente al reato sub d) ( art. 483 c.p., art. 61 c.p., n. 2, fatto commesso il 26 gennaio 2004, per avere attestato falsamente, nella domanda relativa alla definizione degli illeciti ai sensi della L. n. 326 del 2003, che nel costruendo fabbricato era stato eseguito il cambio di destinazione d’uso del magazzino in abitativo ed era stato sopraelevato il tetto per realizzare una mansarda abitativa, fatti non rispondenti al vero, in quanto il fabbricato alla data del 24 dicembre 2003, risultava privo di qualsiasi tamponatura, essendo solo uno scheletro in cemento armato).

L’imputata, a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi:

1. Erroneità della sentenza impugnata per violazione di legge e/o mancata o apparente o illogica motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e), e art. 111 Cost.). Il mero rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado non sarebbe sufficiente a integrare l’obbligo di motivazione e l’iter argomentativo della decisione gravata sembra essere identico a quello che ha condotto il Giudice di prime cure alla condanna per il reato di falso ideologico in atto pubblico, ma v’è carenza di idonea indagine ed analisi dei fatti alla luce dei motivi di gravame. La sola errata indicazione della data di fine lavori (31.3.2003), contenuta nella prima domanda di condono presentata in Comune ad Andora (datata 26.01.2004), relativa appunto alla definizione degli illeciti ai sensi della L. n. 326 del 2003, è stata ritenuta di per sè sufficiente all’integrazione della condotta illecita e non sarebbe stata data rilevanza alla volontà di correggere l’errore commesso – causato da cattiva interpretazione della normativa – con la successiva dichiarazione (del 14.2.2005) da parte dell’imputata, con cui veniva richiesto di considerare la domanda di condono precedente limitatamente alla realizzazione di un locale di sgombero mansardato e del porticato. Inoltre era stata segnalata la mancanza di accertamento dell’elemento soggettivo del reato. Ciò vale soprattutto in ordine alla censura dedotta nel terzo motivo d’appello, laddove era stata evidenziata la contraddittorietà della decisione sulla sussistenza del reato, attesa l’inidoneità ingannatoria della dichiarazione prestata dalla M., censura alla quale la Corte di appello avrebbe risposto con mera motivazione "di stile". 2. Erroneità della sentenza impugnata per violazione di legge, quanto all’art. 483 c.p., in riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo. I giudici di appello avrebbero ritenuto irrilevante che nell’iter dei fatti vi fosse stato un sopralluogo dei tecnici comunali effettuato prima della presentazione della domanda, circostanza che rendeva invece inidonea la condotta della M. a trarre in inganno l’ente comunale.

Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. Come è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 15227 dell’11/4/2008, Baretti, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061), quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico complessivo corpo argomentativo.

Nel caso di specie, la Corte di appello ha sinteticamente richiamato il fatto addebitato all’imputata come ricostruito dal giudice di primo grado, ritenendo condivisibili le considerazioni svolte dal primo giudice, anche in riferimento alla limitata considerazione da attribuire alla dichiarazione di rettifica, effettuata in data 14 febbraio 2005 dalla M., contenendo l’affermazione che i cambi di destinazione d’uso non si erano verificati e che la domanda di condono aveva ad oggetto solo la realizzazione di un locale di sgombero mansardato e del porticato. Tale dichiarazione era stata ritenuta una condotta post-delictum, non in grado di privare la condotta commessa in data 26 gennaio 2004 di disvalore penale, ma un pentimento, peraltro considerato ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

2. Inoltre il giudice di primo grado aveva già esaustivamente chiarito, nell’affermare l’insussistenza della fattispecie tentata del reato di falso ideologico per induzione (originariamente contestato alla ricorrente), che nessuna astratta idoneità ingannatoria poteva essere riconosciuta a tale dichiarazione. La Corte di appello, pertanto, ha correttamente ribadito l’assoluta irrilevanza della verifica circa la sussistenza della finalità ingannatoria della falsa dichiarazione e della concreta idoneità ingannatoria della dichiarazione sostitutiva, posto che per il delitto di falso di cui all’art. 483 c.p., la giurisprudenza ha chiarito che l’effettiva realizzazione di un inganno non è elemento della fattispecie, dovendosi invece verificare in concreto l’elemento oggettivo, la non rispondenza al vero, al fine dell’eventuale sussistenza di un’ipotesi di reato impossibile ex art. 49 c.p., valutando, con un giudizio "ex ante", l’idoneità dell’azione in riferimento al significato ed al valore dell’atto (Cfr. Sez. 5, n. 9934 del 2/11/1993, Amalfi, Rv. 196439). E’ stato anche precisato che l’attestazione al pubblico ufficiale di circostanze non veritiere in una dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, integra il reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico, anche se quanto dichiarato può essere verificato dal destinatario dell’atto (Cfr.

Sez. 5, n. 11681 del 16/12/1997, Brasola, Rv. 209266).

Di conseguenza il ricorso deve essere rigettato ed al rigetto consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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